#183 La disuguaglianza è una scelta
1) Non un destino. E allora scegliamo diversamente, scegliamo meglio dice Piketty 2) Mentre i suoi soci Saez e Zucman spingono per una tassa sulla ricchezza 3) La chiedono anche i milionari patriotici
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Prologo
Buon Primo maggio in ritardo!
PARLA PIKETTY: LA SINISTRA SI È AMMOSCIATA PERCHÉ…
Sul Venerdì uscito ieri ho intervistato Piketty. Ero molto contento, perché è un gigante, ma è stato anche l’intervistato meno generoso della mia carriera. È sempre meglio non incontrare i propri miti. Un estratto:
La sua fama, semplificando al massimo, è dovuta dall’aver spiegato che, nel corso dei secoli, il valore delle rendite è quasi sempre cresciuto più di quello del lavoro. E nell’averci ricordato, come ripete nella conversazione con Sandel, che sebbene le disuguaglianze siano oggi molto gravi erano peggiori nei secoli scorsi. Ma questo non ci può bastare, no?
«Certo che no! Ci sono state letture pessimistiche del mio Il Capitale nel XXI secolo e questo mi ha intristito perché io sono di indole ottimista. Nei libri successivi, soprattutto in Breve storia dell’uguaglianza, ho insistito molto su questa dimensione ottimista e, spero, mobilitante. Ovvero che il movimento estremamente potente che negli ultimi due-tre secoli, dalla Rivoluzione francese in poi, ha portato dall’abolizione della schiavitù alla sovranità popolare verso l’uguaglianza, è un movimento ancora in marcia».
Nei trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale la disuguaglianza tra ricchi e poveri in Occidente si è ridotta. Complice il fatto, mai abbastanza ripetuto, che nonostante (o a causa di?) imposte enormemente più alte, fino al 90 per cento, anche in America negli anni 50 e 60, la produttività fosse ai massimi. Perché allora, se tutto andava bene, dagli anni Ottanta si impose il neoliberismo di Reagan e Thatcher?
«Prima della Prima guerra mondiale, le spese pubbliche erano meno del 10 per cento del reddito nazionale in tutti i Paesi. Oggi, in quelli europei, siamo al 40-50. Nessuno vuole tornare indietro sopprimendo la scuola, la sanità, le infrastrutture pubbliche. Ma se un secolo fa avessimo detto alle élite dell’epoca che saremmo passati a spese pubbliche pari a metà del reddito nazionale, avrebbero obiettato che si trattava di comunismo, che sarebbe stata una rovina economica. E invece è stata la più grande crescita della produttività e della prosperità che abbiamo mai visto. Quindi questa battaglia, che io chiamo la rivoluzione dello Stato sociale, o la rivoluzione socialdemocratica, è stata vinta. A partire dagli anni 80-90, il movimento socialdemocratico in senso lato si è esaurito innanzitutto perché vittima del proprio successo. Nel senso che c’era la sensazione che non ci fosse più bisogno di far progredire il sistema sociale. Le risorse pubbliche messe sull’istruzione, per dire, sono decuplicate dal 1910 al 1990, passando dallo 0,5 per cento del Pil a circa il 5-6. E lì sono rimaste, nonostante una popolazione studentesca da allora raddoppiata. Ma il neoliberismo si è rafforzato anche in seguito alla caduta del comunismo sovietico. Malgrado l’immenso fallimento che ha rappresentato, infatti, finché il socialismo reale è esistito metteva pressione sul sistema capitalistico. Mentre, a partire dal 1990-2000, i socialdemocratici occidentali si sono forse un po’ seduti sugli allori».
L’euforia neoliberale, scrive, comincia a sgretolarsi con la crisi del 2008, poi il Covid, fino al trumpismo di oggi…
«Se la promessa di prosperità del reaganismo avesse funzionato, cioè se la diminuzione delle imposte sui più ricchi e la deregolamentazione avessero portato a una crescita senza precedenti dei redditi della classe media negli Stati Uniti, oggi andrebbe tutto bene. Se invece le cose vanno così male, e il partito repubblicano è diventato quello che è diventato, è perché il fallimento del reaganismo ha condotto a una fuga in avanti verso il nazionalismo. Un’evoluzione quasi inevitabile. Reagan era un ottimista, credeva nella crescita e nel mercato. Trump no. E ha iniziato a dire “Beh, il resto del mondo – messicani, cinesi, europei – vi ha tolto il lavoro, vi ha derubato”. È ancora di più della fine del neoliberismo: bisognerà imparare a ripensare il mondo perché gli Stati Uniti hanno cessato di essere un paese affidabile. Con un capo totalmente instabile ed erratico e nessuna forza democratica che permetta di calmare le acque».
👉 PODCAST dell’intervista realizzato dall’Ia (a parte la pronuncia assurda, è stupefacente)
TASSARE I RICCHI SI PUÒ. E SI DEVE
In occasione dell’uscita di Il trionfo dell’ingiustizia dei due soci di Piketty, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, intervistai il primo dei due. Un estratto:
Come si raddrizzano storture del genere?
«Con una patrimoniale del 2 per cento oltre i 50 milioni di dollari e del 3 oltre il miliardo, simile a quella proposta dalla senatrice Elizabeth Warren, Buffett verserebbe al fisco circa 1,8 miliardi all'anno, ovvero mille volte quanto fa adesso. Lui resterebbe ricchissimo e con quei soldi potrebbero essere finanziati, per esempio, i congedi maternità o gli asili nido, entrambi inesistenti negli Stati uniti. Oltre, ovviamente, alla sanità per tutti».
Ma la patrimoniale è una kryptonite politica. Anche il suo ex presidente François Hollande era stato eletto su quella promessa, salvo rimangiarsela appena insediato...
«Facciamoci questa semplice domanda: la gente sta meglio adesso o fino agli anni 80 quando l'aliquota marginale era del 78 per cento, per non dire del 91 per cento in vigore dal 1951 al 1963? Grazie a questa mancata redistribuzione dal 1980 a oggi lo 0,001 per cento degli americani più ricchi ha visto il proprio reddito crescere di oltre il 600 per cento contro lo 0,1 per cento annuo della metà più povera della popolazione. Le tasse, mal gestite, sono un moltiplicatore di disuguaglianza».
Oltre alla patrimoniale, però voi segnalate tanti altri problemi. A partire dal fatto che negli ultimi quarant'anni le imposte sulle aziende siano state dimezzate. Nel 2017 Trump le ha portate dal 35 al 21 per cento, ma in Irlanda sono al 12,5 e alle Bermuda, dove Google ha trasferito il cuore dei suoi ricavi prima della quotazione, zero. È una tendenza inevitabile?
«No, sono scelte. Per queste differenze il 40 per cento dalle multinazionali nel mondo registra i profitti in Paesi dal fisco vantaggioso, sottraendo imponibile nei luoghi in cui la ricchezza viene prodotta. Noi proponiamo che gli Stati divengano esattori di ultima istanza: se una multinazionale paga il 12 in Irlanda mentre in Italia dovrebbe pagare il 24, Roma può pretendere che versi la differenza. Per cambiare le leggi fiscali nella Ue serve l'unanimità e questo è il motivo per cui la digitale tax non passa: alcuni Paesi hanno fatto degli sconti fiscali il loro business primario. Niente vieta però a singoli Paesi come Germania, Francia, Italia e Spagna di agire in autonomia. Il loro esempio farebbe scuola. Una proposta di Biden (che pure votò sì nell'86 al seminale taglio delle tasse reaganiano) va in questa direzione».
ABIGAIL DISNEY, MILIONARIA PATRIOTICA…
Qualche anno fa avevo intervistato una milionaria che chiedeva di essere tassata di più. Un estratto:
Per lei l'agnizione politica definitiva arriva con il presidente-attore. E, con essa, la rottura con la famiglia. «I miei erano molto conservatori. Mia madre, che pur amavo, se fosse viva credo che sarebbe diventata un'ardente trumpiana. Abbiamo litigato molto, in quegli anni, perché cercavo di convincerla che le mie posizioni critiche derivavano proprio dai principi che mi avevano insegnato loro: sii gentile e giusta, soprattutto. Ma il fatto che vivessimo in una condizione di formidabile privilegio le sembrava l'ordine naturale delle cose. D'altronde anche mio nonno Roy tendeva a essere buono con i lavoratori perché gli piaceva essere amato, ma detestava i sindacati». Il che ripropone la confusione tra filantropia e tasse. E la distinzione pre-rivoluzione francese tra droits, diritti, e libertés octroyés, concesse dal sovrano in vena di benevolenza. Qualche tempo fa, le dico, avevo intervistato Bob Iger, il leggendario Ceo che ha fatto lievitare ulteriormente il valore di Disney e mi era sembrato un tipo di gentilezza rara. Non la sorprende affatto: «Ma certo che è simpatico, un vero nice guy, non un manager che attivamente ha compiuto azioni per danneggiare i lavoratori, ma l'asticella per essere nice è molto più bassa di quella per poter essere definito a good guy, una brava persona. Jeff Bezos, sfacciatamente, non prova neanche a essere nice. Mentre Howard Schultz di Starbucks è senz'altro nice, ma è anche good? A giudicare dall'ultima salva di licenziamenti e alla feroce resistenza contro l'entrata dei sindacati nei negozi purtroppo lo escludo».
L'anamnesi è impeccabile, compreso l'excursus che ha portato in America il livello di diseguaglianza – come calcolato dall'economista Robert Reich – più alto dal 1928, sperando che non si porti dietro anche quello che seguì allora. Ma la terapia? Intanto, spiega Disney con una solo apparente deformazione professionale, c'è da «cambiare la narrazione». Ovvero: «A un certo punto siamo passati da La vita è meravigliosa a Wall Street con Michael Douglas. E non è un cambiamento da poco. Ricordo il cinema in cui, nel 1987, vidi il film di Oliver Stone in cui il protagonista Gordon Gekko diceva "l'avidità è buona", e gli applausi che scoppiarono in sala. Dieci anni più tardi la transizione si compiva con Glengarry Glen Ross di David Mamet in cui il terrore si impadroniva di un'agenzia immobiliare in cui solo due agenti sopravviveranno a un feroce giro di licenziamenti. Questa era la nuova realtà e il cinema la rispecchiava. Ecco, bisogna ricominciare da un racconto diverso». Basterebbe? «No, ma la risposta culturale è essenziale per rispondere a una battaglia che è stata, innanzitutto, culturale. E che inizia, a ben vedere, anche prima di Reagan. Nel 1971 quando esce il Powell Memo, il documento di 34 pagine vergato dall'omonimo giudice della corte suprema, che invita le principali compagnie statunitensi a devolvere il 10 per cento dei loro budget pubblicitari a uno sforzo di propaganda per mettere a busta paga professori universitari, giornalisti, fino a riscrivere i libri di storia in chiave conservatrice e aziendalista. In quel momento si mettono le fondamenta per i due pilastri del neoliberalismo che poi conquisterà anche i liberal, l'ala più moderata dei democratici. Uno: il governo fa solo danni, meno ce n'è meglio è (e quindi le tasse vengono vissute come una multa iniqua invece del collante per una società solidale). Due: stiamo al mondo da soli, e non c'è da fidarsi di nessuno (da George Bailey, l'inguaribile ottimista del film di Capra, a Gordon Gekko, appunto). Ecco, dal momento che la nostra democrazia è stata dirottata prima dalle idee e poi dai soldi delle corporation, bisogna trovare il modo di ridurne il peso nella politica. Provando a rovesciare la disastrosa sentenza Citizen United del 2009 in cui una corte suprema a maggioranza conservatrice decise che i finanziamenti elettorali delle aziende dovevano considerarsi parte della libera manifestazione del pensiero e quindi non potevano essere limitate. Una vera sciagura».
…COME LA FAMIGLIA MARZOTTO
Poi ho scoperto che anche in Italia un paio di famiglie avevano firmato lo stesso appello. A partire dai Notarbartolo-Marzotto. Un estratto:
Ci vediamo nella palazzina di Foro Buonaparte, a due passi dal Castello Sforzesco di Milano, dove ha sede Partners For Change (Pfc), il family office, ovvero la società che si occupa di preservare e far crescere il loro ingente patrimonio, però investendo in progetti a impatto sociale e ambientale e devolvendo il 10 per cento degli utili in «filantropia strategica». Soldi che arrivano, nonostante i feudi siciliani dei Notarbartolo di Villarosa, soprattutto dal ramo materno. Cioè da Veronica Marzotto, presidente della omonima fondazione, figlia del conte Paolo e nipote di Gaetano Junior che negli anni 30 estese gli affari ben oltre il tessile che nel Vicentino fece grande il casato industriale. «Senza perdere mai di vista il benessere dei lavoratori con la Città Sociale di Valdagno realizzata dai suoi antenati», chiosa Veronica. La prima a firmare la petizione, ormai cinque anni fa, è stata però sua figlia Giorgiana. Quarantun anni, da una ventina a Londra, dopo economia alla Bocconi e un master all’Insead. Dice che, appena laureata, dei soldi di famiglia non voleva saperne: tutto avrebbe voluto essere, meno che la figlia o la nipote di.
Poi ha scoperto la finanza sociale e si è rappacificata con la propria estrazione: forse si potevano usare quelle fortune, e Pfc vale un miliardo di euro, per fare la differenza – formula che spesso è fuffa, ma in questo caso sembra proprio di no – come da ragione sociale. Giorgiana conosce la svedese Kristina Johansson di Resource Justice, poi promotrice di Patriotic Millionaires UK e nel 2019 firma l’appello per essere tassati di più. A ruota la segue il fratello Guglielmo, a sua volta economista e investitore in Pfc ma anche nel suo Anya Capital. In quale humus politico affondano queste scelte, chiedo. Giorgiana: «Per cominciare da mia madre. Ricordo la gratitudine per le prime calze che mi comprò, invece di “ereditarle” da qualcun altro. O quando ci faceva notare che certi nostri giocattoli costavano come una settimana di lavoro di chi ci aiutava in casa. Capitalisti, ma consapevoli. Poi mi sono sempre identificata nel centrosinistra italiano». Guglielmo: «Alle ultime europee ho creduto in Alessandro Tommasi, già fondatore di Will Media (primo caso di successo di informazione su Instagram, ndr) che ha lanciato il partito Nos che sosteneva Azione. Però non hanno passato il quorum». Obietto che Calenda sbotterebbe a sentir parlar di patrimoniale: «Ma neanch’io, quando dico di tassare i ricchi, penso alla patrimoniale su uno che, avendo ereditato due appartamenti a Milano che magari fatica a mantenere, risulta sulla carta milionario. Perché in questo modo troppe persone si sentirebbero chiamate in causa e il cambiamento non passerebbe mai». Giorgiana e Guglielmo intendono i ricchi-ricchi, quelli tipo loro. Giorgiana: «La soglia su cui si sono assestati i Milionari Patriottici comprende tutti i miliardari, ovviamente, e chi ha un patrimonio da 10 milioni in su». Stando ai Milionari Patriottici inglesi, ciò porterebbe alle casse britanniche 24 miliardi di sterline all’anno.
HARVARD GRATIS PER I NON RICCHI?
L’ultima Ricchi e poveri:
Prima che Trump minacciasse Harvard di toglierle 2,2 miliardi di dollari di fondi federali il presidente dell’ateneo aveva annunciato che, a partire dal prossimo anno accademico, se venite da una famiglia non troppo ricca (con redditi annui sotto i 200 mila dollari, asticella sotto cui sta circa l’86 per cento degli americani), l’iscrizione sarà gratuita. Non solo: se i vostri genitori stanno sotto i 100 mila dollari all’anno e – ovviamente – passate le ammissioni, l’università vi abbonerà anche vitto e alloggio. Non è un regalo da poco dal momento che la retta è sui 55 mila dollari all’anno che diventano almeno 80 mila col resto. La decisione, piuttosto contro tendenza – e per il momento non revocata –, è stata presa per “rendere abbordabile a più studenti che mai” la leggendaria istituzione che ha appena compiuto 388 di vita. Da noi anche le università private come la Bocconi costano decisamente meno, sui 16 mila euro all’anno per la triennale, ma anche le agevolazioni sono assai inferiori (circa un terzo può averne, tra parziali e totali). Se c’è un modo per far ripartire l’inceppato ascensore sociale di figli condannati a giocare nello stesso campionato dei padri quello passa per l’istruzione superiore. Se vogliamo che i poveri diventino meno poveri l’unica è mandarli a studiare. E siccome non si possono permettere le buone università, l’unica è spalancare le porte.