#179 La paura delle cose nuove
1) Il luddismo non è quello che credete 2) Un tecno-ottimista di qualche tempo da 3) Orfani del reddito di cittadinanza 4) TikTok e il peso dei media
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IL PANICO DA IA NON È UNA NOVITÀ. CIÒ NON SIGNIFICA CHE…
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I carri a motore spaventano i cavalli. Gli aeroplani? Una moda passeggera, non scalzeranno i dirigibili. Se i ragazzini si appisolano in classe la colpa è… della tv vista la sera prima. Gli stereo portatili porteranno le persone all'isolamento. Quattro previsioni su svariate decine – datate 1897, 1909, 1950 e 1981 – che si possono trovare sul Pessimists Archive, un sito (con varie estensioni social) su «le paure per le cose vecchie quando erano nuove». Di fatto una rassegna stampa da giornali che registravano le prime reazioni della società rispetto a un certo numero di innovazioni che ora diamo per scontate. Il cui senso principale, piuttosto evidente e comunque confermato dal fondatore Louis Anslow, è quello di dimostrare che la tecnologia si manifesta la prima volta come tragedia e la seconda, se non proprio come farsa, almeno come commedia. Col tempo ciò che atterriva finisce per tranquillizzare. Valeva ieri per la radio (che "ammorbidiva il cervello" stando al Cincinnati Enquirer ancora nel 1943) come oggi per l'intelligenza artificiale che, stando a Elon Musk e altri addetti ai lavori, rappresenterebbe un "rischio esistenziale" per l'umanità. Nihil novum sub solem, in buona sostanza. Ma è davvero così?
L'esistenza di questo archivio della tecnofobia, protagonista di un recente editoriale di Giovanni De Mauro su Internazionale, è lo spunto per aggiornare un dibattito attualissimo. Fondato dieci anni fa dall'allora ventitreenne di Bristol Anslow che aveva abbandonato gli studi di marketing, «creato alcune app» e scriveva di cose digitali restando, essenzialmente, disoccupato. «Da piccolo ero già molto curioso di tecnologia e mi facevano impressione le paure che invece avevano gli adulti. Tanti anni dopo, per la stessa frustrazione, ho raccolto e messo in fila un certo numero di ritagli di giornale su Twitter» dice da Barcellona, dove si trova. Marc Andreessen, papà di Netscape, potentissimo venture capitalist, quindi autore di un "manifesto tecno-ottimista" e oggi centravanti di sfondamento della pattuglia trumpiana della Silicon Valley, l'ha scoperto e rilanciato ai suoi 500 mila followers. Poi un giornalista del New York Times ne ha parlato con sufficienza, che è comunque pubblicità, e arriviamo così ai quasi centomila followers odierni solo su X. Dal momento che il sito è gratuito, gli chiedo come campa ma ottengo risposte vaghe tipo «scrivo e faccio da consulente sulle politiche digitali». Anslow si definisce, con il neuroscienziato Steven Pinker autore di bestseller sul perché non sia affatto vero che le cose oggi vadano peggio di ieri, un «ottimista attivo», ovvero che agisce oltre a parlare. Oppure «tecnosoluzionista» – categoria brillantemente fatta a pezzi per la pericolosa naiveté dal sociologo Evgeny Morozov –, vale a dire uno che, per ogni problema creato dalla tecnologia immagina un rimedio… sempre tecnologico. Con parole sue: «Rispetto a chi vede il bicchiere mezzo pieno o vuoto io mi do da fare per riempirlo». Che suona bene ma in pratica non si capisce come. «Ora va di moda dire che gli smartphone instupidiscano i bambini. E si citano studi che sostengono che il 10 per cento soffre di depressione. Studi che non citano, però, che il fumo e l'alcol sono diminuiti nella Generazione Z anche perché quella stessa dopamina la ricavano stando di più sui cellulari. Oppure piace ripetere che la tecnologia ruberà tutti i lavori. Mentre il problema principale sta nel mercato del lavoro rigido, con sindacati incagliati nel passato». A poco serve citare gli studi del Nobel Daron Acemoglu che dimostrano in maniera inoppugnabile gli effetti dell'automazione sui posti di lavoro. Tecnoscettici e tecnottomisti sono fazioni con un livello di permeabilità solo una tacca inferiore a quella tra bellicisti e pacifisti.
850.000 FAMIGLIE SON DIVENTATE PIÙ POVERE
L’ultima Ricchi e poveri:
Il reddito di cittadinanza era due cose allo stesso tempo: un cocente fallimento quanto a ricerca del lavoro, un successo indubitabile nel contrasto alla povertà. Giorgia Meloni l’ha abolito con rapidità e ferocia (comunicandolo via sms ai beneficiari e poi commentando con «chi non vuole lavorare non può essere mantenuto»). Abolizione che ha lasciato fuori un milione di persone, di cui meno della metà ha ricevuto il più gracile Assegno di inclusione. Risultato? L’Istat calcola che 850 mila famiglie, le più povere, han perso, in media, 2.600 euro all’anno. Perché non hanno più il sussidio (i tre quarti) o perché svantaggiati dai nuovi parametri (migliorativi solo per i disabili, sui cui Salvini ha fatto energica campagna elettorale). «Fanno cassa sui poveri» ha commentato Cgil, osservando che con le nuove misure (incluso il Supporto per la formazione e lavoro) sono stati erogati 2 miliardi di euro in meno rispetto al 2023 e addirittura 3,3 miliardi meno che nel 2022. Hanno risparmiato. Intanto, però, l’indice di Gini, quello che misura la disuguaglianza, è passato dal 30,25 al 30,40 per cento. Sembra poco, ma se dietro alle percentuali vedi le persone fa differenza. Peraltro mi sono andato a vedere i dati Istat del 2022. Allora Gini si era ridotto (dal 30,4 al 29,6) e anche il rischio di povertà (dal 18,6 al 16,8 per cento). Essenzialmente grazie al reddito di cittadinanza. Alla faccia dell’underdog.
C’È UNA BELLA DIFFERENZA TRA UNO SPUNTINO E UN PASTO
Quattordici anni fa, tanto per mettermi alla prova, mi fecero intervistare un altro ottimistone sulle sorti tecnologiche. Che all’epoca sembrava destinato a un luminosissimo futuro e di cui si sono un po’ perse le tracce:
Il messaggio è il messaggio. Il medium non conta niente. L'unica differenza, ormai, la fanno lunghezza e larghezza. Del «contenuto» e dello schermo. Altrimenti testi, audio, video sono tutti, indifferentemente, dati. Goodbye Marshall McLuhan, hello Nick Bilton. In un'ipotetica scala di entusiasmo nei confronti delle rivoluzione digitale, da uno a cento il giornalista del New York Times e professore alla New York University si colloca in zona novantanove. Nel suo Io vivo nel futuro (Codice Edizioni, 217 pag., 23 euro) argomenta senza riserve sul perché oggi è meglio di ieri e il domani sarà ancora più luminoso.
A chi, ancora, accosta il web alle sette piaghe d'Egitto della cultura, rammenta che le stesse immotivate paure avevano attanagliato le società alla vigilia di altre discontinuità, dalla locomotiva al telefono. Liquida i tecnoscettici («perlopiù assurdità»), su tutti Nicholas Carr che in un libro si interroga se internet stia cambiando la pasta cognitiva di cui siamo fatti. Ingaggia un corpo a corpo con un giornalista del New Yorker reo di aver sostenuto che il magma di Twitter assomiglia più all'inferno che al paradiso dell'informazione.
Pensare che lui, Bilton, l'ha hegelianamente promosso a «preghiera del mattino dell'uomo moderno». «Una volta per avere il polso di quello che stava accadendo nel mondo, cercavo la pagina di Google, il nytimes.com, il wsj.com e così via. La quantità di informazioni che scorreva sul mio schermo era assolutamente esagerata e, spesso, ridondante. Ora vado su Twitter; lì trovo il meglio di chiunque scelga di seguire». E qui, con tutto l'ottimismo della ragione telematica, non riesco davvero ad andargli dietro. Perché se c'è un posto dove si celebra l'apoteosi della ridondanza è proprio il servizio di microblogging.
Se l'autore però ci sguazza senza affogare è perché vive i social network come «comunità àncora», ovvero luoghi dove le scelte collettive dei suoi membri, «l'intelligenza dello sciame» teorizzata dallo studioso della complessità Gerardo Beni, lo aiutano a scremare (a proposito: si impara anche che l'opposto di «nativi digitali» è «immigrati digitali», e che la dicotomia è di Marc Prensky). Bilton si fida più dell'indistinta nebulosa dei suoi simili piuttosto che dei colleghi giornalisti, sebbene l'aver dichiarato di essersi disabbonato alla versione di carta del suo giornale gli sia costata più d'una grana interna. Ricorda che, dal 1985 al 2009, la fiducia degli americani nell'accuratezza delle notizie è precipitata dal 55 al 29%. E indica, nella socializzazione della loro selezione, un possibile antidoto.
Il suo ragionamento, come ogni buon guru che si rispetti, è corroborato da una serie di slogan, immagini e neologismi. Convincenti nella sostanza, meno nella forma. Distingue tra «byte, snack e pasti», ma semanticamente il primo termine è un intruso. «Sul mio cellulare» spiega «ora leggo libri, articoli, guardo film e navigo». Ex-oggetti diversi che differiscono ormai solo per le dimensioni. E ancora tra «30, 60, 3», le tre taglie della fruzione. Lo smartphone si tiene a 30 centimetri dagli occhi. Il portatile a 60. La tv a tre metri. Battezza la categoria dei «consumivori», che oltre a consumare creano i contenuti, dimenticandosi però che l'aveva già fatto Alvin Toffler nel 1980. Con il vantaggio che «prosumer» si capiva al volo (producer più consumer), mentre l'alternativa biltoniana suona come un pleonasmo.
Al netto di queste sbavature, il futuro che immagina è verosimile. A contare sarà sempre più l'esperienza personalizzata. Un giornale online, con la complicità di telefonini intelligenti, potrà servirci notizie diverse a seconda che sappia dove ci troviamo o che è l'ora di pranzo. Per onestà, era già stato previsto. Alla fine degli anni '90 da Walter Bender del Media Lab di Boston. Adesso però ci siamo più vicini. «Ora il mondo digitale segue voi, non il contrario» assicura il nostro, «e se siete un'azienda che si occupa di media potete tranquillamente eliminare la seconda sillaba della parola. Esiste solo il 'me'». Forse, ma non sono sicuro che ci sia da festeggiare. I daily me, i giornali a nostra immagine e somiglianza, rischiano di diventare finestre egocentriche sul mondo. Se, come società, abbiamo ancora argomenti comuni di conversazione lo dobbiamo anche al fattore serendipity di cui i quotidiani sono portatori sani.
SE CI DATE TIKTOK VI FACCIAMO LO SCONTO
L’ultima Galapagos:
"Ho fatto un po' di più, 25, lascio?". Discorso immaginario tra il pizzicagnolo Donald Trump e Xi Jinping. Dove 25 è la percentuale di dazi che il presidente americano ha annunciato su tutte quelle prodotte fuori dagli Stati Uniti. E dove l'apertura a un mercanteggiamento potrebbe avere a che fare con la disponibilità dei cinesi di mettere sul tavolo TikTok, vendere la popolarissima piattaforma social a qualche imprenditore americano. Il che, al netto della follia di tutto quel che ci sta intorno, qualcosa dice del ruolo che il tycoon ancora riconosce ai media. X è nelle mani amiche di Musk. Facebook (e Instagram) in quelle neo-amiche di Zuckerberg. Fuori resta giusto TikTok e su quello sta appunto lavorando. Per tornare ai dazi, poi, nonostante il chiagne e fotti di Musk che ha detto che si ripercuoteranno significativamente anche sui prezzi della Tesla (ma i balzelli non si applicano ai pezzi di ricambio), le Tesla vendute negli Stati Uniti sono tutte prodotte su suolo americano. Quello di cui forse anche Musk comincia a preoccuparsi, anche se fa del suo meglio per non darlo a vedere, è dell'imminente sorpasso di Byd sulle vetture elettriche. Il tutto peggiorato da alcuni impressionanti video che certificano i progressi delle auto cinesi, come quello in cui un innovativo sistema di ammortizzazione delle ruote consente a una berlina di superare dossi stradali senza neanche traballare di un centimetro. Il tutto mentre, come conseguenza della controversa esposizione politica del fondatore, a Los Angeles il nuovo sport è dar fuoco alle Tesla. Che, ovviamente, vanno forti su TikTok!