#182 Il True Detective della condizione umana
1) Nic Pizzolatto vuota il sacco, comprese certe simpatie politiche 2) Fabio Ciconte sul "consumatore critico" 3) Prof e inflazione 4) Case popolari 5) Robotaxi 6) Un articolaccio scritto da ChatGPT
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UNO SHOWRUNNER CHE LA SA VERAMENTE LUNGA
Ho intervistato Nic Pizzolatto, showrunner delle prime tre stagioni di True Detective. È stata una conversazione per molti versi sorprendente. Un estratto (il resto sul Venerdì):
Qui, mi sembra, arriviamo al nocciolo della sua poetica: la definisca lei.
«L’elemento più coerente nel mio lavoro è un’ossessione per il tempo, per il modo in cui il passato non finisce mai. Qualunque sia la ragione per cui siamo al mondo, una parte centrale del viaggio è disfarci dalle abitudini inconsce che abbiamo accumulato nel corso della nostra vita. I nostri anni formativi hanno creato una serie di adattamenti che alla fine diventano il nostro carattere. Finché non raggiungiamo un punto nella vita in cui decidiamo di esaminarli e chiederci chi siamo realmente. Se sei stato abbastanza fortunato da realizzare uno dei tuoi sogni scoprirai che ora il sogno assorbe tutta la tua vita quotidiana. E ti accorgi anche che era un miraggio, perché doveva essere trasformativo e invece, dopo che l’hai ottenuto, sei rimasto lo stesso. Quindi devi iniziare a farti domande diverse. Perché volevo quello? Cosa pensavo sarebbe successo? Passiamo da un oggetto del desiderio all’altro e ci rendiamo conto che nessuna delle cose che possiamo acquisire al di fuori di noi ci cambierà. Allora ci sediamo per fare il lavoro della seconda metà dell’età adulta. Che è scoprire per cosa stiamo realmente vivendo e perché».
Non so voi, ma nelle interviste agli sceneggiatori che mi è capitato di leggere non avevo ancora trovato elaborazioni così originali sulla condizione umana. Gli chiedo da quali studi scaturiscano. Dopo gli anni duri, Pizzolatto ha vinto una borsa di studio e si è laureato in inglese e filosofia alla Louisiana State University. Poi ha fatto un master in letteratura all’università dell’Arkansas, «non perché volessi entrare nel mondo accademico o che. Volevo solo avere del tempo, pagato dalla borsa di studio, per provare a diventare uno scrittore. Sapendo che altrimenti mi sarei iscritto alla facoltà di legge perché l’unica certezza che avevo era che non volevo più essere povero». Quindi ha scritto alcuni racconti ben accolti dalle riviste. Ed è infine arrivato a Hollywood «a 35 anni, dopo 17 anni di monolocali, cibo in scatola e neanche i soldi per le sigarette».
In un’intervista ha consigliato ad aspiranti sceneggiatori di fare amicizia con qualche game designer, dal momento che la tv diventerà sempre meno rilevante. Perché?
«Perché alla tv la tecnologia sta facendo quel che ha già fatto alla musica. La sta trasformando in usa e getta. Prima I Soprano andavano in onda alle otto di sera la domenica e l’indomani tutti ne parlavano. Oggi puoi guardare qualsiasi cosa in qualsiasi momento, e tutto sembra molto usa e getta. C’è l’abbonamento, ma quando non paghi per una singola cosa la apprezzi meno. E ormai c’è più gente che guarda brevi spezzoni su YouTube che la tv. Quando ho visto i numeri che fanno alcuni videogiochi ho pensato che, quando qualcuno troverà il modo di unire una narrativa sofisticata all’interattività, i videogiochi diverranno il mezzo narrativo dominante. La speranza, però, è che in passato, quando è arrivato un nuovo mezzo per raccontare storie, ha finito per legittimare il mezzo precedente. Le opere teatrali che scriveva Shakespeare erano per i plebei: i sofisticati leggevano poesia. Poi sono arrivati i romanzi serializzati e, di colpo, i sofisticati sono tornati al teatro. Idem per il cinema, che ha rilegittimato i romanzi. Fino a oggi».
NO, PURTROPPO NON SI SALVA IL PIANETA A CENA
Dal numero scorso del Venerdì mi ero dimenticato di segnalare una recensione di Il cibo è politica di Fabio Ciconte. Iniziava così:
Alla fine delle presentazioni dei suoi libri sull'agricoltura sostenibile, contro i supermercati e la pretesa di avere ogni frutto in qualsiasi stagione dell'anno, c'era sempre qualcuno che gli si avvicinava, la coda tra le gambe: «Mi dispiace molto ma io, col salario che ho, posso solo comprare da Eurospin». Al che Fabio Ciconte, esperto di temi alimentari e presidente dell'associazione ambientalista Terra!, dispensava assoluzioni private: «Capisco perfettamente…». Fino a quando ha deciso di darne una plenaria che fa più o meno così: non è colpa nostra se il capitalismo alimentare è profondamente iniquo. Soprattutto non siamo noi a poterlo cambiare con i nostri comportamenti individuali. Con quelli collettivi, invece, sì. Perché Il cibo è politica come da titolo del suo ultimo saggio che smonta la narrazione piuttosto diffusa che dà ai consumatori una responsabilità esorbitante e, in ultimo, piuttosto ininfluente. Un'operazione verità che rischia di deludere, se non indispettire, alcuni suoi vecchi amici e alleati. Forse anche dei nostri lettori. Che con le migliori intenzioni pensano, col titolo di un altro bel libro di qualche anno fa, di "Salvare il mondo, prima di cena". Togliendo la carne dal menu. È ovviamente più complesso di così. Segue dibattito (via Zoom).
Lei dice che la domanda "cosa posso fare come consumatore" è fuorviante: perché? «Perché sposta l'attenzione sulla responsabilità individuale, assolvendo i veri responsabili a monte della filiera. Ovvero la grandi distribuzione organizzata, che con la leva del prezzo schiaccia la produzione agricola. E la politica che non crea le condizioni per cui le persone, non solo gli agricoltori, abbiano salari decenti che permettano loro comportamenti alimentari migliori e più consapevoli. Perché se guadagni mille euro al mese non hai le risorse per rifornirti dai Gas, i gruppi solidali d'acquisto. E se arrivi la sera a casa stremato non hai nemmeno la forza per cucinare e compri qualcosa di bell'e fatto al supermercato. È tutto sbagliato ma è anche tutto perfettamente comprensibile». E rimanda alla contraddizione fondativa tra consumatore (che va in sollucchero per gli sconti di Amazon) e cittadino (che biasima le chiusure dei negozi di prossimità). Quindi Jonathan Safran Foer, quando nel libro prima citato invitava a mangiare meno carne come risposta individuale alla crisi climatica, si illudeva? «Io capisco l'intenzione e la apprezzo ma poi non posso non far notare che, in questi ultimi tempi, nonostante la maggior consapevolezza, la produzione animale è aumentata esponenzialmente: ammazziamo ormai 70 miliardi di animali all'anno. In America si parla di penuria di uova nonostante se ne producano 1600 miliardi. Significa altrettante galline tenute in allevamenti intensivi che potrebbero regalarci un'altra pandemia. Quel che mi limito a dire è: usciamo da una dimensione autoassolutoria ("Io ho la coscienza a posto") ed entriamo in una politica, su cosa possiamo fare noi, tutti insieme, per risolvere il problema a monte, non a valle».
INFLAZIONE & CASE POPOLARI
La rubrica Ricchi e poveri del 18 aprile 2025
Liceo Amaldi, a Tor Bella Monaca, Roma. Una ventina di prof, dopo aver spiegato in classe che cosa sia l’inflazione e che effetti abbia, mette in scena un flash mob. Uno striscione dice: “Ridateci i nostri salari”. Altri cartelli chiedono la restituzione di 450 euro, appunto, quelli che negli ultimi due anni l’inflazione al 17,3 per cento ha aggiunto ai prezzi delle merci più comuni. Quando il rinnovo del contratto, spiegano i docenti Danilo Corradi e Ilaria Tagliaferri, gli porterà 150 euro lordi ci sarà poco da festeggiare perché rispetto al 2021 saranno comunque più poveri di 300 euro al mese (la differenza tra -450 e +150). In una petizione su Change.org che in un paio di settimane ha già raccolto milleseicento firme chiedono che la “tassa occulta” dell’inflazione sia restituita loro in stipendi. Due rubriche fa scrivevamo che le buste paghe italiane, per l’Ilo, non si sono mai riprese dalla crisi del 2008. Andando indietro al 2010, e non solo agli ultimi due anni, il Coordinamento Amaldi, su dati forniti da Cgil, quantifica l’effetto dell’inflazione al 32 per cento. E se ieri servivano 5,4 mensilità per comprare una Fiat Panda, oggi ne servono quasi nove. Per andare a incontrarli ho incrociato un discreto numero di pubblicità di Exequia, agenzia di pompe funebri. Il claim fa: “Soluzioni al carovita? Passare a miglior vita”. Bisogna sperare che esistano alternative meno definitive. Questo collettivo sta lì a dire: costruiamole.
E quella del 25 aprile 2025:
Nella sua campagna elettorale Keir Starmer aveva fatto una promessa piuttosto memorabile: vogliamo costruire 1,5 milioni di nuove case entro il 2029. Pubblico e privato insieme, con un'attenzione particolare per l'edilizia sociale. Ovviamente per rispondere a una grave penuria abitativa, soprattutto per i più giovani che non possono permettersi prezzi ormai gravemente fuori controllo. Ancora nel 1997 il prezzo mediano di una casa era di 3,5 volte il salario annuo mediano. Oggi è di 8,3 volte. Di conseguenza gli under 30 proprietari immobiliari sono passati da 1 su 5 a 1 su 8. Di recente quella promessa è stata ribadita. Si tratterebbe di consegnare oltre 300 mila case l'anno, e non sarà affatto facile. Per velocizzare stanno pensando di cambiare i piani regolatori e usare la blockchain per ridurre drasticamente la burocrazia per comprare e vendere. L'ultima volta che da noi si è fatto qualcosa di similmente ambizioso era nel dopoguerra, col Piano Ina-Casa di Amintore Fanfani, che contribuì con 355 mila abitazioni allo stock immobiliare nazionale. E la gente ancora se lo ricorda. Non è affatto detto che Starmer riesca a stare nei tempi (è dal 1977 che in Gran Bretagna non costruiscono a quei ritmi), ma almeno ha detto una cosa molto chiara, decisamente "di sinistra", che gli elettori non hanno avuto alcuna difficoltà a recepire. Per fare stare meglio il ceto medio impoverito poche cose servono di più di un abbordabile tetto sulla testa.
L'INGREDIENTE SEGRETO DEI ROBOTAXI & LA DIETA DI BEZOS
La penultima Galapagos:
Quella delle auto a guida autonoma è forse la notizia largamente più esagerata dell'ultimo quarto di secolo. Visto che dovevano succedere, e non succedono, ora l'entusiasmo si è trasferito sui robotaxi. Che, con margini di libertà più ridotti e un ingrediente segreto di cui diremo a breve, stanno invece succedendo. A fine 2024 i taxi automatizzati di Waymo hanno coperto 500 chilometri quadrati tra San Francisco, Los Angeles e Phoenix. Con ricavi per 388 milioni di dollari a fronte di perdite di 1,12 miliardi di dollari (tanti, ma circa la metà dell'anno prima). Mentre Cruise, la cui traiettoria era stata vulnerata quando mise sotto un pedone nel 2023, è stata sciolta dalla casa madre General Motors nel 2024 perché costava troppo e non dava abbastanza speranze di redditività. E poi c'è la promettente Zoox, di Amazon, che al momento ha test in corso a San Francisco e Las Vegas e che dovrebbe aprire al pubblico entro la fine dell'anno. La cosa su cui tutte fanno affidamento, ma che tendono a nascondere nelle pieghe dei comunicati, è che le loro operazioni sono supervisionate da "operatori remoti", esseri in carne e ossa che a distanza, da grandi schermi, intervengono quando i sensori di bordo allertano che la situazione sulla strada è delicata, e prendono il controllo. Li avevo visti all'opera anni fa nel laboratorio di guida autonoma della Nissan nella Silicon Valley. Dove ero stato per uno dei pochi pezzi della mia carriera che non ha mai visto la luce. Perché quando dovevamo pubblicarlo l'entusiasmo era già sceso sotto le ginocchia.
E l’ultima:
Mi sono imbattuto in un articolo sulle abitudini alimentari di Jeff Bezos che puzzava lontano un miglio di intelligenza artificiale. Certi giri di frase. Ripetizioni dello stesso concetto («una sua trasformazione, non solo fisica», «notevole trasformazione fisica di Bezos») a due-tre paragrafi di distanza (oppure «abitudini alimentari, che sembrano essersi evolute verso scelte più consapevoli e, occasionalmente, decisamente avventurose», «Simili accostamenti rivelano un palato avventuroso», «l'assaggio di iguana, dimostra un lato avventuroso»). Siccome uso molto l'IA per riassumere testi e riconosco gli stilemi, mi è subito saltato all'occhio. Così prima ho chiesto a ChatGPT se l'impressione fosse giusta facendole leggere l'articolo: «Sì, il testo ha diversi segnali che possono far pensare sia stato scritto (o quantomeno pesantemente aiutato) da un'IA o generato con uno stile "da ufficio stampa digitale"» per poi spiegare meglio il perché. Poi le ho chiesto direttamente di scrivere un pezzo giornalistico sulle abitudini alimentari di Bezos e ne ha generato uno che aveva tutti i capisaldi tipici dell'articolo in questione, compreso l'aneddoto di quando si faceva fuori una certa scatola di biscotti e la passione per l'iguana su cui ricama molto anche la mia collega in carne e ossa. La singola frase che l'ha denunciata come pesantemente debitrice dell'algoritmo, però, è questa: «In definitiva, le abitudini alimentari e i piatti preferiti di Bezos rivelano un personaggio complesso e in evoluzione». Alle macchine piace esprimersi così. Non conosco neanche un umano che lo farebbe. Prima si rimasticavano agenzie. Oggi si delega direttamente al bot.
Epilogo
BUONA LIBERAZIONE! Chi non riesce a dirlo, e ce ne sono tanti in giro, è per un motivo molto semplice: nel 1946 sarebbe stato fascista e non si sente affatto liberato.
Sei sempre un grandissimo! I tuoi articoli e le tue interviste sono le migliori che si trovano tra i giornali, Un abbraccio continua così