#164 BIG Pharmaco
1) Funzione col diabete, per la perdita di peso, e poi? Vita e miracoli dell'Ozempic 2) Longo: "fate la mima-diguno, piuttosto!" 3) Longevità vo cercando in Svizzera 4) Hdl o Ldl, questo è il dilemma!
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FINE DELL’OBESITÀ? CALMA E GESSO
Il titolo di questo numero è pari pari – perché insuperabile – quello che si è inventato il mio capo al Venerdì, il fantasista Livio Quagliata, per la copertina del numero in edicola. Di seguito l’inizio del mio pezzo:
Immaginate un mondo di magri. Con meno diabete e meno infarti. Ma anche con meno artriti, meno Alzheimer e un sacco di altri “meno” che in totale farebbero un grande “più” nella contabilità di salute del Pianeta. Less is more, è il caso di dire. Poi googlate “semaglutide” e vi accorgerete che quel mondo è già iniziato. Anche se in Italia ce ne siamo accorti meno che in America, dove la febbre da Ozempic – dal nome commerciale di uno dei tanti derivati del principio attivo – ha contagiato tanta gente che non aveva strettamente bisogno di prenderlo. Da Elon Musk ad attori e riccastri vari che volevano solo liberarsi in fretta di qualche chilo. Nonostante un discreto numero di uscite complottiste del «supergenio», come da immediato conio trumpiano, però una cosa va chiarita subito: questa nuova classe di farmaci funziona alla grande per le sue indicazioni primarie, ovvero diabete e obesità. Ed è già tantissimo. Ma è anche abbastanza per giustificare una recente copertina del generalmente cauto Economist accanto al titolo “Il farmaco per tutto”? La scienza medica e i miracoli dovrebbero giocare in campionati diversi. Eppure anche i titolisti di Nature si son lasciati andare a un “Come i farmaci ‘miracolosi’ per la perdita di peso cambieranno il mondo” in un articolo che, per onestà, introduce anche un certo numero di ombre sulla generalizzata promessa salvifica. “Non ridere né piangere, ma comprendere” ammoniva Spinoza. Con incrollabile fiducia nella medicina, ma per il possibile a ciglio asciutto, tentiamo di fare ordine in un dibattito surriscaldato.
Perdere dal 10 al 25% del peso
Partiamo dalle fondamenta. Parliamo di una classe di farmaci, scoperti una trentina d’anni fa da un signore che incontreremo a breve, per il trattamento del diabete di tipo 2, quello più spesso di origine alimentare. Si chiamano “agonisti dei recettori del GLP-1” perché imitano l’azione di un ormone naturale chiamato peptide-1 simil-glucagone. Che fa essenzialmente due cose: stimola il pancreas a rilasciare insulina, che abbassa i livelli di zucchero nel sangue, e sopprime la produzione di glucagone, l’ormone che li aumenta. Questa è la duplice azione importante per i diabetici. Poi si è visto che chi li assumeva dimagriva anche. Perché, interferendo con i recettori del GLP-1 nel cervello, riducevano la voglia di cibo e davano una sensazione di sazietà. Accresciuta rallentando la velocità con cui il cibo si muove nell’intestino. Ed è così che la fama ottenuta col diabete, che riguarda globalmente quasi 500 milioni di persone, è stata eclissata da quella per la perdita di peso. A partire dagli Stati Uniti, dove 3 persone su 4 sono sovrappeso e 4 su 10 obese. Per poi tracimare nel resto di un mondo che, stando all’ultimo rapporto della World Obesity Federation, potrebbe trovarsi con più di metà della popolazione grassa o grassissima entro il 2035.Sì, perché i trial clinici dimostrano che con la semaglutide si perde, in un annetto, dal 10 al 15 per cento del peso corporeo. Con la tirzepatide, un’altra molecola della stessa classe (oltre alla liraglutide), si arriva anche al 25 per cento, risultato che rivaleggia con la chirurgia bariatrica. Con la differenza che quella è un’operazione importante, mentre questa è un’iniezione una volta alla settimana – in attesa della versione per bocca su cui stanno lavorando. La Food and drug administration nel giugno del 2021 ha quindi approvato il Wegovy, il dosaggio più alto dell’Ozempic (entrambi prodotti dalla danese Novo Nordisk) che è invece indicato per il diabete, anche se il suo nome ha battezzato tutto il settore. Mentre l’anno scorso l’americana Eli Lilly ha messo sul mercato le sue versioni, rispettivamente Mounjaro e Zepbound, che agiscono su due ormoni contemporaneamente. E già si candidano a scalzare il loro Prozac dalla classifica dei farmaci di maggior successo commerciale. In Italia le versioni per il diabete, con un dosaggio minore, sono rimborsate dal Servizio sanitario. Mentre quelle per l’obesità no: se uno le vuole, ovviamente dietro prescrizione medica, dev’essere disposto a pagare tra i 200 e 300 euro al mese. Se però oltre a essere grasso hai la glicemia e il colesterolo alti, e ti si può definire pre-diabetico, ecco che allora puoi farti passare il farmaco. E, tra le altre cose, dimagrirai. Fine della premessa. {prosegue sul Venerdì}
LONGO, MISTER MIMA-DIGIUNO
Tra gli esperti che intervisto nel pezzo c’è anche Valter Longo che avevo scoperto, ed ero andato a incontrare a Los Angeles, prima che diventasse celebre da noi (così sanno fare tutti). Questo era l’incipit del pezzo del lontano 2015:
Los Angeles. Il momento della verità scocca alle otto e mezzo. Cosa mangerà l’ideologo del digiuno? Valter Longo, quarantasette anni, un metro e ottantacinque per settantacinque chili, tanti capelli lunghi e non uno bianco, lascia la Nissan elettrica al parcheggiatore e fa strada verso il diciottesimo piano del Penthouse di Santa Monica, la gemella azzimata della fricchettona Venice. Il cronista osserva in religioso silenzio prima di ordinare. Dopo un’attenta rassegna del menu il direttore del Longevity Institute della University of Southern California delibera: insalata di polpo, una ciotola di songino con mandorle, acqua gasata. Intorno rumoreggiano le nipotine di Baywatch.
Non c’è niente di penitenziale né dentro né fuori dai piatti. Questa è la forza di una dieta ragionevole, che anche la fallimentare disciplina di un essere umano standard può permettersi. Compresi occasionali strappi alle regole, peraltro facilissime da riassumere: poche proteine, pochissimi zuccheri, pesce sì, ma altra carne al minimo, intermittenti astensioni dal cibo. Un regime che promette di dimezzare i tumori, abolire le malattie cardiovascolari e il diabete e ridurre sensibilmente il rischio di Alzheimer. Per un extended play della vita di 12-15 anni che, aggiunti agli 83 medi italiani, ci porterebbero (praticamente sani) alle soglie dei cento. Nella peggiore delle ipotesi, a dar retta a Time. Che qualche mese fa ha schiaffato un rubicondo neonato in copertina avvertendo che potrebbe viverne 142. Tra i guru intervistati c’era anche Longo, che però ci tiene a non fare il passo più lungo della gamba. Wittgensteinianamente tace di ciò di cui non può parlare, con trial clinici effettuati e altre pezze d’appoggio. Ne ha già molti. Altri sono in corso. Di altri ancora conosce i risultati, ma non può violare l’embargo prima della pubblicazione in riviste scientifiche. Tutto sembra convergere verso la sua intuizione. L’elisir di lunga vita esiste e assomiglia terribilmente a ciò che sapevamo e abbiamo dimenticato. Ovvero: mettere nel piatto quel che avrebbero mangiato i nostri nonni per vivere quanto potranno legittimamente aspettarsi i nostri nipoti (anche grazie anche ai progressi della medicina).
L’indomani lo seguo a un convegno alla Davis School of Gerontology («la più antica del mondo») della Usc, meno popolare della Ucla, ma primatista assoluta nell’arte di raccogliere fondi, come dimostrano le decine di cantieri nello sterminato campus o il pacchianotto edificio donato dall’ex allievo George Lucas. Apre il promettentissimo Sean Curran che sdrammatizza confutando Woody Allen («Puoi vivere fino a cento anni, se rinunci a tutte le cose per cui vale la pena vivere») e ricordando che gli antiossidanti funzionano anche da adulti. Evvai! Poi è la volta di Longo che cita il suo maestro Roy Walford che si era ritirato un anno nel deserto dell’Arizona con altri otto volontari praticando una forma estrema di restrizione calorica e finendo pelle e ossa («Una cattiva idea. Morì poco dopo, a 77 anni»). Ma rammenta anche Jeanne Calment, una francese spirata a centoventidue anni, fumando fino a cento. Poi si dilunga su meccanismi cellulari che vedremo meglio tra poco. Quindi arriva il decano Caleb Finch, con barba bianca e pizza-tie, quelle cravatte assurde che si perdonano solo ai prof americani, a ricordare come la longevità dipenda al 35 per cento dall’ereditarietà (che può essere una cattiva notizia se in famiglia se ne sono andati presto), ma per il resto dallo stile di vita (buona notizia per tutti quelli con volontà). Per due terzi, almeno, non siamo condannati. Longo è quello che riceve più domande. Dice cavallerescamente dell’ex-capo di Curran a Harvard che potrebbe vincere il Nobel. Lo stesso vale per lui, ma è un genovese riottoso che non si autoincenserebbe neppure sotto tortura. Riesco a estorcergli un po’ di biografia durante un tragitto in auto, prima di iniziare due giorni di intervista. Figlio di un poliziotto e di una casalinga calabresi trasferitesi in Liguria per lavoro, da ragazzo suona la chitarra e a 16 anni convince il padre, in cambio di ottimi voti a scuola, di mandarlo un’estate dai parenti a Chicago per studiare in una celeberrima scuola di jazz. Gli piace così tanto che chiama a casa e avverte: «Non torno» (l’unico mistero riguarda la rassegnata resa dei suoi). Finisce lì le superiori, vincendo delle borse di studio, ma poi gli chiedono di dirigere la banda dell’università, si rifiuta e archivia la carriera alla Pat Metheny. Al college farà biochimica, un prestito studentesco via l’altro. Si arruola nell’esercito part-time per guadagnare («Nel 1991 un giornale locale pubblica la mia foto con il battaglione che doveva partire per l’Iraq» e che all’ultimo sarà lasciato a casa). Quindi il dottorato, poi il postdottorato in neuroscienze e l’insegnamento universitario. Finanziamenti raccolti per oltre venti milioni di dollari. La creazione di un’azienda nutraceutica tra le nove più influenti del mondo nel campo dell’invecchiamento («Io non prendo nulla: va tutto a sostenere le ricerche»). E siamo a oggi.
“LONGEVITÀ, È UN BICCHIERE DI VINO CON UN PANINO…”
L’anno scorso mi ero fatto mandare a Gstaad, in Svizzera, per raccontare una peculiare conferenza di gerontologi. Il pezzo iniziava così (e a un certo punto si parlava anche di Ozempic):
Gstaad (Svizzera). Dalla vetrina del negozio di sigari e articoli per il fumo, svetta un paio di babbucce. Di velluto blu, con dei teschi bianchi, in vendita a 419 franchi svizzeri, circa 435 euro. Colpiscono non tanto per l’abbacinante scarto tra valore d’uso e di scambio poiché, negli 800 metri della Promenade di Gstaad, tra Prada, Cucinelli, Louis Vuitton (dove si vestiranno qui i normospendenti?) e una galleria Gagosian, il prezzo osceno si rivelerà nella media. Quanto per l’involontario simbolismo dei due crani ossuti, feticci della morte, che il fumo notoriamente agevola, proprio nella due giorni in cui il paesino ospita la Longevity Investors Conference: “La più esclusiva al mondo”, come da materiale promozionale. Dove investitori e semplici milionari (oltre al biglietto da 5-6.000 euro, i 150 partecipanti han dovuto dimostrare di possederne almeno un milione da investire nella causa) si sono abbeverati alla Scienza dei migliori gerontologi per decidere su cosa puntare per fare ancora più soldi e, nel frattempo, allontanare la dipartita. Risultato già sostanzialmente centrato se nel mondo l’aspettativa di vita è passata, dal 1950 a oggi, dai 45 ai 73 anni. Con gli americani che arrivano in media ai 77 e gli italiani fino agli 82. La scommessa ora, oltre ad allungarla un altro po’, è arrivarci sani. Più qualità che quantità. Cambiando stile di vita, eventualmente aggiungendo integratori e farmaci, fino alla riprogrammazione cellulare. Da Netflix, che trasmette una docuserie sui segreti dei centenari, a questo paesino svizzero, il dibattito sulla vecchiaia sta vivendo una spumeggiante seconda giovinezza.
Tra scienza e fantascienza
Il programma messo insieme da Maximon, l’azienda che ha creato un fondo da 100 milioni di franchi per investire in startup sulla longevità, è densissimo. Oltre trenta relatori, tra cui quasi tutte le star internazionali del settore. Compreso, in videoconferenza, David Sinclair che dirige il Centre for Biology of Ageing Research a Harvard dopo aver contribuito a scoprire il ruolo delle sirtuine, enzimi che regolano il metabolismo e proteggono le cellule. Proteine che sarebbero state attivate dal resveratrolo, abbondante nel vino rosso, che ha allungato del 70 per cento la vita delle cellule del lievito. Peccato che quelle degli umani siano un filino più complesse e abbiano fatto cadere in disgrazia il resveratrolo, ma non il suo evangelista. Che si è limitato a rivedere al ribasso le stime di massima età raggiungibile: da 200, a 150, quindi a 120 anni. D’altronde la primatista, la francese Jeanne Calment, se n’è andata quando ne aveva due di più. Reale, dunque realistico.Ma qui ci sono anche transumanisti reo-confessi, quelli che puntano al fine-vita-mai, tra cui l’altamente mediatico Aubrey De Grey, inconfondibile anche per una barba da Matusalemme che però non lo rende particolarmente credibile come testimonial dell’eterna giovinezza. È il profeta della «velocità di fuga della longevità» per cui, grazie ai progressi della medicina, la nostra aspettativa di vita aumenterà più rapidamente del nostro invecchiamento, lasciando la morte al palo. «Agli investitori piace un po’ di drama» confessa la tedesca Elisabeth Roider, responsabile scientifica di Maximon dopo una laurea in medicina a Harvard (nei curriculum dei presenti il leggendario ateneo è frequente come da noi una qualsiasi Statale), che a naso avrebbe volentieri fatto a meno di invitare il coté più fantascientifico. Ci tiene infatti a chiarire che: 1) qui il punto non è tanto allungare il lifespan, la durata della vita, ma l’healthspan, la parte esente da malattie 2) non esiste un singolo ingrediente miracoloso e serve un «approccio multifattoriale» 3) è controproducente promettere troppo perché «la longevità è una scienza, non una religione».
Lei, restia a condividere la sua esperienza («funziona per me, non necessariamente per tutti»), confessa che dopo un test genetico che ha evidenziato la presenza della mutazione Apoe4, frequente in chi ha l’Alzheimer, segue una dieta chetogenica (quasi niente carboidrati, un po’ di proteine, molti grassi), fa sport tre volte alla settimana, saltando la colazione ha ridotto le calorie del 20 per cento e prende anche l’Ozempic, incensatissimo farmaco anti-obesità, un po’ perché tende a ingrassare ma soprattutto per le sue presunte capacità anti-infiammatorie ad ampio spettro.
STORIA DEL MIO COLESTEROLO
Poco prima di quella trasferta avevo anche scritto della piccola saga delle cure del mio colesterolo. Un estratto:
Il segreto della Gioconda non sta, come ci hanno sempre raccontato, nel sorriso. Ma nei tendini delle mani. Più esattamente nei piccoli depositi di adipe sopra quei legamenti muscolari. Da cui si deduce che quella di Monna Lisa potrebbe essere la prima raffigurazione di un’ipercolesterolemica nella storia. Qui iniziano e finiscono le cose in comune tra la modella più celebre di Leonardo e almeno due milioni e mezzo di italiani, tra cui il vostro cronista. Il colesterolo alto, che non è una malattia in sé ma un fattore di rischio (distinzione che spesso va persa e tornerà utile nel proseguo della storia) nello sviluppare problemi cardiovascolari maggiori, tra cui infarto e ictus. E che, a giudicare dalla quantità di rimedi naturali pubblicizzati in tv, rivaleggia solo con mal di schiena e prostata nelle afflizioni degli italiani. Sì, vabbè, ma perché parlarne ora? Perché è appena arrivato anche nel nostro Paese un farmaco, alternativo alle statine, di cui si dice un gran bene e perché, per i casi più gravi, ne è da poco tempo disponibile anche un altro che, con due punturine all’anno, promette di risolvere il problema. Giacché ho provato un certo numero di soluzioni, vi farò da guida in questo che, se tutto finisse bene, potrebbe anche essere intitolato “viaggio al termine del colesterolo”. Sperem.
Cartella clinica
Breve autobiografia clinica. Alla visita del militare mi scoprono un colesterolo totale di 246 (milligrammi per decilitro di sangue, mg/dl). «Tienilo sotto controllo» intima il tenente medico. Mio nonno allora l’aveva a 400 (è vissuto fino a 88 anni), mia madre a 300 (incrociando le dita, sta benone). Nel tempo il mio resta stabilmente alto. Verso i quaranta il curante mi dice: «Dovresti fare l’ecocolordoppler delle carotidi: da lì si capisce se c’è un problema». Anni dopo mi faccio controllare lo stato di questi due tubicini dal diametro di un pollice che portano il sangue al cervello. L’ecografista sentenzia: «C’è una placchetta: 1,9 mm da un lato e 1 dall’altro. Meglio intervenire per non peggiorare la situazione». Incrocio Francesco Sbrana, internista specializzato in dislipidemie ereditarie che lavora alla Fondazione Toscana Gabriele Monasterio, nella sede del Cnr di Pisa, una specie di medico prototipale, solido, rassicurante che non sfigurerebbe nel ruolo di George Clooney in una versione di Er con le h aspirate. «Eh sì, bisogna abbassarlo» conferma. E, vista la mia reticenza verso le statine, mi dà la colestiramina, una resina misconosciuta ed economicissima che funziona a monte: sequestra gli acidi biliari nell’intestino e impedisce/riduce l’assorbimento dei grassi. Piccola scocciatura scioglierla in un bicchier d’acqua 15 minuti prima del pasto ma sono motivato e funziona: il totale scende a 202, mai così basso. Tra i miei amici divento una specie di evangelista del farmaco per intenditori e del suo oracolo Sbrana. Dopo il secondo soddisfacente esame del sangue, sapendo di intrattenere rapporti gastronomici protetti, comincio a lasciarmi un po’ andare: tornano i formaggi, un po’ di carne, addirittura occasionali carbonare. Niente che la resina non possa aggiustare, penso.E penso male. Dopo cinque anni altre analisi e sono desolantemente tornato alla mia baseline, sui 240. La nuova eco-carotidi sembra ridimensionare il quadro della precedente. A Sbrana non basta: «Passiamo alle statine». Mi prescrive la fluvastatina. Ma mi sveglio di notte, più volte e ho anche dolori muscolari. Passiamo all’atorvastatina: idem. Allora ezetimibe e poi fenofibrato. Stesso problema: se c’è una cosa che sapevo fare bene era dormire, ora neppure quella. Sbrana non demorde: «Verso Pasqua dovrebbe arrivare un farmaco che fa al caso tuo, l’acido bempedoico». Agisce sul metabolismo del fegato, bypassando i muscoli. Unico rischio: rialzi dell’acido urico, che può far venire la gotta. Bisogna monitorarlo. E siamo a oggi, col sonno tornato nei ranghi e il controllo da fare.
TRADURRE (BENE) ALL’ITALIANA
L’ultima Galapagos:
Da qualche anno mia madre è diventata poliglotta. Un po' è avvenuto grazie a Google Translate, che traduce le sue interazioni con occasionali ospiti estivi, ma molto di più grazie a Airbnb dove, senza che nessuno se ne accorga, il potenziale ospite può scrivere nella sua lingua e chi lo ospiterà leggere nella sua. Dico Airbnb, ma dovrei dire Translated, l'azienda italiana che rende possibile la magia e di cui, fino a poche settimane fa, non sapevo niente. Fino a quando, cioè, non hanno rilasciato Lara, il loro motore di traduzione aperto al pubblico. Come DeepL, se ti bastano brevi traduzioni occasionali, non devi pagare niente. Se invece aspiri a una relazione più seria e duratura devi essere pronto a spendere 9 euro al mese, poco meno del costo di Netflix o Spotify Premium. Quando abbiamo fatto una copertina sui traduttori automatici abbiamo imparato che è difficile dire quale sia il migliore. All'epoca sembrava DeepL ma oggi Translated rivendica di fare solo 4 errori ogni 1000 parole e promette presto di arrivare a un errore solo, meglio dei traduttori professionali. Io l'ho provata e fa senz'altro un lavoro impressionante. Ieri Filippo Santelli ha fatto una bella intervista al fondatore Marco Trombetti che giustamente rivendicava i loro successi. Mi è sembrato un po' reticente solo sulla domanda se creature come la sua toglieranno lavoro alle persone, ma solo Sam Altman – per una strategia di marketing ancora da decifrare del tutto – mette in guardia dai rischi esistenziali della sua merce, l'IA. Trombetti si è limitato a dire che «i traduttori che usano l’IA oggi fatturano tre volte di più, quelli che non lo fanno sono fuori mercato». Qualche tempo fa ero andato a Bruxelles per chiedere ai celeberrimi traduttori Ue se temessero per il loro posto di lavoro. Tutti loro, da anni, usano un software sviluppato in casa per tradurre. Non avevano paura, mi hanno detto. Resta, che in un decennio, i loro ranghi si son ridotti del 20 per cento. Sarà un caso?
Epilogo
Ho recuperato uno spezzone della trasmissione Stasera Italia in cui l’ex ambasciatore di Israele in Italia Dror Eidar, infastidito da chi gli ricordava che sotto le bombe israeliane erano già morti 43.000 palestinesi di cui 7 su 10 donne e bambini, con una percentuale altissima sotto i cinque anni, si è lasciato andare. E ha detto, vado a memoria ma ascoltate con le vostre orecchie che vale la pena, che in Israele vogliono «distruggere Gaza». Non Hamas, proprio Gaza, e non c’è dubbio che ci stiano riuscendo. Un’affermazione così oscena che gliel’ha fatto notare anche un conduttore solitamente di stomaco forte come Nicola Porro. Ora, che un’ex pezzo delle istituzioni israeliane senta di poter dire una cosa del genere in tv dà la prova, se ce ne fosse stato bisogno, del senso di impunità di Netanyahu&friends presso le opinioni pubbliche occidentali. Ed è, semplicemente, spaventoso.