#177 A Firenze hanno dato una casa ai rider
1) Un posto dove smettere di pedalare 2) Una nuova rubrica di economia 3) I cinesi non copiano più, ora innovano 4) Un documentario che tutti dovrebbero vedere, ma che temo non vedranno
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UN POSTO DOVE TIRARE IL FIATO
Sono andato a Firenze a raccontare un’idea di civiltà. L’incipit del pezzo che trovate sul Venerdì in edicola:
FIRENZE. Offrire divani ai corrieri è la versione sindacale del mettere fiori nei cannoni dei soldati. Suggerisce un gesto rivoluzionario: fate la siesta, non la corsa. Tantopiù nella città dove nell'ottobre di tre anni fa un Suv mise sotto lo studente Sebastian Galassi mentre andava a ritirare l'ultima ordinazione. Non a caso una delle due grandi foto che ingentiliscono l'ancora spoglia sede di Casa Rider ritrae un coloratissimo gruppo di ciclofattorini il giorno dello sciopero per quella morte assurda. Superato l'ingresso quadrato con due scrivanie, un computer e una parete lasciata libera come parcheggio delle bici, si salgono tre scalini e si arriva ai divani. Grigi. Uno regalato, l'altro comprato. Oggetti così esotici che i primi avventori ci si siedono ancora guardinghi. Finalmente comodi. Siamo a via Palmieri 11, pieno centro di Firenze. Trecento metri da Santa Croce. Seicento da Palazzo Vecchio. E quasi settemila chilometri dal Pachistan, da dove viene il grosso della forza lavoro del food delivery fiorentino nonché dei frequentatori di questo coraggioso e interessante esperimento sociale. Inaugurato il 4 febbraio, da un'idea della Cgil che ha coinvolto quattro associazioni tra cui Oxfam Italia, in un locale concesso gratuitamente dal Comune per offrire essenzialmente due cose. Intanto riposo e ristoro a gente che lavora per strada, non di rado vivendo fuori città, e tra il turno del pranzo e quello della cena non sa dove sbattere la testa. Farli sentire, appunto, a casa loro. E poi, varcata la porta, la possibilità di essere aiutati a superare problemi pratici, dai diritti che non sanno di avere alla consulenza fiscale, dal permesso di soggiorno allo Spid. Buttando giù un pezzo alla volta quel muro di perversa burocrazia che siamo così bravi a erigere contro i migranti. Perché stranieri sono ormai otto-nove rider su dieci nel capoluogo toscano come nel resto delle città del centro nord. Mentre italiani che pedalano li trovi giusto da Roma in giù.
«Da noi al 70 per cento sono pachistani. Un dieci per cento bangladesi e infine un venti per cento africani» calcola a spanne Mattia Chiosi, il sindacalista della Nidil Cgil che una volta alla settimana li assiste a Casa Rider. «Su cosa? Ad esempio sui loro account bloccati con poche o punte spiegazioni, magari perché ci sono ritardi della questura nel rinnovo del permesso di soggiorno». Il nigeriano Ejike, per dire, è preoccupato dalle possibili conseguenze del recente rifiuto di una corsa notturna perché pioveva molto e si sarebbe trattato di un brutto tragitto. Mostra lo scambio su Telegram al venticinquenne Ruben Zappoli. Ex rider quando ancora era un lavoretto per studenti, laureato in economia dello sviluppo e presenza fissa (ed è proprio lui a fare la differenza rispetto ad altri spazi per rider aperti in circoli Arci a Torino e Palermo e in uno spazio comunale a La Spezia), dalle due e mezzo alle sei e mezzo, per il momento cinque giorni su sette, a Casa Rider. Ejike, che in patria faceva il piastrellista, viene tutti i giorni da Pontedera, nel pisano. Per presentarsi puntuale alle 11.30 agli starting point, punti strategici davanti ai McDonald's o altri locali molto richiesti per i ritiri, calcolando i frequenti ritardi deve partire almeno due ore prima. L'ora di punta finisce verso le due e mezzo per poi riprendere dopo le sei e mezza e terminare tre ore dopo. Il tempo per precipitarsi in stazione, imbarcare la bici e tornare nell'appartamento che, per 300 euro, divide con altri connazionali. «Alla fine dormo poche ore. Ho chiesto a Just Eat di spostarmi su Pisa ma per il momento non se ne parla». Ora, almeno, ha un posto dove venire a ricaricare le batterie della sua bici elettrica. Fare pipì senza dover mendicare nei bar che pretendono che tu consumi e anche in quel caso ti guardano storto. Si sente un privilegiato a lavorare per Just Eat che è l'unica che assume i lavoratori? «Non proprio. Ho un contratto da 30 ore, perché loro fanno solo part time e con qualche straordinario arrivo a prendere 1400 euro. La paga è sicura ma prendevo di più quando lavoravo dieci ore al giorno da Glovo». Primo mito sfatato: non è che l'unica soluzione allo sfruttamento sia il contratto da dipendente. Si potrebbe cominciare da condizioni migliori.
RICCHI E POVERI
Da oggi, sul rinnovato Venerdì (guardatelo, è bellissimo!), inizio una rubrica di economia. Si intitola Ricchi e poveri. Si parte da un numero – in questo caso la percentuale -2,9% – per costruirci intorno un ragionamento.
Ogni rubrica è, essenzialmente, un azzardo. La scommessa di trovare una cosa sensata da dire a intervalli regolari. Ricchi e poveri, che prende il posto di Follow the money con cui Loretta Napoleoni ha fatto a lungo compagnia ai nostri lettori, non fa eccezione. Ogni settimana proverà a tirare fuori un numero, tra i tanti dell’economia, che incarni o almeno aiuti a illuminare la cronaca del momento. Scrive Joan Didion, impareggiabile reporter: «Dato che io non sono l’obiettivo di una macchina fotografica, qualunque cosa io scriva riflette, a volte in modo gratuito, quello che penso». Concordo. Questa rubrica, come da titolo, avrà particolarmente a cuore le disuguaglianze. Con la speranza di sensibilizzare i lettori affinché pretendano dalla politica scelte che rendano i ricchi un po’ meno ricchi e i poveri un po’ meno poveri. E la società, dunque, un po’ più giusta. Quanto al numero, inizierò con quello al centro del mio libriccino Hanno vinto i ricchi. Ovvero il fatto che, negli ultimi trent’anni, siamo stati l’unico Paese europeo in cui i salari medi reali sono scesi (-2,9 per cento) invece di crescere. Un arretramento che rifulge accanto alle avanzate di Irlanda (+85 per cento), Svezia (+63), Germania (+33). Le cause sono numerose. Non è stata una catastrofe naturale ma la sommatoria di tante scelte sbagliate. Compiute dalla destra, che fa il suo mestiere, ma anche dalla sinistra, che evidentemente ha smesso di fare il proprio.
ECCO A VOI LA STANFORD CINESE
L’ultima Galapagos:
Abbiamo raccontato del momento Sputnik gentilmente offerto agli Stati Uniti dalla Cina. Ovvero il giorno in cui l'annuncio che Deepseek aveva raggiunto prestazioni comparabili alle migliori intelligenze artificiali in circolazione e una frazione del costo ha mandato a picco Nvidia e altri giganti legati all'IA. Possiamo tranquillizzarci pensando che sia un'eccezione, in mezzo alla regola di prodotti ancora scadenti, "cinesi" appunto. Ma sarebbe un grave errore. Intanto perché Deepseek non nasce in un vuoto. Il suo fondatore ha studiato alla Zhejiang University, Zhe Da per come è abbreviata in patria. Università che, complessivamente, figura già al quarantasettesimo posto al mondo del QS World University Rankings. Stando solo alla produzione scientifica produce già più paper di tutta la concorrenza (classifica Leiden) ed è dietro solo a Harvard se ci limitiamo agli studi che si collocano nel 10 per cento superiore dei rispettivi ambiti disciplinari. Tra i suoi alunni celebri, oltre a Liang Wenfeng, ci sono Colin Huang, fondatore dell'ecommerce Pinduoduo e Duan Yongping, magnate dell'elettronica. L'espressione "i sei piccoli draghi" di Hangzhou, capitale della provincia dalla quale, peraltro, arriva la quasi totalità dei cinesi d'Italia, si riferisce alle startup più calde del momento, tra cui Manycore Tech per la progettazione 3d e Deep Robotics, che fa cani robot per i salvataggi. Il modello che Zhe Da si è dato non è tanto le altre blasonate università cinesi, quanto la californiana Stanford, grande fornitrice di capitale umano per la Silicon Valley. C'è chi ancora si trastulla con la stantia e consolatoria caratterizzazione della Cina "brava solo a copiare". Quella era la prima fase. Ora siamo entrati nella seconda.
DOPO GAZA, LA CISGIORDANIA
Un altro giorno, un'altra insensata demolizione a Masafer Yatta, villaggio ancestrale sulle colline di Hebron. È Cisgiordania, terra dei palestinesi. In teoria. In pratica i soldati fanno quel che vogliono. Hanno deciso che quell'area brulla serve loro per esercitarsi coi carri armati e spianano tutto quel che li ostacola. Le case. La scuola. I pollai. Murano i pozzi. Divelgono i tralicci della luce. Nessun palestinese deve poter vivere qui. Anche se, accanto, costruiscono nuovi insediamenti contro ogni diritto internazionale. Ben prima di Gaza e delle macabre fantasie immobiliaristiche di Trump l'intenzione di cacciarli per sempre era già abbondantemente chiara. Gli abitanti resistono pacificamente. Spesso vengono arrestati. Un soldato spara. Hirun resta paralizzato dalle spalle in giù e, non avendo più una casa, farà la convalescenza nella polvere e morirà per le conseguenze delle ferite. Poi sarà un altro ragazzo palestinese e ricevere una mitragliata in pancia perché prova a resistere, pacificamente, a un attacco squadrista dei coloni, spalleggiati dall'Idf. Ordinaria amministrazione da queste parti. Come l'apartheid stradale delle targhe gialle (israeliane) che possono andare dappertutto e quelle verdi (arabe) che non possono uscire dai territori. Come il sopruso scambiato per legge di un tale Hillun che potrebbe invocare la famigerata formula "ho solo eseguito gli ordini" mentre dispone le demolizioni tra le suppliche e le grida di donne, vecchi e bambini. Vediamo tutto questo perché Basel Adra, che vive lì con la sua famiglia, riprende tutto. E perché Yuval Abraham, giornalista israeliano (che per questo è stato minacciato di morte dall'ultradestra dei suo connazionali), si unisce a lui nel girare No Other Land, formidabile documentario già premiato a Berlino (dove il sindaco, sfidando il ridicolo, ha pensato bene di dare dell'antisemita a… Abraham) e che ha poi vinto l’Oscar. Dovrebbero proiettarlo nelle scuole di ordine e grado. Liliana Segre, testimone del Male assoluto, dovrebbe spendersi per farlo vedere a tutti i suoi colleghi. Ma temo che non succederà. Perché se succedesse molte persone potrebbero riconsiderare le loro posizioni. Un rischio che, a quanto pare, nessuno vuole correre. Compresi i giornali, che ne hanno parlato il meno possibile. Quando non per niente.