#166 Ritorno a Viareggio
1) La placida cittadina della mia infanzia è diventata violenta? 2) Là dove i milionari comprano i loro yacht 3) Un Comune in dissesto, ma non per mafia 4) L'IA come docente
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UCCIDERE UN UOMO PER UNA BORSETTA
A settembre a Viareggio c’è stato un omicidio particolarmente brutale. Che è stato accolto con simpatia da una parte dell’opinione pubblica. Sono andato a vedere. L’inizio (il resto sul Venerdì in edicola e online):
Viareggio (Lucca). Via Coppino, la scena del crimine, è l’epicentro della viaregginità. È qui che sorgono molti famosi cantieri navali ed è questo quartiere che dà il nome alla più “brasiliana” versione notturna del carnevale cittadino. È anche qui che si collocano l’alfa e l’omega di questa storiaccia. Il ristorante da Miro, specialità spaghetti alla trabaccolara – dalle chiatte dei pescatori locali – dove il 7 settembre Cinzia Dal Pino aveva cenato con le amiche. E la sede di Cantalupi, sistemi elettrici per yacht, davanti alla quale Dal Pino investe ripetutamente col Suv Mercedes il maghrebino che le aveva rubato la borsetta, dicendo di avere un coltello che nessuno ha mai trovato, fino a fargli esplodere l’aorta. Ci sono duecento metri tra l’inizio e la fine. E vari anni luce di sproporzione tra offesa e reazione. Lo diciamo perché l’omicidio è stato immortalato da una telecamera di sicurezza. Un minuto e diciannove secondi in cui la derubata schiaccia il ladro contro il muro. Poi fa marcia indietro e lo rimette sotto. Una. Due. Tre. Quattro volte in totale. Già a metà della carica l’uomo giace a terra, disarticolato come una bambola di pezza. È una sequenza agghiacciante. Ma la ciliegina horror arriva in fondo. Quando la donna scende dall’auto, recupera la borsetta dal moribondo e se ne va via. Non senza, scopriremo poi, ripassare dalle amiche per restituire l’ombrello che le avevano prestato.
C’È DEL MARCIO IN VERSILIA?
Sarà perché sono nato qui, in una meta turistica per famiglie il cui principale peccato è che non succedeva mai niente, che vedere quelle immagini mi ha particolarmente impressionato. Era cambiato qualcosa nella pasta psichica della cittadina della mia infanzia? E ha forse ragione mia madre che, a ogni visita, non fa altro che snocciolare un rosario di furti – «la Daniela dice che sono matta a passare vicino alla stazione quando fa buio», «anche la Fabrizia ha messo le sbarre alle finestre» e via tragediando?
A cadavere ancora caldo la Nazione offriva un ritratto della protagonista: «conosciutissima viareggina doc», «estroversa, aperta al dialogo», le «feste a tema organizzate nel suo stabilimento balneare». Fino al gran finale: «La Cinzia dei molti sorrisi e delle tante cene in compagnia ora catapultata in un incubo giudiziario da dipanare». Ecco, no: meno difficile da dipanare di altre storie dal momento che c’è tutta la cronaca video. Insomma, era scattato il richiamo della foresta. È una di noi, quindi non può essere veramente colpevole. Ma se sulla stampa locale i toni erano rimasti tutto sommato urbani, non così in rete dov’era partita la classica ola giustizialista, cavalcata da Salvini. Certo, succede dappertutto, ma che la bonomia salmastrosa di una comunità progressista stesse lasciando il campo alle correnti nere che hanno portato Meloni&Trump al governo era una storia, questa sì, da cercare di dipanare. In loco.UN DIBATTITO SENZA NUMERI
Dettaglio decisivo: il dibattito sulla «criminalità dilagante» si compiva, in linea con un Paese allergico alla statistica, in totale assenza di dati. Perché per capire se aveva ragione mia madre o io, c’era prima da sapere se, negli ultimi anni, i reati fossero aumentati. E, se sì, quali. E, possibilmente, compiuti da chi. Quindi per prima cosa avevo scritto al questore di Lucca che mi aveva rimbalzato sull’ufficio stampa della Polizia di stato. Che aveva reagito come se avessi chiesto la desecretazione dei dati sulla strage di Ustica: «Le dico subito che ci vorrà molto tempo. Settimane, forse un mese o più». Sconcertato, mi ero messo in attesa. Cercando nel frattempo di parlare con chi della vicenda qualcosa in più ne sapesse. A partire da Enrico Carboni, avvocato dei familiari della vittima, sette tra fratelli e sorelle che da Casablanca gli hanno dato l’incarico. Lo incontro nello studio davanti alla chiesa di San Paolino dove il marocchino Noureddine Mezgui, 47 anni, inizialmente identificato con le generalità poi scoperte false dell’algerino Said Malkoun, passava parte delle sue giornate. Seduto sulle panchine, magari in compagnia di un cartone di Tavernello frutto di turni da parcheggiatore abusivo al porto. «Spesso barcollava, mi salutava perché l’avevo già difeso per un tentato furto che gli era valso un decreto di espulsione mai eseguito. Ma non era pericoloso, perché su quelli la polizia interviene» dice il pacioso legale. Una volta completate le indagini preliminari, salvo proroga entro marzo, si deciderà sul rinvio a giudizio di Cinzia Dal Pino o su quello immediato. Tra le ipotesi di imputazione: omicidio volontario, premeditato o aggravato dall’uso della automobile. Dice l’avvocato: «Mi ha spaventato la reazione della gente. Vorrei entrare nella testa di quella donna. Senz’altro in città c’è questa sensazione di microcriminalità dilagante, ma non diversamente da ogni altro posto. Il fatto è che in questo caso a rubare sia stato uno straniero, come allarme sociale vale doppio». In aula la difesa di parte civile non avrà vita facile. La controparte è il fuoriclasse Enrico Marzaduri, già ordinario di procedura penale a Pisa nonché, ai tempi, prof del vostro cronista. Che non ha risposto alle nostre richieste di intervista ma, a un certo punto, in tv – tra Lapalisse e Educazione siberiana – ha di fatto ribadito la versione salviniana per cui «se il signore marocchino non avesse rapinato la signora Dal Pino non sarebbe successo nulla». Quanto all’andamento della criminalità dilagante, neppure Carboni «ovviamente» ha dati, «ci mancherebbe!».
GIGAYACHT, 1 MILIONE DI EURO A METRO LINEARE
Tre anni fa, se ricordo bene, avevamo fatto una copertina su un export viareggino piuttosto pregiato. Iniziava così:
Viareggio. Prendete i corrimano. Forgiati da un’officina locale, in acciaio tirato a specchio come solo nelle statue di Jeff Koons, di pianta ovale sedici centimetri per dieci. Hai l’impressione, stringendoli, che niente di male possa succederti. D’altronde se puoi spendere trecentomila euro per l’equivalente nautico del battiscopa domestico non sono troppe le cose che dovrebbero impensierirti. Difatti a bordo di questo gigayacht, che nel lessico familiare del cantiere Benetti che l’ha costruito sta a indicare quelli sopra i novanta metri, sembra che il criterio che abbia improntato le scelte dell’armatore sia quello di certi parvenus davanti a liste di vini troppo enciclopediche: «Voglio il più caro!». Di rilancio in rilancio la fattura finale è arrivata a 160 milioni di euro. A cui va aggiunto circa il 10 per cento ogni anno per manutenzione e rimessaggio, che è come se dopo aver comprato una casa da un milione continuaste a spenderne ottomila al mese di spese condominiali. Senza considerare la dotazione di arte contemporanea contenuta a bordo che, non di rado, supera il valore del contenitore. La circostanza più singolare, nota da tempo agli addetti ai lavori ma ancora largamente sconosciuta ai più, è che quasi la metà di queste navi di extra-lusso (il 44 per cento di quelle sopra i 30 metri costruite dal 2016 a oggi stando alla classifica di SuperYacht Times) vengono costruite in questa cittadina di sessantamila abitanti, equidistante da Lucca e Pisa, famosa per il suo carnevale e per un turismo balneare con uno sfolgorante passato. Nella quale, incidentalmente, è nato il vostro cronista che sin qui si era astenuto dal mettere a sistema gli aneddoti raccolti negli anni da amici e conoscenti. Fino al combinato disposto di un recente articolo del Tirreno sul «boom di richieste di superyacht» nonostante e anche a causa della pandemia e un altro sulla specializzata RobbReport dal titolo «Come questa cittadina toscana senza pretese è diventata l’epicentro del mondo dei superyacht» che hanno spazzato via le ultime resistenze. Ed eccomi in una trasferta che eccezionalmente non necessita né di albergo né di guardare le strade su Google Maps, per cercare di rispondere alla domanda: perché, potendo scegliere, tanti straricchi del pianeta vengono a farsi la barca proprio qui?
In verità il gigayacht lo vedo a Livorno dove si trova per l’annuale manutenzione perché è negli ex cantieri Orlando che oggi Benetti lavora alle imbarcazioni più grandi. L’amministratore delegato Marco Valle calcola che, fatto cento il totale dei costi di uno yacht in acciaio da 30 metri, il 30-40 per cento va nell’allestimento, la costruzione personalizzata di tutti gli interni, e in questo le maestranze locali sarebbero imbattibili. È una competenza che viene dai maestri d’ascia dell’800, dai barcobestia, quei velieri da trasporto che infiammavano i racconti dei nonni (apprendo ora che l’origine del nome, più che con la robustezza, avrebbe a che vedere con la crasi tra best e bark, le barche migliori). Fino al 1979, data di nascita del vero superyacht, il Nabila da 86 metri costruito da Benetti per lo sceicco Adnan Kashoggi (quello del diamante a Lory Del Santo per una notte d’amore) che contemporaneamente promosse il cantiere nel pantheon della nautica ma ne affondò anche i conti per troppi change orders, cambi in corso d’opera, mal gestiti in un’impresa senza precedenti. Se Valle dovesse riassumere e indicare due punti di forza direbbe «creatività e flessibilità, nel senso di trovare sempre un modo per venire incontro alle richieste del cliente». Elogia in particolare i falegnami, con molte ditte piccole con massimo dieci dipendenti, che insieme a tanti altri artigiani (carpentieri metallici, tappezzieri, elettricisti, ecc.) creano un distretto economico unico, lo stesso che stando ai calcoli di Banca Intesa è cresciuto più di tutti gli altri (+20 per cento) nel terzo trimestre del 2020 mentre milioni di italiani stringevano la cinghia fin quasi a non respirare. «È stato un anno formidabile» confessa con pudore, «un po’ perché si è fatta strada l’idea che niente come una barca ti dà la libertà di viaggiare in sicurezza anche quando il resto del mondo si ferma. E poi per l’abbondanza di liquidità che la pandemia ha, per chi già stava molto bene, aumentato». Risultato: ordini per 1,5 miliardi, nuovo record che conferma il cantiere al primo posto al mondo nel segmento sopra i 24 metri e li terrà occupati fino al 2023. Il grosso dei clienti in America, l’Asia che cresce, pochi vip citabili tra cui il calciatore Ronaldo con il suo 27 metri e un numero decisamente maggiore di ultra-ricchi di cui nessuno ha mai sentire parlare, come l’armatore da 4 miliardi di dollari di patrimonio personale (so tutto di lui, ma la condizione per salire a bordo era non identificarlo) che possiede il gigayacht dai corrimano che costano come una villetta in via Coppino, l’affaccendata via che costeggia la Darsena e buona parte dei cantieri e che oggi è una monocoltura merceologica a tema nautico. «Nella fascia 50-70 metri» rivendica Valle «siamo senz’altro i migliori. In quella oltre gli 80 forse tedeschi e olandesi (è di questi giorni la notizia che Jeff Bezos ha commissionato a Oceanco il suo yacht da 500 milioni di dollari) ci battono ancora, soprattutto quanto a rispetto dei termini di consegna, ma recuperiamo anche su quello».
BANCAROTTA PER ECCESSO DI MUNICIPALIZZATE
Parecchi anni fa, invece, ero andato a raccontare il sorprendete commissariamento del Comune. Incipit:
VIAREGGIO. La via accanto al Comune, quella che ospita il miglior spaccio di cecina della città, è sigillata dai nastri giallo-neri della polizia municipale. Sono caduti grossi rami dai pioppi e si attende che gli addetti intervengano. Andrà senz'altro meglio di qualche settimana fa, quando una delle entrate principali della Pineta di Ponente era rimasta ostruita per giorni da un pino collassato. Che, facendo le proporzioni, è un po' come se un ostacolo a caso impedisse per 48-72 ore l'ingresso a Trastevere. Cose che succedono nei comuni dissestati. Perché questa, nella persistente incredulità dei viareggini e nella comprensibile indifferenza del resto del Paese, è l'etichetta amministrativa che ha preso il posto della ben più immaginifica Perla del Tirreno conquistata sul campo agli inizi del Novecento. Con il suo Carnevale quintessenziale, i suoi bagni ostinatamente Bandiera blu e la sua cantieristica da miliardari planetari, nonostante queste e altre doti, la cittadina versiliese un anno fa ha portato i libri in tribunale. Seppellita da un debito colossale e apparentemente ingestibile che nelle prossime settimane dovrebbe essere quantificato alla virgola ma già si stima nei dintorni di 200 milioni di euro, figli di una spesa che sembra essere stata l'ultima cosa veramente allegra in una città che oggi vive nel contrappasso di una quaresima inesorabile, con tasse locali record e senza più un euro da spendere. Dopo che un'intera generazione politica (meno, ma a lungo, a sinistra; brevemente, ma pesantemente, a destra) ha sbagliato quasi tutto quel che poteva sbagliare. La domanda è quindi: come ci sono riusciti?
La storia recente della città è un lungo esercizio di sottrazione. Una spoliazione graduale e autoinflitta. In un libriccino dal titolo Viareggio (era) una città bellissima Rossella Martina, che oggi è vicesindaco, si è presa la briga di mettere in fila le defezioni. Dopo vent'anni è saltato EuropaCinema, la risposta locale a Cannes. Il Premio Viareggio, azzoppato da protratte faide, è così malconcio che in una delle ultime edizione ai vincitori è stato chiesto (con salvataggio in extremis) di pagarsi la cena. La Coppa Carnevale, torneo internazionale di calcio giovanile, l'anno scorso è stato ospitato a Pisa per inagibilità dello stadio. Stessa ignominiosa sorte per il meeting di nuoto Mussi-Lombardi-Femiano con Federica Pellegrini che ha dovuto gareggiare nella vicina Massarosa (è come se la Milanesiana si tenesse a Carugate) perché la piscina, a tutt'oggi pignorata dai creditori, non era all'altezza. Per non dire del Festival Gaber che, dopo un decennio, dall'anno prossimo non ci sarà più. La nostalgia è una trappola pericolosissima e qui be' mi tempi è tra gli intercalari più ricorrenti. Oltre che il nome di un forno molto popolare che, due anni fa, finì nelle cronache locali per essere stato derubato due volte in tre giorni, cristallizzando l'idea diffusa di un Far West fuori controllo quasi quanto i conti pubblici. Eppure, anche facendo questa tara, lo smottamento sfida ogni casualità. La crisi dell'economia ha raddoppiato quella della politica, appesantendone la picchiata. O viceversa. Il risultato è comunque disastroso, con una stupefacente quantità di negozi chiusi come ne avevo visti solo a Dublino quando la Tigre celtica si era risvegliata gattino o a Cipro all'indomani del default. «Nell'ultimo triennio hanno chiuso 400 attività, su poche meno di duemila sopravvissute, con una perdita di circa 2000 posti di lavoro» spiega sconsolato Piero Bertolani, presidente di Confcommercio oltre che storico rivenditore di abbigliamento sportivo. Il 2008 è stato annus horribilis per tutti, ma perché a Lucca e Pisa, per restare vicini, le vie dello shopping non sembrano guarnigioni altrettanto decimate? Bertolani elenca molte ipotesi: la liberalizzazione che ha consentito l'apertura nel weekend in varie altre città (togliendo l'esclusiva a Viareggio); i sempre più esosi canoni dei negozi sul lungomare; le minori disponibilità della classe media della cantieristica. Il mistero rimane.
A CHE SERVE UN INSEGNANTE QUANDO C’È l’IA?
L’ultima Galapagos:
C'è Duolingo e c'è Chegg. Ovvero, per dirla come farebbero a Roma, l'intelligenza artificiale po' èsse piuma e po' èsse fero. Partiamo dal ferro, dall'impatto pesante. La piattaforma di istruzione Chegg, negli ultimi quattro anni, ha visto crollare del 99 per cento il valore delle sue azioni. Si è sbriciolata. Per quale motivo? Da una parte c'entra la fine della pandemia, che ha liberato le persone dagli arresti domiciliari del lockdown. Ma soprattutto l'ascesa dell'IA. Gli aiuti per i compiti, infatti, ora te li fa ChatGPT gratis e Chegg ha già licenziato un quinto della sua forza lavoro. Lo stesso è successo a Stack Overflow, il luogo dove i programmatori andavano per farsi aiutare a scrivere codice. Oggi c'è GitHub Copilot, un bot, e non ne hanno più bisogno. Tra le vittime illustri che avrebbero una lezione da insegnare ai sopravvissuti l'Economist include anche Rws, ramo traduzioni online. Tra DeepL, Lara e tutta la concorrenza dell'IA è già un miracolo che abbia perso solo il 16 per cento dei profitti nei sei mesi fino a marzo 2023. Così arriviamo all'"effetto piuma". Perché in teoria anche Duolingo, celeberrima piattaforma per imparare le lingue, avrebbe potuto essere una vittima. D'altronde Chatgpt può serenamente imitare un tutor di francese e se anche scrive maîtrise senza l'accento circonflesso non è la fine del mondo. Invece a settembre ha introdotto una funzione di videochat che consentiva ai suoi abbonati di fare conversazione con un avatar di nome Lily. Quando, due mesi dopo, hanno presentato i risultati il valore delle azioni è cresciuto del 6 per cento. È come quando sei in macchina. Se guidi tu non ti viene il mal d'auto. Se sei il passeggero magari sì. Conviene guidare, sempre, non essere guidati.
Epilogo
Da noi sul fatto che a Gaza sia o meno genocidio si sente quasi esclusivamente Liliana Segre, che è una testimone formidabile, perché c’è passata, è sopravvissuta a un altro genocidio. E un po’ di rabbini furenti. Se allargassimo lo sguardo al resto della comunità intellettuale ebraica avremmo tante sorprese. Tipo Amos Goldberg, professore di storia dell’Olocausto all’università ebraica di Gerusalemme, uno quindi che se ne intende assai. E non ha dubbi: “È un genocidio”.