#174 Alla guerra dello smart working
1) Quelli che han scioperato contro i tagli 2) Quelli che durante il Covid lasciavano vuoti i grattacieli 3) Quelli che l'ufficio neanche in cartolina 4) Quelli che la settimana è di 4 giorni
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ALLA PANINI VOLEVANO DIMEZZARLO E…
Andava tutto bene ma all’azienda non piaceva. Quindi hanno annunciato di dimezzarlo. I lavoratori non hanno apprezzato. Sono andato a vedere. Qui l’incipit, il resto sul Venerdì in edicola:
Modena. Un miliardo e trecento milioni di euro di fatturato durante il Covid, record di sempre. Un premio di produzione per i lavoratori tra i più alti d’Italia. Lo smart working come subito dopo la pandemia. Celo. Celo. Manca. Il glorioso album della Panini ha perso un pezzo e non si capisce bene il perché. Fino a marzo dell’anno scorso i suoi dipendenti potevano lavorare fino a 88 giorni da casa. La proprietà, cui questa possibilità è sempre stata sul gozzo, scaduta la legge l’avrebbe volentieri cancellata del tutto. Però una minoranza di lavoratori ci aveva nel frattempo riorganizzato la vita intorno e non aveva alcuna intenzione di rinunciarvi. Seguono due scioperi partecipati, per la prima volta, anche dagli impiegati (gli operai lo smart working non l’hanno mai fatto, ma sono comunque scesi in piazza). Alla fine sono sopravvissuti 54 giorni di lavoro a distanza. Per quel quinto di lavoratori che riusciva a consumare tutti quelli di prima è stata una piccola disfatta. Per il grosso che neppure arrivava a farne la metà addirittura un passo avanti. In ogni caso resta una delle poche battaglie sin qui guerreggiate nella più ampia guerra sul “lavoro agile”, iniziata in America al grido di return-to-office e proseguita in Italia con toni meno perentori. Nonché l’occasione per fare il punto sulla vera, forse unica, importante eredità culturale di lockdown e dintorni.
Si vive una volta sola
Prima di approfondire il microcosmo modenese, qualche dato nazionale di contesto. Il diritto di lavorare da casa per legge è scaduto appunto dieci mesi fa. Ma è la fine dello smart working? Neanche per idea. Dai 6 milioni e mezzo del picco 2020, i lavoratori che vi fanno ricorso scendono a 4 milioni l’anno dopo e si assestano, nel censimento dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, intorno ai 3 milioni e mezzo nei tre anni successivi. Numero che lo stesso istituto prevede in crescita del 5 per cento per l’anno in corso, a quota 3 milioni e 750 mila. Più in dettaglio, crescerà nelle grandi imprese e nella pubblica amministrazione, calerà nelle aziende piccole e medie. Tra tanti dati, uno spicca: se la propria azienda provasse a toglierlo, 3 lavoratori su 4 si opporrebbero e, tra loro, quasi un terzo prenderebbe seriamente in considerazione di cambiare lavoro. Per accettarlo servirebbe un aumento di stipendio del 20 per cento. Una cifra in linea con quella del recentissimo paper Home Sweet Home: How Much Do Employees Value Remote Work? per cui i lavoratori del settore tecnologico americano si accontenterebbero di una paga ridotta del 25 per cento in cambio di lavorare, parzialmente o del tutto, da casa. Un taglio sostanzioso, assai più alto di quelli calcolati in studi precedenti. Che si spiega forse col ribilanciamento post-pandemico di priorità che negli Stati Uniti (e, in misura minore, da noi) ha partorito le “Grandi Dimissioni” e neologismi tipo Yolo economy – acronimo di You only live once , “si vive una volta sola”. Finché funzionava l’ascensore sociale sembrava sensato sacrificare molta vita al lavoro perché, presto o tardi, la ricompensa sarebbe arrivata. Ma un ventenne non ci crede più. Vede solo coetanei – magari rider col dottorato – che fanno le scale a piedi, due gradini alla volta, e quando arrivano in cima prendono comunque una miseria. Se il pane scarseggia, parafrasando un vecchio slogan, almeno vogliamo le rose del telelavoro {prosegue sul Venerdì}.
NELLA MILANO DEL “VUOTO VERTICALE”
Cinque anni fa ero stato a Milano, città degli uffici, per visitarli quasi vuoti: erano tutti in smart, ovviamente. L’attacco del pezzo:
Milano. Nel momento più ermetico del primo lockdown dentro la Torre Allianz erano ammesse solo ventidue persone. Che con oltre 2.400 metri quadri a testa, più di un terzo di un campo da calcio, significa prendere il distanziamento sociale terribilmente sul serio. Ora il limite è stato alzato a 250 ma in giro per i piani hai la sensazione che, al netto di operai che approfittano del deserto per fare manutenzione, se intonassi uno yodel l’eco lo manderebbe in filodiffusione. Dal grattacielo più alto d’Italia (Unicredit ha più metri ma qui sono 50 piani contro 33) la prospettiva su Milano è inedita, con decisamente più verde del previsto. L’espressione «osservatorio privilegiato», per una volta, da cliché diventa pura cronaca. Si vede nitido il Gran Paradiso, che ci guarda meno dall’alto in basso del solito, ma sul futuro degli uffici nella città fondata sugli uffici c’è ancora una discreta nebbia. Siamo saliti sin qui, ripercorrendo controcorrente l’indice Rt del Paese, per cercare di diradarla.
Quasi tutti gli iconici quartier generali milanesi sono assolutamente interdetti agli estranei. Neppure la disponibilità a sottoporsi a un tampone seduta stante fa abbassare i ponti levatoi. Maurizio Devescovi, direttore generale del secondo gruppo assicurativo al mondo (superato di recente solo dal cinese Ping An) e uno dei ventidue che non hanno mai marcato visita, deve aver valutato che il rischio fosse gestibile. Dal suo stratosferico studio al quarantasettesimo piano, con due pareti-finestre il cui vetro è tempestato di pallini grigi per evitare che il sole arroventi le stanze affiancate, si vede il bosco verticale e si può anche guardare in casa dei Ferragnez, le altre star di Citylife.
Lo svuotamento è iniziato ben prima della pandemia: «Dalla fine del 2016 abbiamo proposto a 600 persone di alternarsi su 300 scrivanie. Diventate, sull’entusiasmo della reazione, 600 e poi 1200. Oggi su 4.500 persone circa 2.400 sono in smart work. Con la formula di una coppia di lavoratori che si mette d’accordo su quando venire in sede, metà del tempo ciascuno». Una scelta, sempre reversibile. Che ha fatto risparmiare almeno un paio d’ore al giorno nel traffico a oltre la metà dei dipendenti che vengono dall’hinterland. Ma se a regime la metà lavorerà da casa – oggi sono praticamente tutti – significa che 25 piani resteranno vuoti? «No» dice Devescovi «aumenteremo gli spazi comuni per migliorare la qualità della vita delle persone, ad esempio la palestra e gli spazi dedicati a chi vuole/deve portarsi i figli piccoli in ufficio, con tanto di educatori a disposizione. Ospitiamo già la Fondazione Milano-Cortina 2026 che a regime occuperà quattro piani». Ancora nel 2016 i loro centri direzionali cittadini erano sette. Oggi due. Domani, verosimilmente, resterà questo. Ad aprire ad altri non ci pensano. «Almeno nei prossimi 8-10 anni ci saremo solo noi qui dentro» garantisce il manager.
FULL REMOTE, QUELLI CHE IN UFFICIO MAI
I fondamentalisti del lavoro a distanza sono quelli che si chiamano full remote. Esistono, anche in Italia. ne avevo sentito qualcuno. Qui un estratto:
C'è gente che l’ufficio non lo vede neppure in cartolina. Che non c’è passata neanche per il colloquio, fatto su Zoom o simili. È l’avanguardia del full remote, ovvero di lavoratori che in presenza non ci sono mai. Cercando su Linkedin di offerte del genere ne vengono fuori 1480, su Indeed 1080, ma il numero cambia ogni giorno. «Per i tre quarti sono informatici» calcola a spanne Edoardo Costantini che con Alessandro Marino (entrambi programmatori da remoto) aggiornano italiaremote.com, una lista di oltre duecento aziende che forniscono questa possibilità, «poi call center e altre assistenze clienti, ma tante professioni potrebbero essere svolte così». Neutralizzare i tempi di pendolariato e dire addio alla schiscetta sono solo due vantaggi. L’altro è che, dal momento che non serve esserci fisicamente, tanto vale lavorare per aziende di paesi che pagano molto di più del nostro. Dopo quella delle tute blu è arrivato il momento della globalizzazione dei colletti bianchi?
Costantini è assunto da un’azienda italiana, contratto del commercio, reperibilità 9-18. Marino lavora per dei belgi, con busta paga inferiore a loro ma superiore agli italiani. Come tutti gli intervistati assicurano che senza pause caffè et similia la loro produttività è schizzata alle stelle. Ma l’unico modo per far funzionare questo telelavoro estremo è assicurare una buona comunicazione con colleghi e capi. La parola magica è Scrum (Systematic Customer Resolution Unraveling Meeting), un metodo per il lavoro “agile” (pronunciato all’inglese, giacché siamo entrati in una zona linguisticamente settata sul fuso californiano) che, con sintesi da fucilazione, spezzetta i compiti in piccole unità e prevede brevi ma frequenti aggiornamenti sullo stato di avanzamento. Gennaro Varriale, fondatore di Buzzoole che da Napoli si occupa con successo di marketing digitale grazie ai suoi dieci programmatori sparsi per l’Italia, ne è evangelista: «Fondamentali sono le “cerimonie”, ovvero i momenti quotidiani o settimanali in cui si fa il punto della situazione. Peraltro ogni programmatore deve fare note scritte sui problemi che incontra e soluzioni che trova che diventano così conoscenze a disposizione degli altri». I suoi dipendenti hanno massima flessibilità, ma Varriale ridicolizza le caricature di lavoratori a bordo piscina («Col sole sullo schermo non si vede neanche ciò che scrivi!»).
C’È GIÀ CHI FA LA SETTIMANA CORTA
Qualche anno fa sul venerdì avevamo raccontato l’avanguardia di chi faceva già la settimana corta. Con vantaggio reciproco, lavoratori e azienda, a quanto pare. Il reportage iniziava così:
Milano. È mercoledì pomeriggio e Daiana Iacono risponde al telefono dal parco Sempione. Ha preso una delle due mezze giornate libere (in alternativa a una intera) che il passaggio alla settimana di quattro giorni le consente di fare. Dice: «Prima non ero mai potuta andare a prendere a scuola i miei figli. Ora ci sta quello e anche qualche bella passeggiata per me». Awin Italia, l’azienda di marketing digitale di cui è la manager, ha reso ufficiale il cambiamento da gennaio 2021, come nelle altre filiali internazionali, dopo un periodo di prova pandemico in cui aveva cominciato regalando ai dipendenti il venerdì pomeriggio. Gli affari non sono mai andati meglio, per non parlare dell’umore dei lavoratori. Dovrebbe essere un’aritmetica piuttosto convincente quella che, nel loro caso, a un meno 20 per cento di ore lavorate fa corrispondere un più 10-15 per cento di risultati. E invece no. Restano una sparuta avanguardia, in uno dei pochi Paesi in cui il dibattito sullo scorciare la settimana lavorativa è praticamente assente. Sia nella politica che nel sindacato. Mentre l’Islanda ha già portato a termine con successo una sperimentazione così come farà la Scozia, la Spagna ha annunciato una prova di tre anni, il Giappone (che ha una parola, karoshi, per descrivere la morte per eccesso di lavoro) ci sta pensando seriamente come la Nuova Zelanda dov’è nata l’associazione 4 Days Week Global e a metà febbraio i quattro giorni sono diventati legge in Belgio (a parità di ore, però). Intanto Mark Takano, deputato democratico della California, ha presentato il 32-Hour Workweek Act, un disegno di legge su cui il Congresso dovrà esprimersi. E se è pronta a discuterne una nazione in cui il workaholism è emergenza sociale quasi quanto l’alcolismo da cui deriva il nome, perché non dovremmo esserlo noi che negli anni 70 brillavamo nel firmamento giuslavoristico internazionale per Statuto dei lavoratori e altre conquiste?
Torniamo in zona Cadorna, nella sede meneghina della multinazionale tedesca Awin, specialista in performance marketing per cui il cliente paga solo se l’utente digitale compra qualcosa, e non semplicemente perché ha visto la pubblicità. È qui che Iacono ha convocato, eccezionalmente in presenza, un po’ di colleghi per l’intervista. Un’infilata di trentenni sorridenti nel raccontare il loro giorno in più. Norma Greco si dedica a un appartamento che ha riadattato a b&b, ha fatto l’abbonamento per l’hydrobike, pedalare sott’acqua, e fa weekend lunghi a Bardonecchia. Caterina Poppi ha imparato a cucinare, archiviato ogni alibi contro yoga e pilates e si è iscritta a un master («Mi piace scrivere»). Diego Nebuloni si sarebbe buttato sulla pallacanestro, e invece deve limitarsi alla fisioterapia per recuperare un incidente ed è potuto «andare a vedere giocare l’Olympia basket… alle 18!». Ah, ha anche aperto due enoteche con alcuni amici. In ogni caso, spiega, la nuova organizzazione ha messo a dieta stretta le riunioni («Massimo 30 minuti») ma questo e altri aggiustamenti non hanno inciso nella resa, anzi: «Non mi pagano per le ore, ma per i clienti che porto: quello è il numero che conta e devo continuare a produrre». Ogni sei mesi, chiosa Iacono, fanno un sondaggio sulla soddisfazione dei clienti: «Sin qui tutto bene. Se qualcosa cambiasse siamo pronti a tornare indietro, ma non credo che avverrà. Sono tutti così “committati” (dall’inglese committed, coinvolti) in questo progetto che nessuno vuole rischiare che la pacchia finisca. I manager italiani tendono a non fidarsi dei propri dipendenti, ma credo che sbaglino. È una situazione win-win, vince il lavoratore ma anche l’azienda». Awin-Awin, addirittura, se non fosse una battutaccia.
LA PROFEZIA DI “HER” ERA SBAGLIATA. PER DIFETTO
L’ultima Galapagos:
Il 2025, che geopoliticamente si candida già a passare alla storia come Anno della follia (dall'invasione della Groenlandia a Gaz-a-Lago, giusto per dire le prime cose), cinematograficamente è anche l'anno di "Her". Inteso come il film in cui, oltre un decennio fa, il regista Spike Jonze immaginava che in un futuro prossimo – ovvero i giorni che stiamo vivendo – gli umani, scoraggiati dalle relazioni sentimentali naturali, potessero fidanzarsi con l'intelligenza artificiale. Come accadeva a Theodore (Joaquin Phoenix) che, dopo un doloroso lasciamento, trovava conforto in un'assistente virtuale chiamata Samantha che aveva la burrosa voce di Scarlett Johansson e che veniva descritta come "il primo sistema operativo di intelligenza artificiale al mondo". Se l'immaginazione ha sbagliato bersaglio, come sempre più spesso accade, l'ha fatto per difetto. Nel 2025 reale, fa notare il New York Times (che racconta anche la storia vera della sessantenne Lynda che si è inventata il fidanzato virtuale Dario DeLuca, neuroscienziato di Positano), possiamo scegliere tra una gamma ben più ampia di servizi di compagnia alimentati dall'IA. Si chiamano Kindroid, Nomi, Replika o EVA AIe invitano gli utenti a progettare avatar attraenti, sceneggiare le vite dei loro "compagni", smessaggiarli senza fine e persino fare chiamate vocali. Per chi sente l'ansia del San Valentino alle porte.