#17 Le vittime di Traini e altri migranti
A Macerata, ancora senza permesso di soggiorno; la via trevigiana e quella canadese all'accoglienza; vittime cinesi a Prato; a Brescia il Pd vince; scarpe e miseria; Nabba Cash; Strange Fruit
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Prologo
Il ciclo delle notizie è incessante. La capacità dei media di stare dietro alle storie, una volta bruciate sulla pira dell’attualità, è limitata. Più che un fallimento specifico è un difetto di progettazione. Per fortuna ci sono i settimanali, che hanno più tempo e sono meno incatenati alle notizie battenti. Per fortuna ci sono i miei capi che mi lasciano briglia sciolta e a cui vengono idee come andare a vedere che ne è stato delle vittime di Luca Traini, l’autoproclamatosi vendicatore dell’orrendo omicidio di Pamela Mastropietro e di cui, da oltre tre anni, nessuno aveva mai più scritto. Lo fa il Venerdì con un reportage e un podcast con le voci loro e di altri protagonisti di questa storia.
PALLOTTOLE SÌ, PERMESSO DI SOGGIORNO NO
La cosa che ricorderò più a lungo di questo servizio è quando Omar Fadera ha cancellato il nostro primo appuntamento: «Ho dormito poco, sono a pezzi, possiamo fare domani?>. Si era svegliato verso le quattro per l’unico pranzo consentito dal ramadan, per poi mettersi in marcia (in bus) verso il cantiere dove fa il muratore per poi finalmente tornare a casa verso le otto di sera. È una delle vittime che non solo non ha avuto un euro di risarcimento ma ancora non ha neppure il permesso di soggiorno. A me sembra pazzesco, no? L’inizio del pezzo:
MACERATA. Che fine hanno fatto le vittime di Luca Traini? Non sembra esserci domanda più esotica nella città resa giornalisticamente celebre dalla «tentata strage aggravata da odio razziale» (così la Cassazione che ha confermato 12 anni di carcere) avvenuta il 3 febbraio 2018 per mano di un culturista di ventott’anni, candidato consigliere leghista con un “dente di lupo”, il logo nazista pre-svastica, inciso sulla tempia destra, e una libreria domestica essenzialmente composta dal Mein Kampf. Non lo sa l’ex sindaco («Immaginavo che fossero sistemati»). Risultano irrintracciabili per i loro avvocati d’ufficio. Lo ignorano gli sparuti avventori del mercato di piazza Mazzini. «Vittime? Non saprei, ma grazie a Dio sono rimasti solo feriti» dice un commerciante, infilandosi in un labirinto di distinguo che sfocia in un programma di Rete 4 dove avrebbe visto brutte scene di degrado con protagonisti altri immigrati. Tra i pochi ad aver preso sul serio l’interrogativo ci sono gli autori del documentario in lavorazione Fortunatamente non si è fatto male nessuno, citazione carpita a un passante in quei giorni di paura e delirio a Macerata. Perché, se è vero che servono migliaia di morti per far scrivere di Africa, sei neri presi a pistolettate e impunemente ancora vivi equivalgono a nessuno. Anzi, a niente. Non è successo niente.
AIUTIAMOLI A CASA NOSTRA. ALLA LETTERA
Sul fronte opposto, quello dell’interessamento radicale, mi aveva colpito la storia di una famiglia del trevigiano che aveva deciso di prendersi in casa sei rifugiati. Motivata da un cristianesimo militante che aveva dato scandalo. Il pezzo (marzo 2018, l’integrale qui) iniziava così:
CAMALÒ (Treviso). Il soggiorno di casa Calò è un porto di mare. Prima arriva Tidjan, ventotto anni dalla Guinea Bissau, dal suo turno da lavapiatti in una trattoria. Poi Mohamed, ventisette anni dal Gambia, che fa il tirocinio in una tipografia. Quindi è la volta di Saed, nato ventun anni fa nel Ghana, che oggi lavora come bracciante agricolo. Salutano. Sorridono. Uno stacca le cosce a un pollo, l’altro bolle il riso: cena africana. Non è una cosa da niente perché, alla fine, intorno alla tavola a cui è stata aggiunta da tempo una prolunga un po’ artigianale, saremo un battaglione: il professor Antonio e sua moglie Nicoletta, sotto al crocifisso che campeggia sulla parete; il loro figlio maggiore e quello più piccolo (i due intermedi fanno l’università fuori); cinque dei sei rifugiati che quasi due anni fa, dando scandalo in paese, hanno deciso di ospitare; più il cronista attirato, in questi tempi di cattivismo anti-migranti e «aiutiamoli a casa loro», da questo caso limite di «aiutiamoli a casa nostra». Letteralmente. Se l’arci-italiano Alberto Sordi spiegava il suo non essersi sposato per il disagio di mettersi «una sconosciuta in casa», questo veneto anomalo ha ridisegnato la geometria della sua già numerosa famiglia, dicendo addio per sempre a privacy e silenzio, per spalancare le porte a una squadra di ragazzoni neri come l’ebano, in fuga da un passato tra il misero e l’insostenibile. Chi gliel’ha fatto fare?
LA VIA CANADESE ALL’ACCOGLIENZA
Su un fronte più laico l’anno prima ero stato a Guelph, nell’Ontario canadese, per raccontare una storia alternativa di integrazione grazie al quale il paese aveva raccolto decine di migliaia di siriani in fuga. Programma in cui si era distinto un industriale locale piuttosto formidabile.
Questo piccolo miracolo di civiltà ha a che fare con una possibilità a noi ignota: la sponsorship privata. In altre parole, associazioni accreditate o privati cittadini possono prendersi direttamente in carico uno o più rifugiati, a patto che si impegnino a pagar loro vitto e alloggio per un anno. La cifra di sussistenza per una famiglia di 4-5 persone è quantificata in 30 mila dollari canadesi, poco più di 20 mila euro. Se ve la sentite, contattate i rifugiati, riconosciuti tali dall’Unhcr, attraverso organizzazioni umanitarie o varie chiese, e iniziate la procedura. Sotto il premier conservatore Stephen Harper i tempi burocratici arrivavano sino a quattro anni. Con il liberal Justin Trudeau si sono magicamente accorciati a 3-8 mesi e in un anno e mezzo il fotogenico capo del governo ne ha accolti quasi 40 mila (su una popolazione di 36 milioni) contro 1.300 del biennio precedente.
Alla quota dei privati, portata a 18 mila nel 2016, ha contribuito il 60enne Jim Estill, ingegnere informatico con alle spalle investimenti in oltre un centinaio di start up (Da zero a 2 miliardi è il titolo della conferenza Ted in cui rivela il suo vangelo manageriale) ed è stato tra i fondatori della Blackberry, gloriosa stella caduta della telefonia. «Vedevo in tv le notizie dalla Siria» mi racconta, pantaloni e camicia grigia marchiata Danby come un magazziniere qualsiasi, nel suo modesto ufficio nella zona industriale, «e ho capito che non mi sarei mai perdonato se non avessi fatto qualcosa per aiutare». Così, con una moglie e due figli ormai grandi, nell’agosto 2015, chiede com’è meglio muoversi a Muhammed Sayyed, presidente della locale Muslim Society. Mette in chiaro che la sua vuole essere un’iniziativa umanitaria, senza targhe religiose, e l’imam non fa una piega.
I CINESI DI PRATO: I NOSTRI MORTI NON ERANO SCHIAVI
Anni fa, a Prato che ora fa parlare per la fine della giovane Luana D’Orazio, erano morti sette operai cinesi. Invece di suscitare un po’ di umana pietà l’evento aveva scatenato l’ennesimo rigurgito di odio social per cui i cinesi era stati vittimizzati due volte. Ero stato (gennaio 2014, qui l’integrale) a vedere:
PRATO. Ci sono quattordici persone vestite di nero sedute intorno a un tavolo. Se non fosse per le tazze di tè fumante tutto – la fòrmica bianca, la luce al neon, i volti terrei – farebbe pensare a una morgue e non al retro di un bar semivuoto del centro. Sono i familiari dei sette morti nel rogo del laboratorio Teresa Moda, appena arrivati dalla Cina. Una madre, i capelli neri che le spiovono sui lati della testa come uno spaventapasseri, è pietrificata dal dolore e quasi non riesce a estrarre la mano dalla tasca per rispondere al saluto. Non sanno che, all’indomani dell’incendio, nei bar c’era chi ridacchiava («dovrebbero bruciare tutti») e sul web è spuntato un articolo agghiacciante (ci si arriva dalla pagina Facebook dell’associazione Prato libera e sicura che fa capo all’assessore alla sicurezza) dal titolo «Non sono poi molti sette morti in cambio di ciò che i cinesi avranno», scandalizzato dall’apertura di un ufficio postale dove si parlerà mandarino. Sanno invece che vita facevano i loro mariti, mogli e fratelli. «Mangiare l’amaro» è l’espressione che i cinesi della diaspora usano spesso. Vuol dire 18 ore al giorno, laoban, padroni non teneri ma che pagavano salari fino a oltre 3000 euro al mese per gli operai più veloci. Con vitto e alloggio, seppure nelle cellette dove sono morti cercando di riscaldarsi. Non è la vita che faremmo, non è la vita che nessuno dovrebbe fare, ma è la vita che hanno scelto con la speranza di mettersi in proprio dopo cinque-sei anni. Da zero a imprenditore in un lustro non è un salto che si fa gratis. «Ma non chiamateci schiavi» esorta il fratello di una vittima, «nessuno dei nostri familiari era costretto a fare niente. Sono venuti, sui racconti di amici partiti prima, per guadagnare in media dieci volte di più rispetto ai 200 euro per otto ore nelle fabbriche in patria». Ecco, per rispetto dei morti e dei vivi, cominciamo a chiamare le cose con il loro nome.
VINCERE LE ELEZIONI NONOSTANTE GLI IMMIGRATI? SI PUÒ
L’immigrazione è la kriptonite di ogni politico? Fino a un certo punto. A Brescia, infatti, con quasi il 20 per cento di immigrati il Pd ha vinto e rivinto. Ci sono stato tre anni fa e la principale preoccupazioni dei cittadini era… :
L’ultimo dato rilevante riguarda il lavoro: chiodo fisso del 63 per cento degli italiani contro il 21 dei bresciani. Fuoco, fuochino. Ci avviciniamo a un pezzo di spiegazione. Me lo dicono in coro, davanti a un piatto di casoncelli, l’ex capo della Camera del lavoro Damiano Galletti e la sua successora Silvia Spera: «Senza lavoro salta la coesione sociale». E qui c’è, ci sono entrambi.
«Anche tra i nostri iscritti c’è chi vota Lega» ammette Spera, «ma quando la giunta di destra provò a limitare i bonus bebé solo agli italiani e a espellere i sinti dai campi, facemmo ricorso per discriminazione. Rischiammo la spaccatura interna, ma non si vince senza rischiare». Qui è sport diffuso. Come il vescovo che poche settimane fa è andato in visita alla moschea. O l’Associazione industriali che ha ribadito che «gli immigrati servono». O, per dirla con le parole di Franco Marelli, l’esemplare amministratore delegato di una fonderia nella vicina Lumezzane, «senza di loro non avrei trovato nessuno per i turni notturni del fine settimana». Già. L’ovvietà che spesso viene usata come un randello contro la sinistra radical chic che in genere la pronuncia da una distanza di sicurezza qui è patrimonio comune. Fonderie, edilizia, badanti: senza immigrati, Brescia sarebbe al tracollo.
DA LEGGERE: LAVORARE COI PIEDI
Lavorare coi piedi di Tansy Hoskins (Einaudi) racconta l’industria globale della calzatura, dove le condizioni sono addirittura peggiori che nell’abbigliamento. Ne ho scritto la settimana scorsa.
Nel 2018, in tutto il mondo, sono stati prodotti 66,3 milioni di paia di scarpe al giorno. Sommati, danno un totale di 24,2 miliardi di paia in un anno*.
Un rapporto dell’Ilo indicava che dal 1970 al 1990 il numero di lavoratori nel settore «tessile, abbigliamento e calzature» (TaC) era aumentato del 597 per cento in Malesia, del 416 per cento in Bangladesh, del 385 per cento in Sri Lanka e del 334 per cento in Indonesia. Nello stesso ventennio, i paesi del Nord Globale subirono un’emorragia di posti di lavoro. La Germania perse il 58 per cento dei lavoratori del settore TaC, la Gran Bretagna il 55, la Francia il 49 e gli Stati Uniti il 31 per cento. (…) I marchi corsero ad approfittarne. Ora potevano pagare un’ora di lavoro 1,70 dollari in Messico, o 3,80 a Taiwan, invece dei 18,40 dollari l’ora di un lavoratore tedesco o i 13,40 di uno francese.
Phil Knight (il fondatore della Nike) è andato in pensione nel 2016 e possiede una fortuna di 34,9 miliardi di dollari.
L’Ilo ha calcolato che almeno 60 milioni di persone sono ufficialmente impiegate nel settore globale dell’abbigliamento. Di questi 60 milioni, sono donne circa l’80 per cento.
Il dottor Klaus Maertens (a volte scritto anche Märtens) aveva lavorato come medico militare nella Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale. La leggenda vuole che, dopo essersi infortunato al piede durante una vacanza sugli sci, trovasse gli scarponi militari cosí scomodi da mettersi a sviluppare il progetto di un nuovo scarpone con una spessa suola a cuscinetto d’aria.
DA VEDERE: SNABBA CASH
Il piatto televisivo piange, per quanto mi riguarda, ma la svedese Snabba Cash, su questa bella tipa che sogna di diventare ricca con una start up e nel frattempo lavora come cameriera in un ristorante mediorientale non è male. Con tanto di cognato gangster e futuro fidanzato pure. Su Netflix.
DA SENTIRE: STRANGE FRUIT
Strange Fruit di Nina Simone:
“Southern trees bear a strange fruit
Blood on the leaves and blood at the root
Black bodies swingin' in the Southern breeze
Strange fruit hangin' from the poplar trees”.
Epilogo
Facendo la consueta ricerchina nel mio archivio Google Drive che poi partorisce questa newsletter è venuta fuori così tanta roba sugli immigrati che avrei potuto fare una decina di numeri. Il pezzo seminale, che poi è diventato il libro Grazie. Ecco perché senza immigrati saremmo perduti, per me è stato questo del 2008 in cui immaginavo una giornata senza immigrati. In cui l’Italia si sarebbe fermata. Ricordiamocelo.