#175 Terra dei fuochi v. Italia, 1 a 0
1) Una famiglia avvelenata dalla diossina fa causa a Strasburgo e vince 2) I rifiuti a Napoli 3) Quelli a Roma 4) La denuncia di un esperto 5) Bria: "La mia sovranità digitale"
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CANNAVACCIUOLO, UNO CHE NON SI ARRENDE
Siamo andati ad Acerra per raccontare il figlio del primo firmatario del ricorso (vittorioso) alla Corte europea dei diritti dell’uomo sui roghi illegali che avvelenano 3 milioni di persone tra Napoli e Caserta. L’incipit:
Acerra (Napoli). Il caso “Cannavacciuolo e altri contro l’Italia” è chiuso. Ci sono voluti undici anni ma la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che hanno ragione i ricorrenti e torto l’Italia che non ha fatto abbastanza per difendere, nella cosiddetta Terra dei fuochi, la salute dei suoi cittadini.
L’uomo che il caso l’ha aperto è seduto davanti a me in un mesto bar su uno dei corsi di Acerra, venti minuti a sud di Napoli, con palazzi passati largamente indenni dalla manna del 110 per cento. Si chiama Alessandro Cannavacciuolo, ha occhi intensi, sopracciglia corvine da domatore di leoni e trentasette anni di cui, giura, «non c’è stato un giorno in cui non mi sia occupato di attivismo ambientale». Durante la nostra lunga conversazione tenderà all’enfasi in alcuni passaggi, ma resta il fatto storico certificato da Strasburgo: non erano infondate le accuse sue e degli altri 40 cittadini e associazioni che mettevano in relazione le malattie di gente di qui con gli sversamenti illegali e i roghi di rifiuti speciali a proposito dei quali né i circa novanta comuni coinvolti, né la Regione né lo Stato si sono impegnati quanto avrebbero dovuto. In un Paese dove troppe tragedie finiscono in commedie degli equivoci, con torti e ragioni che si confondono, essere arrivati a mettere la parola “fine” è un’eccezione notevole. Che ora il giovane Cannavacciuolo può appuntarsi al petto: «È un risultato enorme che segna la storia della Terra dei fuochi». Il caso giudiziario è chiuso ma qui è ancora tutto da bonificare, e i roghi continuano, anche se c’è già chi si felicita che siano scesi sotto i mille all’anno. Ovvero tre al giorno, festivi inclusi.DICIASSETTE ANNI FA…
Si dà il caso che, nel dicembre del 2007, il Venerdì mi avesse mandato a scrivere dell’emergenza rifiuti tra Napoli e dintorni. Nunzia Lombardi, tosta attivista ambientale, mi portò in giro, compresa una visita al gregge superstite di Mario e Vincenzo Cannavacciuolo, padre e zio di Alessandro, divenuti tristemente celebri perché le loro pecore figliavano agnelli deformi. Il ricordo più vivido che mi resta, oltre a quegli animali sciancati, con teste storte e musi cubisti con occhi dove non dovevano stare, riguarda i campi di lattuga a poche decine di metri da dove gli ovini brucavano l’erba piena della diossina responsabile delle loro mostruosità. Mario mi raccontò che il fratello stava male ed era sicuro che c’entrasse l’aver respirato quelle schifezze. Alessandro, che aveva vent’anni, non lo vidi perché, dopo il liceo artistico («quando i miei amici marinavano per andare a divertirsi io organizzavo proteste contro i roghi»), frequentava giurisprudenza a Napoli, unico dei cinque figli che poi avrebbe preso una laurea, specializzandosi in criminologia ambientale.
NAPOLI, L’EMERGENZA INFINITA
Nel dicembre 2007 mi avevano mandato a scrivere dell’emergenza rifiuti a Napoli. In quell’occasione avevo incrociato anche i Cannavacciuolo, senza poi scriverne nell’articolo ma raccontandoli in un video che, malauguratamente, non si trova più. Il reportage integrale:
NAPOLI. Il vulcano Munnezza è tornato a tremare. Non ha mai smesso, in verità, ma è come se negli ultimi sei mesi tg e giornali avessero staccato la spina al sismografo. I media pretendono sviluppi e qui è sempre la stessa solfa, da 14 anni ormai. L’emergenza più lunga nella storia dell’umanità, quella dei rifiuti campani. Come un’indolente lingua di fuoco la lava del pattume ha già travolto cinque commissari straordinari e bruciato oltre 2 miliardi di euro (tra le voci più fantasiose 10 milioni per un call center con 34 dipendenti che riceveva 4 telefonate al giorno). Ma, come un Efesto magnanimo, il dio del pericolo cronico ha anche creato 2316 posti di lavoro nella raccolta differenziata. Peccato che con quasi 4 volte gli addetti pro capite rispetto a Roma o Milano, a Napoli riescano a mettere nel sacco giusto per il riciclo solo il 10 per cento della spazzatura. Contro il 38 medio del Nord. E che la regione sia rimasta l’unica – assieme alla Sicilia – a non avere ancora un termovalorizzatore. «Trase munnezza e esci oro» sibilano i maliziosi. Perché così la Camorra può speculare sui terreni di stoccaggio, comprandoli a niente dai contadini e rivendendoli a prezzi decuplicati, e affittare prima i mezzi di rinforzo ai comuni quando annegano nella lordura e poi i camion che allungano il giro dal cassonetto alla discarica. Affare sporco, enorme affare. Con i cumuli di rifiuti, oscurati da quest’estate quando furoreggiavano sulle prime pagine, più maleodoranti che mai. Come dimostrano le 100 mila tonnellate per le strade della regione nella settimana prima di Natale. Per il combinato disposto di uno sciopero di tre giorni degli autotrasportatori, il breve blocco di un impianto di smaltimento, qualche grado in meno e goccia in più del solito. Perché i problemi vecchi sono quasi intonsi e quelli nuovi figliano come bufale del Casertano. L’iter dovrebbe essere più o meno questo. La differenziata va ai rispettivi riciclatori (alluminio, vetro, carta), il resto agli impianti Cdr (per combustibile da rifiuti). Questi, con filtri meccanici, separano la parte umida (cibo) da quella secca. E producono tre cose: il Fos, la «frazione organica stabilizzata» da usare come fertilizzante; il sovvallo, lo scarto degli scarti destinato alla discarica; le ecoballe, cubi incelofanati da oltre una tonnellata da mettere al rogo nei termovalorizzatori per ottenere energia. Però non c’è una sola tessera di questo puzzle che vada al posto suo. «In tre anni il Comune ha spiegato in quattro modi diversi ai cittadini napoletani come fare la differenziata. E nessuno ci ha capito più nulla» sbotta Michele Buonomo, presidente della Legambiente regionale. Racconta che sarebbe possibile, di un paesino di nome Atena Lucana con un record svedese del 96 percento. Ma a Napoli città non ha mai funzionato. Perché la gente vede i sacchetti per terra e si deprime: «Chi me lo fa fare?». Credendo che siano problemi diversi. «E anche perché il contratto con cui la regione affidò la gestione alla Fibe, gruppo Impregilo, prevede che venga pagata per tonnellate trattate. Dovrebbe autoridursi la bolletta?» ironizza l’onorevole Paolo Russo, ex presidente della commissione parlamentare sui rifiuti. Già, la famigerata Impregilo. Il colosso che nel ‘94 ha vinto, in una gara che su tutto puntava meno che sull’eccellenza tecnologica, l’appalto per i rifiuti campani. E alla quale i magistrati hanno bloccato quest’estate beni per 750 milioni di euro, oltre all’interdizione per un anno dai rapporti con la pubblica amministrazione, per una strepitosa serie di inadempienze. «A Lo Uttaro, nel casertano» schiuma Nunzia Lombardi, una fisica trentenne che organizza per i giornalisti tournée tra la monnezza, «le pareti dell’impianto sono state costruite verticali anziché spioventi. È l’abc per non far filtrare il percolato». In effetti, come i pm campani hanno certificato, non c’è neppure un Cdr tra i sette edificati capace di sfornare un’ecoballa a norma. In quella poltiglia c’è troppa umidità. E ciò complicherebbe la combustione. Oltre che pneumatici, sacche di sangue, infinite schifezze che dovevano finire altrove. Ancora Russo: «Un fallimento dovuto a cattiva progettazione e al fatto che è arrivata roba totalmente indifferenziata e assai più del previsto». Risultato: 5 milioni di ecoballe accumulate nei vari centri di stoccaggio. «Piramidi azteche» le chiamano. Che ogni giorno diventano più alte di 2200 mattoni. Che farne? Il penultimo commissario, Guido Bertolaso, voleva ricostituirci le cave, una sorta di chirurgia estetica per montagne sventrate. «Ma perché fare un regalo a chi le aveva sfruttate, spesso nomi vicini alla criminalità?» si indigna l’ingegner Giambattista de’ Medici.
L’Assise di Palazzo Marigliano, il gruppo di cui fa parte, boccia il piano del prefetto Alessandro Pansa. «Se davvero costruiranno le 31 centrali a biomasse di cui si parla, capaci di bruciare sino a 4 milioni di tonnellate l’anno, la Campania diverrà l’inceneritrice d’Italia, magari anche dei rifiuti tossici del resto del Paese» denuncia Nicola Capone, trentatreenne coordinatore dell’Assise. La sua ricostruzione ha il pregio della coerenza e il rischio dell’ideologia. Bassolino avrebbe affidato i rifiuti alla Fibe che non solo si è rivelata inefficiente ma ha anche comprato le terre per le discariche dai prestanome della Camorra. E ora i suoi resti se li spartiranno i cementifici. Perché l’ultima della creatività monnezzara è di fare grandi punturoni di gesso e cemento alle ecoballe bagnate per farle asciugare. Se non fosse che così il peso aumenta del 50 per cento e la zavorra da smaltire cresce. «È incredibile» commenta il professor Umberto Arena, «nell’emergenza fioriscono le idee più strane. C’è anche chi ha proposto un marchingegno pomposamente chiamato dissociatore molecolare, vi rendete conto? Quando basterebbe copiare quel che fa il resto del mondo civile». Ovvero differenziata, inceneritori hi-tech, discariche. Insegna scienze ambientali, quest’ingegnere che rischia ogni giorno la sedizione familiare per la sua intransigente politica del bidone nella bella casa al Vomero. «I termovalorizzatori potrebbero bruciare anche i rifiuti “tal quali”, figurarsi le ecoballe difettose. E il loro impatto ambientale è minimo. La Germania ne ha 66 e la quota di diossina è stata ridotta del 99%. Idem per Danimarca e Svezia». Ma le balle sono della Fibe che le ha date in pegno alle banche. Un caos totale. Lo sversatoio di Taverna del Re, dove ne viene parcheggiata la maggior parte, ha i giorni contati. «Lo dobbiamo alla popolazione» assicura Gianfrancesco Raiano, portavoce di Pansa. C’è puzza, il percolato infiltra il terreno. Ci sono già stati picchetti, gli abitanti non ne possono più. «Ma il commissario ha individuato i cinque siti alternativi puntando a caso sulla mappa» accusano gli ecologisti. Nell’avellinese, a Chianche, tra i vitigni del Greco di Tufo. Con l’imprenditore Mastroberardino già pronto a dare battaglia. Nel casertano, a Pignataro Maggiore, terra di succulente mozzarelle da esportazione. Al punto che il celebre caseificio Iemma ha scritto a Pansa: «Se ha deciso di premere il grilletto contro la nostra terra lo faccia, ma ci spieghi perché ha escluso 35 siti alternativi». La gara per chi dovrà succedere alla Fibe, completare il termovalorizzatore di Acerra e gestire i rifiuti per i prossimi 25 anni, è durata solo sedici giorni. In gioco 800 milioni di euro, forse l’appalto pubblico più grande d’Europa. Si è fatta avanti la francese Veolia e l’Asm di Brescia. Non è detto che finisca qui. I napoletani si sono preparati al Natale zigzagando tra 3.000 tonnellate di immondizia. A San Gregorio Armeno, via dei presepi, si scherza su decorazioni fatte di rifiuti. Va peggio a Ercolano, dove il sindaco Nino Daniele ha chiesto, per liberare il centro dai sacchi neri, l’intervento dell’esercito. Ieri lo preoccupava il Vesuvio, oggi teme eruzioni dal basso. (ha collaborato Fabrizio Geremicca)
ROMA, LA CHIAMAVANO ER MONNEZZA
Sei anni fa mi ero occupato di rifiuti nella Capitale. Da allora, en attendant il termovalorizzatore, le cose sono un po’ migliorate. L’inizio del servizio (il resto qui):
Roma. La pietra d’inciampo, origine dello scandalo, è un oggetto piuttosto banale. Un tondo di gomma gialla, quelle calotte che delimitano le corsie preferenziali. Giace divelta sull’angolo di casa mia, Esquilino, centro storico di Roma, da oltre un mese. Ricordo esattamente quando l’ho notato. E da allora, giorno dopo giorno, ho scommesso che qualcuno l’avrebbe raccolto. È sempre lì. Vicino a cartigli, mozziconi di sigarette, scarpe spaiate, bicchieri di plastica trasparente, lattine di Red Bull, preservativi usati. Sono trenta giorni che chi spazza evita il disco giallo. A poche decine di metri straripano i cassonetti del cartone. Un tavolo male in arnese è appoggiato al cassone del vetro. Barboni si inabissano nei contenitori sperando in chissà quale miserabile pesca. Come è possibile che la Capitale di un Paese ancora dentro al G7 assomigli, quanto a decoro urbano, a Calcutta? Che la sindaca non riesca, dopo una serie di baldanzosi proclami, a fare niente per migliorare la situazione dei rifiuti? Che il governo (amico) non intervenga? Che i cittadini non scendano in piazza quotidianamente pretendendo di non vivere in una specie di discarica? Sono le domande che si pone il turista occasionale e che i romani, desensibilizzati da un cinismo millenario, sembrano aver imparato a farsi scivolare addosso. «Ma che sarà mai…». La Città eterna ne ha viste di peggiori. È rivestita di un Teflon su cui non attacca neppure il guano dei gabbiani.
Se anche la raccolgo, poi dove la metto?
Scrivere sui rifiuti di Roma è una missione quasi suicida. L’argomento è complesso, farcito di sigle arcane (tmb, fos, css), le responsabilità diffuse. La città produce 1,8 milioni di tonnellate all’anno. Quasi 5.000 tonnellate al giorno, di cui solo il 44 per cento viene differenziato. Restano 3.000 tonnellate di indifferenziata alle quali trovare quotidianamente una collocazione. Dove vanno a finire? Circa 1.200 nei due impianti di trattamento meccanico biologico (tmb) di Malagrotta, che separano l’umido dal secco, gestiti dalla Colari che si scrive Consorzio Lazio Rifiuti ma si legge Manlio Cerroni, il ras nella cui discarica per cinquant’anni è finito il grosso della monnezza. Fino a cinque anni fa quando, con sprezzo del pericolo, l’allora sindaco Ignazio Marino l’ha fatta chiudere. Il novantenne avvocato non si è perso d’animo e, attraverso i suoi due tmb, tratta ancora circa un quarto dei rifiuti capitali. Altre 650 tonnellate vanno invece nel tmb Ama di Rocca Cencia e 400 andavano a quello, sempre pubblico, del Salario che un misterioso incendio ha messo fuori uso a dicembre. Anche se Ama riuscisse a spazzare le strade (apodosi dell’irrealtà, disco giallo docet), non saprebbe dove portare i rifiuti. Che infatti per 1.000-1.500 tonnellate emigrano fuori provincia (Frosinone, Aprilia, Viterbo) quando non fuori regione (Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Lombardia) o, fino all’estate scorsa, all’estero (Austria, Germania). Prima domanda ingenua: non converrebbe costruire qualche nuovo tmb per avvantaggiarsi della tariffa imposta dalla Regione di 104 euro a tonnellata rispetto ai 137 che pretende Cerroni o dai 139 ai 197 dei forestieri?
SI FA PRESTO A DIRE RIFIUTI
Dieci anni fa avevo intervistato Daniele Fortini, allora amministratore dell’Ama ma sopratutto grande esperto del ciclo dei rifiuti.
La prima cosa, parlando di rifiuti, è saper distinguere. La seconda è non lasciarsi abbindolare dal folklore. Dunque, preferireste vivere vicino a una pizzeria o a un inceneritore? Con ogni probabilità state per dare la risposta sbagliata. «Perché i duemila forni a legna in funzione per tre-quattro ore al giorno in una città come Napoli emettono, in un giorno, quasi la stessa quantità di diossina di un inceneritore in un anno. Con l'aggravante che non se li sognano nemmeno i filtri e gli innumerevoli dispositivi di sicurezza imposti per il secondo». Parola di Daniele Fortini, oggi amministratore di Ama, l'azienda dei rifiuti romana, dopo aver compiuto un titanico repulisti a Napoli ai tempi dell'emergenza in mondovisione ed essere stato presidente di Federambiente e sindaco di Orbetello. Lo dice presentando in una libreria romana La raccolta differenziata (Ediesse, pag. 350, e. 15), scritto insieme alla consulente ambientale Nadia Ramazzini, in una girandola di fatti e fattoidi che riescono a trasformare quello nei nostri scarti in un viaggio appassionante di auto-scoperta.
Questo libro è, prima di tutto, un «manuale di smontaggio», copyright Antonio Pascale, il moderatore-romanziere e divulgatore scientifico tra i più solidi e meno codini (tra le sue campagne, la riabilitazione degli ogm quando ancora sembrava eresia). Nel senso che comincia a far capire l'immane complessità di decostruire quello che più o meno inconsapevolmente destiniamo nell'immondizia. Intanto un paio di dati: il 40 per cento dei rifiuti urbani finisce in discarica. Del 70 per cento dei rifiuti speciali (industriali, di costruzioni, etc) si perde traccia («Salvo poi imbattersi in una nave piena di robaccia al largo della Calabria o in rotta verso l'Africa»). E circa il 50 per cento della plastica viene incenerita. Pascale insorge: «E allora vuol dire che cinque delle dieci bottiglie che io amorevolmente infilo nel cassonetto dedicato, la metà di quella fatica va sprecata?». No, lo tranquillizza Fortini: «Esistono circa 400 famiglie di plastiche. La pet di cui è fatta la bottiglia è totalmente riciclabile. Questo vale anche per la hdpe del tappo. Mentre i polimeri leggeri del sacchetto del supermercato devono seguire un processo distinto. In ogni caso bisogna prima togliere l'etichetta, triturare tutto separatamente e, attraverso un processo di estrusione si otterranno dei granuli, la cosidetta materia prima-seconda, che verrà stampata per realizzare altri oggetti». Discorso diverso per le plastiche dure tipo quelle per fare sedie, paraurti, giocattoli. «Da quelli generalmente si può ricavare il cosidetto plasmix, un granulato di plastiche eterogene che è stato riutilizzato in laminati, con risultati non sempre entusiasmanti. Tipo barriere fonoassorbenti che non assorbono o panchine che si crettano e si scoloriscono». Per non dire delle ragioni dell'ecologia contro quelle dell'economia. Perché se la scocca anteriore di uno scooter in questo materiale costa a Piaggio, che lo sta testando, migliaia anziché centinaia di euro, allora non ha senso.
Il vetro è il più virtuoso. Al netto di inevitabili perdite di processo, se ne salva tra l'88 e il 90 per cento. Il cartone il peggiore. «A ogni passaggio, che prevede la rimozione dei collanti e degli inchiostri, si recupera circa il 70 per cento. Il che significa che al più se ne possono fare tre giri prima che divenga inservibile». Quello che resta da ogni trattamento è una pasta nauseabonda, piena di residui di metalli pesanti e plastiche, che viene chiamata pulp. «Ne sanno qualcosa gli abitanti di Capannori, vicino Lucca, uno dei pochi distretti cartari sopravvissuti. La pestilenziale lavorazione è consentita solo di notte ma basta passare da quella parti in autostrada con i finestrini abbassati per essere investiti dal puzzo». Più che olfattivo è un problema strategico. La guerra ai rifiuti non si può vincere senza aver prima sconfitto gli imballaggi. Che, invece, non mostrano alcun segno di debolezza. «Dal 2007, inizio della crisi, registriamo una riduzione del 25 per cento dei consumi energetici. Meno produzione, meno elettricità. Tutto aveva segno negativo tranne la produzione di imballaggi: +1,4 per cento». Miracolo economico? No, paradosso politico. «Mentre in Germania le aziende devono prendersi totalmente in carico il loro smaltimento, da noi il decreto Ronchi è riuscito a imporlo solo nella misura del 30 per cento. Il resto lo paga lo stato, ovvero noi. Così le nostre aziende di imballaggi operano con costi del 70 per cento inferiori rispetto alla concorrenza internazionale, e sono diventate leader mondiali». Con l'aiutino gentilmente offerto dal nostro 740.
L'ultimo tabù riguarda i termovalorizzatori. Grossi, costosi, fumanti: hanno il physique du rôle per terrorizzare le masse. La realtà è più complessa. Ramazzini, la coautrice, è nata a Brescia che ne ospita uno dei più grandi e ha lavorato in quello di Acerra, tra i più discussi e mitopoietici. Interroga il pubblico: «Chi di voi sa che a Parigi ne è in funzione uno per 1.300.000 tonnellate?». Silenzio. «E che la Danimarca si riscalda solo con l'energia prodotta in quel modo?». Sottitolo per i distratti: non sono il marchio di Caino del terzo mondo, ma apparentemente l'identificativo del primissimo. Giura che i limiti imposti dall'Unione sono strettissimi ed è per ciò che questi leviatani tecnologici costano così cari (500 milioni a Brescia, 350 ad Acerra), «mentre certi cementifici bruciano rifiuti in libertà», solo che noi non lo sapppiamo. Interviene Fortini, con il gusto dei tempi teatrali e dell'aneddoto croccante: «Il capodanno 2005, anche per gli standard napoletani, rimase nella storia. Spararono botti per quasi sei ore. È stato calcolato che la diossina prodotta in quella singola occasione era pari a quella generata da 120 inceneritori in un anno intero». Ovvero, l'ennesimo replay dell'ossessione per il dito, quando sullo sfondo c'è una luna piena. Restano veri alcuni classici. Tipo il deprimente 7 per cento di differenziata della Sicilia, la grottesca inversione a U di Reggio Calabria (dal 16 all'8 per cento negli ultimi cinque anni) e le consuete eccellenze nella valorizzazione della materia (in italiano corrente: cavare energia da quel che si butta) di Toscana, Emilia, Lombardia e Veneto. Dove, fino a un mese fa, il Centro Riciclo Vedelago riusciva, grazie a intuito trevisano e manodopera immigrata, a riciclare il 99 di tutto. La volta che c'ero stato ospitavano una delegazione giapponese, l'indomani sarebbero arrivati gli svizzeri. Crisi, debiti, Investimenti sbagliati e i libri sono finiti in tribunale. Un gran peccato. Ma pare che la vecchia società sia già stata rilevata: da quelle parti si ricicla tutto, anche i fallimenti.
“CIAO MUSK! IN EUROPA IL DIGITALE LO FAREMO COSÌ”
Intervista a Francesca Bria che ha già accumulato varie vite, tutte all’insegna del digitale, su come spezzare la nostra mostruosa dipendenza dai paesi esteri. Un estratto:
Francesca Bria è orgogliosamente europea. Dopo la laurea in economia alla Sapienza di Roma e il dottorato all’Imperial College di Londra, è diventata assessora, anzi chief technology officer, della sindaca di Barcellona Ada Colau. Quindi presidente del fondo innovazione di Cassa depositi e prestiti e membro del cda Rai. Oggi vive a Berlino – da dove dà consigli alla Von der Leyen sulla transizione verde – perché la Fondazione Mercator l’ha incaricata di occuparsi del futuro digitale del Vecchio Continente. È in questa qualità che ha sviluppato Eurostack – dove stack sta per la pila di tecnologie, dai chip all’Ia, che all’80 per cento importiamo dall’estero – ambizioso progetto con molti sponsor (tra cui Commissione e Parlamento europei, vedi euro-stack.eu) presentato ieri per affermare una nostra sovranità digitale.
Iniziamo dalle terre rare, controllate al 90 per cento dalla Cina: dove le andiamo a prendere?
«L’Europa deve diversificare le sue forniture attraverso accordi strategici con Paesi come l’Australia, il Cile e il Canada, e investire in innovazioni per il riciclo dei materiali, come dimostrano aziende europee leader nel settore. Oltre a puntare su alternative come i biomateriali».
E i microchip? Oggi ne produciamo il 10 per cento ma ne consumiamo il doppio…
«L’Eu Chips Act punta a raddoppiare la produzione entro il 2030, mobilitando 43 miliardi di euro e creando 250 mila posti di lavoro qualificati. Il governo tedesco ha stanziato dieci miliardi di euro per un progetto Intel a Magdeburgo, ritardato di almeno due anni, che dimostra come non possiamo affidarci solo a aziende extraeuropee. L’Europa deve valorizzare i suoi campioni: Asml nei Paesi Bassi, STMicroelectronics tra Italia e Francia, Infineon in Germania. Parliamo di un mercato che vale già oltre 573 miliardi di dollari».
Quantum computing? Perché è così importante e come siamo messi?
«Il quantum computing è fondamentale per settori strategici come crittografia, ottimizzazione industriale e scoperta di farmaci. L’Europa vanta iniziative come il Quantum Flagship e progetti pionieristici come Jupiter in Germania o e-Brain, che sfrutta il quantum per simulazioni nelle neuroscienze. Per non dire del Cern. Ma restiamo in ritardo rispetto a Stati Uniti e Cina nella commercializzazione. Il problema? Frammentazione e una scarsa integrazione tra ricerca e industria».
C'È ANCORA QUALCUNO CHE CERCA SU GOOGLE?
La differenza, alla fine, sta tutta tra cercare e trovare. I motori di ricerca, appunto, cercano. L'intelligenza artificiale, sempre che non si sbagli, trova. All'indomani della nascita dell'IA generativa il dibattito è andato in tutte le direzioni. Un sottofilone riguardava proprio la sostenibilità del modello economico deisearch engine, che si basano sulla pubblicità."ChatGPT segna la fine di Google?" era, in buona sostanza, la domanda. Alla quale molti rispondevano: certo che no, sono cose troppo diverse. Non ci ho mai creduto. E, nel mio piccolo, ho quasi definitivamente abbandonato Googlecome destinazione privilegiata per esaudire i numerosi quesiti, da quelli professionali ai più prosaici, che lastricano le mie giornate. Un'IA che sin da subito si è candidata come alternativa a Google è stata PerplexityAI. Sia nella versione web che app funziona benissimo. Se, per esempio, non vi ricordate come si chiama la scala di piccantezza del peperoncino non solo vi rammenta che il suo nome è Scoville, ma vi offre anche esempi della classifica, allegando link alle fonti da cui ha tratto le informazioni. Però da qualche giorno anche OpenAI ha abolito la registrazione preliminare per usare la sua funzione Search. Sembra un ostacolo da poco ma in verità era una scocciatura. La richiesta sulla scala Scoville è banalissima anche per SearchGPT che però la impagina peggio, con meno contesto. Saremmo arrivati allo stesso responso anche via Google, ovviamente. Ma le abitudini sono lame a doppio taglio: ci vuole un po' per perderle ma quando ne hai acquisita un'altra è difficile tornare indietro. La mia transizione verso l'IA è quasi totale. Provate anche voi.
Epilogo
C’è Sanremo e io lo seguo assiduamente. A un certo punto, pensando che fosse una furbata, Carlo Conti o chi per lui ha pensato bene di fare una piccola irruzione su Gaza. Organizzando quindi un duetto con una nota cantante israeliana e una meno nota cantante “palestinese” che, tra sguardi d’intesa, cantavano Imagine, un pezzo in ebraico e uno in arabo. Peccato che, a un rapido controllo, la presunta palestinese sia in realtà una cittadina israeliana, figlia di genitori cristiani, certo di antica discendenza palestinese ma che ha rappresentato Israele all’Eurovision e che ha anche interpretato, in una fiction, una soldatessa dell’Idf. Sarebbe bello sapere chi ha avuto la brillante idea e ha pensato di spacciarla come prova ontologica di una pace possibile.
Grandissimo Riccardo! Grazie per i tuoi articoli bellissimi, una cosa sola non affidarti solo all'intelligenza artificiale perché fino adesso non l'abbiamo mai usata e siamo andati benissimo lo stesso!