#83 Ritratto del terrorista da giovane
L'epic fail di Stewart Rhodes nell'assalto di Capitol Hill; un cecchino americano; il texano che vuole stamparsi anche i mitra; neanche i sopravvissuti alle stragi vorrebbero abolire le armi
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Prologo
Il 4 gennaio mio padre avrebbe compiuto 77 anni. In tutta la sua vita, in cui ha lavorato decisamente troppo, credo che abbia assistito a un unico concerto in trasferta. Quello di Giorgio Gaber a Milano, nel 1974, in occasione dell’uscita dell’album Far finta di esser sani che forse non era l’ascolto ideale per un seienne ma tuttavia è misteriosamente diventato uno degli Lp che mettevo più spesso. Lo riascoltavo in questi giorni e mi sembra che, a differenza di tutti noi altri partecipanti, non sia invecchiato di una virgola. Lucidissima denuncia delle ipocrisie che lastricano, oggi come ieri, la nostra società.
NELLA TESTA DI UN GOLPISTA AMERICANO
Qualche tempo fa, in una trasferta ad altissima intensità di miglia percorse al volante, sono andato in Montana per alcune storie. Tra cui quella di Tasha Adams, ex signora Rhodes, inteso come il fondatore degli Oath Keepers, milizia di estrema destra che ha avuto un ruolo non marginale nell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio di sue anni fa. All’inizio non ero così convinto che fosse una storia così incredibile (mentre il mio capo Livio Quagliata l’ha intuito subito) e invece lo era. Per tutta una serie di circostanze fortuite ci siamo stati simpatici e Tasha mi ha dedicato più tempo del previsto, mi ha aperto l’album di famiglia ed è stata lucidissima nel raccontare il rapporto malato con l’uomo con cui ha avuto sei figli. È la copertina del Venerdì in edicola e sembra un film. Qui l’incipit:
EUREKA (MONTANA). Era iniziato tutto con un cha cha cha a Las Vegas, piedi allineati e poi il destro in fuori, un-due-tre, per finire con un tragico passo dell'oca a Washington, con i "fedeli al giuramento" all'assalto del Campidoglio, teleguidati dall'aspirante ballerino di trent'anni prima. Parliamo di Stewart Rhodes, fondatore degli Oath Keepers («Se l'ordine è incostituzionale, polizia e esercito non devono rispettarlo»), che è stato giudicato colpevole di "cospirazione sediziosa" per il tentato golpe del 6 gennaio 2020 (no, non è quello con le corna) e ora in carcere rischia di restarci sessant'anni. E di Tasha Adams, l'ex moglie con cui ha avuto sei figli, che lui terrorizzava con la pistola quando non provava a strangolarli, che ora siede a un tavolo della sala sul retro del North Point, "bar, grill & casinò", ambiziosa dizione per quello che di fatto è l'unico locale di Eureka, 1400 abitanti a un passo dal confine col Canada, "una piccola città con un cuore grande" come orgogliosamente rivendica il sito del comune. Anche questa donna, quanto a dimensioni cardiache, non è messa male. E, oltre a farci da guida nel labirinto delle ossessioni di quello che per tanti anni, a dispetto di ogni ragionevolezza, è stato il suo uomo, ci racconta anche la resistibile ascesa e l'inevitabile declino di un terrorista americano. Che aveva intravisto nella rabbia di qualche migliaio di sostenitori che si erano bevuti la fola delle elezioni rubate a Trump, l'occasione di mettere la sua ciurma di suprematisti al servizio del putsch che, occupando il Congresso e facendo tutto quel che c'era da fare («Avrei impiccato Pelosi (la speaker democratica) a un lampione» aveva detto in un vocale fatto sentire in aula), esattamente due anni fa voleva impedire l'insediamento di Biden. Dopo tanti addestramenti nei boschi e dimostrazioni muscolari in varie città dell'America interna, avrebbe dovuto essere il giorno dell'«esplosione che provasse il suo talento» e invece, proprio come nel bombarolo di De Andre', aveva finito per piangere «un torrente di vocali» nel constatare il fallimentare bilancio di 5 assalitori e 4 agenti morti, 138 poliziotti feriti e quasi mille ultras trumpiani rinviati a giudizio. Senza che Donald rispondesse al suo disperato invito: invocare l'Insurrection Act e chiamare lui e i suoi uomini a difenderlo fosse anche servita una «fottuta guerra civile», un'eventualità che gli sembrava ragionevolissima. «Avevo 18 anni e insegnavo "balli da sala" a Vegas. Lui venne a lezione. Ne aveva 25, era stato esonerato dal militare per essersi lesionato la schiena in un lancio col paracadute» esordisce questa cinquantenne bionda, con un vestito a maglia multicolore, un velo di tristezza interrotto da improvvise risate liberatorie: «Io, di famiglia mormona, ceto medio-alto, cresciuta in una casa di quasi 400 metri quadri. Lui, erede di migranti venuti a raccogliere l'uva, una nonna prostituta messicana, una madre con sei matrimoni alle spalle e un presente nell'immobiliare. Stewart era aggressivo, un po' irascibile, molto esotico rispetto alla mia estrazione, quindi irresistibile». Se avesse avuto allora la stessa lucidità di oggi, questa donna molto articolata, che parla della sua «hybris» mentre sorseggia un caffè orrendo, non si troverebbe a testimoniare, nello stesso luogo dove ha incontrato l'Fbi, sul sistema operativo psichico di un aspirante eversore. Il giovane Rhodes è, allora, ancora tante piccole cose: parcheggiatore d'auto per i clienti di un albergo; commesso part time in un negozio di armi; scultore che riesce a vendere («Mi dissi: vedi, se ama l'arte non può essere un vero sociopatico!»). Lei voleva scartare rispetto ai rigidi binari di gioventù. E lui è il dirottatore di cui ha bisogno.
AMERICAN SNIPER
Qualche anno fa avevo scritto di un cecchino americano che aveva scritto un libro sulle sue gesta. L’inizio:
Aveva cominciato con una donna. Fine marzo 2003, nella zona di Nassirya. Lei si stava avvicinando a una decina di marine quando tirò fuori da sotto la tunica un oggetto giallo. Lui la seguiva dal mirino telescopico, appostato sopra un tetto. Era un granata, disse il suo capo ordinando di sparare. «Un colpo, un’uccisione» è il motto dei cecchini. Così fu. Benvenuto in Iraq, soldato Chris Kyle. Anni dopo scriverà: «Sparare era il mio compito, e non lo rinnego» e «salvai diversi soldati, le cui vite valevano chiaramente di più dell’anima perversa di quella donna». Un mirino davvero potente per potersi spingere, senza il minimo dubbio, in quelle profondità. D’altronde il suo plotone si era dipinto il Punitore, un super-eroe giustiziere della Marvel, sul giubbetto antiproiettile e sull’elmetto. Centocinquantanove bersagli centrati dopo il giovanotto del Texas era diventato una leggenda. Il più letale cecchino della storia americana, come recita il sottotitolo della sua autobiografia American Sniper (Mondadori, pag, 350, e. 18). Se le avessero seppellitte tutte insieme le sue vittime avrebbero riempito una fossa comune degna dei narcos. Lui, autentica arma di distruzione di massa tra le farlocche annunciate allora, sembrava digerire bene il pesante record. La parte più difficile erano i ritorni a casa, tra una missione e l’altra. È così per tutti i reduci e Kyle, ormai star, voleva dare un mano. A tutti, compreso il venticinquenne disturbato che aveva avuto la pessima idea di portare con se a un poligono vicino casa.
Se non fosse per il sanguinoso paradosso della sua fine, quella di Chris Kyle sarebbe una storia eccezionale solo a metà. Per un bimbo di Odessa, Texas, che ha imparato a sparare a otto anni, prima ancora di andare in bicicletta, avere una mira inesorabile non era poi così sorprendente. Il padre, insegnante e diacono, lo porta a caccia di fagiani, quaglie e cervi. A Kyle piace la vita nei ranch. Diventa bravissimo nel rodeo sino a quando un cavallo selvaggio non gli rovina addosso e gli spezza qualche costola e il polso. Carriera finita. Anni dopo le stesse viti usate per rimettergli insieme il metatarso rischiano di impedirgli anche quella per cui si sente più portato, entrare nelle Operazioni speciali della marina. Si addestra a Coronado, California, dove ha sede il Team Three dei Seals (il Six, al quale i suoi superiori lo candideranno, è quello che diventerà celebre per aver ucciso Bin Laden). Piccolissime micidiali unità per operazioni segrete che, il più delle volte, non devono lasciare traccia. Tra i corsi c’è la versione estrema del Sere, che sta per Survival, Evasion, Resistance and Escape in cui il marine deve riuscire a liberarsi da un sequestro. L’ultra-addestramento dovrebbe ridurre al minimo il contraccolpo dello stress da disturbo post traumatico di cui, a vari livelli, un quinto dei reduci soffre. Gli sniper più di altri perché loro la morte del nemico la vedono ad alta risoluzione, magnificata in ogni dettaglio splatter dal mirino telescopico.
PISTOLE DA STAMPARE IN 3D
Un’altra volta avevo intervistato il ragazzo – texano, of course – che aveva realizzato la prima pistola stampata in 3d, che così poteva evitare i pochi controlli che pure negli Stati uniti restano. esperienza istruttiva:
New York. Alla fine, stando ai fatti, c’è un ragazzo che ha messo in rete un file. Un file con le specifiche per creare con una stampante 3d quindici pezzi di plastica. Pezzi che tutti insieme fanno una pistola. Una mossa che ha fatto intervenire d’urgenza il Dipartimento di Stato per oscurare il sito che ospitava le istruzioni digitali (nelle 48 ore online è stato comunque scaricato da circa 100mila persone). E che ha convinto il mensile Wired a inserire Cody R. Wilson nella classifica delle persone più pericolose del mondo. Un venticinquenne facile al sorriso, dai lineamenti delicati e i capelli corti tagliati di fresco, sprofondato in una poltrona verde salvia del leggendario hotel Waldorf Astoria, è la mente dietro a quella che ha battezzato la sua creatura Liberator, come l’arma che gli americani distribuirono agli alleati durante la seconda guerra mondiale. «Una wiki-weapon, una pistola fai-da-te. E poi un mitra in ogni casa. Sì, mi sembra davvero una bellissima prospettiva. Molto democratica» esordisce tranquillo. Come un manager che pianifica l’ambizioso lancio globale del suo prodotto. Con la differenza che lui lo regala. E se ci fai clic, quello che gli sta davanti muore.
Questo giovane uomo è un mistero. È stato difficilissimo fissare un appuntamento. Gli avevo scritto settimane prima proponendo di andare a visitare la sede di Defense Distributed, l’organizzazione no profit che ha creato con un socio a Austin, Texas, dove per un paio d’anni ha studiato legge. Risposta di una riga: «Fammici pensare». Poi niente per giorni. Altre mail, altri silenzi. Si divideva tra l’Arkansas, il Texas, un convegno in Canada, un appuntamento con un editore, le riprese per un documentario. Poi salta fuori l’invito per un dibattito al MoMA, il museo di arte contemporanea di New York, su «violenza e design». Ma non è sicuro di trovare il tempo perché sarà con la sua significant other, una formula neutra e assai ridicola per dire fidanzata, e dovrà «farla divertire». Tutto mi sarei aspettato, da uno che vuole armare ogni singolo americano per rispondere colpo su colpo al monopolio della forza da parte dello Stato, tranne che cadesse vittima del politically correct. Per molti versi dimostra i suoi anni. Per altri ha una lucidità, e molte letture, incongruenti con la sua condizione anagrafica. In un insieme complessivamente inquietante. Ma procediamo con ordine. Nell’estate del 2012, ancora all’università, annuncia su internet l’intenzione di mettere in rete le istruzioni per costruirsi una pistola. E chiede un contributo economico a chiunque condivida il progetto. Il sottobosco di fanatici del secondo emendamento, quello sul diritto sacrosanto di portare armi, suprematisti ariani e preppers che si preparano a un incombente scontro finale con i federali (googlate «Ar15 resistance» per capire di che livello di follia stiamo parlando), risponde con entusiasmo.
Il tempismo non sembrerebbe dei migliori. Pochi mesi prima c’è stato il massacro di Sandy Hook dove uno studente armato di Ar15 ha fatto fuori venti suoi compagni e sei adulti.
NEPPURE I RAGAZZI DI PARKLAND CE LA FANNO…
E a Aurora, in Colorado, avevo partecipato a un raduno dei sopravvissuti della strage di Parkland. la cosa soprendente è che neppure loro ce la facevano a dire una cosa netta contro le armi. Un estratto:
È il punto tre del decalogo ufficiale delle loro richieste, in cima alla quale svetta quella più sorprendente: «Finanziare la ricerca sulla violenza da armi da fuoco» dal momento che al Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, il nostro Istituto superiore di sanità, da anni hanno tolto finanziamenti per studiare il fenomeno dal punto di vista dell'impatto della salute pubblica. A rischio di spoiler, posso assicurare che non giova (la principale causa di morte dei 15-19enni è l'omicidio o suicidio, e i neri rischiano 10 volte più dei bianchi di finire assassinati). Ma torniamo a Jaclyn, alla sua fiducia nei confronti del mondo (quando finalmente vede Matt, un attivista locale con cui si è scritta a lungo, non si trattiene dal complimentare i suoi «magnifici denti»): «Un'altra richiesta è mettere al bando i caricatori ad alta capacità, ovvero quelli da 10 pallottole in su. Chi li difende dice che servono per cacciare ma posso dirvi che, se vi servono dieci colpi per uccidere un cervo, siete proprio un pessimo cacciatore. Per non dire del fatto che quei proiettili esplodono all'interno e rovinano la carne». Che è una maniera difficilmente smentibile di argomentare, ma mi ricorda certi dialoghi surreali in Le iene del primo, insuperato Tarantino. Il punto dieci della lista è quello della «conservazione sicura», ovvero il fatto che non puoi tenere un'arma sul tavolo a rischio che tuo figlio la prenda e prema il grilletto, come regolarmente accade: «Mia nonna ha una pistola, ed è tutto quello che le serve per difendersi. Sa come usarla, come pulirla, come riporla. Non ci penso neanche a volergliela togliere, ma non tutti sono così capaci e saggi come lei». Al più limitiamo la guida, ai vecchi, ma non il porto d'armi.
Avrei bisogno di tempo per metabolizzare l'effetto che tutta questa estrema moderazione mi suscita. Ero venuto qui, essendomi letto un bel po' di articoli sul loro conto, convinto di incontrare dei rivoluzionari. Cameron Kaski, il volto più celebre, è quello che aveva chiesto in diretta al repubblicano Mark Rubio se avrebbe smesso di accettare i milioni della Nra ottenendo in risposta una spudorato «no, accetto fondi da chiunque sostenga le mie battaglie». Ma almeno gliel'aveva chiesto. Emma Gonzalez, altra pasionaria, aveva liquidato come «stronzate» gli pseudo-impegni di Trump per affrontare il problema. Parliamo di una sedicenne che ingaggia un corpo a corpo mediatico con il twittatore-in-capo. Forse avrei dovuto esser messo sull'avviso dall'autopresentazione sempre su Twitter di David Hogg, altro volto notissimo: sotto la scritta «I giovani vinceranno» si era descritto come «Più alto, più magro e più simpatico di persona». Però, ehi, sono pur sempre ragazzi e non il Subcomandante Marcos nella Selva Lacandona. Tuttavia che proprio nessuno osasse avanzare dubbi più radicali sul peccato originale, l'emendamento tanto celebrato che metteva la potenza di fuoco di un marine nelle mani del primo deficiente, mi stava sorprendendo. Se non ora, con l'incoscienza del liceo e già tanti compagni di classe da visitare al camposanto, quando?
Epilogo
Tra le cose molto notevoli dette e scritte da George Orwell c’è questa frase: “Riuscire a vedere cosa c’è davanti al proprio naso richiede uno sforzo costante”. Giotto da Bondone, il monologo gaberiano che mi ipnotizzava da piccolo, riprende il concetto.
La premessa:
Il cielo, si sa, nei quadri di allora è sempre dipinto d'oro, oro zecchino, implacabile e fisso/A Giotto non sembrava tanto giusto, e qui comincia il suo tormento
La conclusione:
Poi, gli casca l'occhio sul cielo e fa: Boh A me mi sembra azzurro Maremma maiala il cielo è azzurro No, no, il cielo è d'oro, è sempre stato d'oro, che sciocchezza, è d'oro, il cielo Lo dipinge d'azzurro, il bestione ignorante, e tutti: Eeeehh E anche Umberto Eco, che è cieco ma intelligente: Vuoi vedere che è azzurro davvero? Bastava guardare Ho capito Ho capito che non c'è niente da capire. Ma non è ancora capire?
Ricordiamocene (e auguri papà, e grazie)!