#163 Il socialismo, almeno in libreria
1) Sei libri di critica al capitalismo 2) Due libri di capitalisti (pentiti?) 3) Un revival di riviste marxiste in America 4) Trebor Scholz & Tommaso Pincio 5) Musk alla Casa Bianca
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UN FLORILEGIO DI LIBRI DI DENUNCIA
Come avrebbe detto Gaber, Chiedo scusa se parlo di Maria (in questo caso, anche di me). Sul Venerdì in edicola:
Il socialismo va forte. In libreria. Non senza sorpresa, me ne sono accorto alla terza ristampa in un un mese del mio Hanno vinto i ricchi (Einaudi). Ma i grandi lettori, categoria magniloquente per dire di quelli che leggono almeno un libro al mese, restano piccoli elettori. E infatti al governo abbiamo Meloni che continua a ripetere che «la cultura della destra non è quella di mettere le mani nelle tasche degli italiani. Quello lo fa la sinistra». Cosa doppiamente falsa dal momento che, dal punto di vista fiscale, Berlusconi e Renzi – dalle tasse sulle case ai limiti per i contanti – sono stati quasi indistinguibili. Ma soprattutto perché senza prendere i soldi da qualcuno (possibilmente i ricchi) non si possono dare i soldi a qualcun altro (auspicabilmente i poveri) e chiunque vi dica il contrario vi sta prendendo in giro. Il florilegio di libri appena usciti o che stanno per uscire si spiega forse, da una parte, con la crescente insopportazione per queste menzogne, ripetute così a lungo da diventare per alcuni una verità alternativa. Dall’altra dalla constatazione di una disuguaglianza economica sempre più intollerabile. In un format nuovo per il Venerdì proveremo a mettere a confronto sei di questi titoli.
QUELLA CURVA PERICOLOSA
Partiamo da Giuseppe Civati, ex parlamentare e oggi editore, e dal suo Socialismo tascabile (People). Titolo ripreso da un’idea di Arturo Bertoldi che alla fine degli anni ‘80 battezza il primo album degli Offlaga Disco Pax, gruppo reggiano che rimpiange la tradizione progressista di quelle parti. Il volume mette a confronto la turbo-crescita del capitale e la caduta a picco del lavoro, incapsulato nel famigerato grafico dell’Ocse (protagonista principale anche del mio Hanno vinto i ricchi, non senza mia sorpresa - e a conferma della alla terza ristampa in un mese) che mostra come, tra tutti i Paesi europei, l’unico in cui i salari medi siano andati indietro negli ultimi trent’anni è… rullo di tamburi: l’Italia!
Civati insiste sulla giustizia fiscale. Racconta di quel giorno in cui, intorno al tavolo di un albergo di Washington, si ritrovano Donald Rumsfeld, capo di gabinetto del presidente Gerald Ford, Dick Cheney, futuro vice di George W. Bush e l’economista dell’Università di Chicago Arthur Laffer. È lui a disegnare su un tovagliolo la curva che dimostrerebbe come, al di sopra di un certo livello, la tassazione riduce il gettito. Tanto vale, dunque, abbassare le imposte. Una teoria presto screditata che tuttavia diventa la colonna sonora del neoliberalismo. Scrive l’autore: «In Italia il tovagliolo di Laffer è diventato una tovaglia. Da noi è stata la lunga stagione di “Meno tasse per tutti”. Le tasse, invece, furono ridotte a Totti, e nel corso degli anni è emersa l’idea di far pagare a tutti la stessa aliquota (flat). Il meme ha quindi sostituito la realtà». Fino all’odierno dibattito sugli extraprofitti e lo scandalo quando Elly Schlein ha osato dire che si può ragionare di patrimoniale. Come accade in Francia, col governo conservatore di Michel Barnier. In Gran Bretagna, con quello moderatamente laburista di Keir Starmer. E come ci consiglia di fare l’Ocse, notoriamente non affiliata alla Quarta internazionale.DEL “CAPITALISMO PREDATORIO”
Il sottotitolo di Soldi!, dell’ex vicedirettore dell’Unità Rinaldo Gianola, è invece “Il capitalismo dei predatori”. È su questo gioco a somma zero, dove l’arricchimento di un manager diventa impoverimento di moltitudini di lavoratori, che il libro dà il suo meglio. Scartavetrando la retorica della sostenibilità, «il magico acronimo ESG (Environmental, Social, Governance) su cui la finanza internazionale misura la sua credibilità» ma spesso è solo «una mano di vernice fresca, per apparire più moderni, giusti, innovativi, solidali e inclusivi». Bagliori di speranza Gianola li intravede negli Stati Uniti, dove il sindacato sta conoscendo un’inaspettata seconda giovinezza. Con Shawn Fain, presidente del sindacato United Automobile Workers, che ha chiesto aumenti salariali del 40 per cento. Quasi una provocazione se non fosse stata pari a quella che gli amministratori delegati del settore si erano già assegnati a fronte di performance quasi mai stellari. Sta di fatto che, alla fine di uno sciopero lungo 46 giorni, andando in tv con una t-shirt che diceva “Eat the rich”, lo UAW ha portato a casa aumenti tra il 20 e il 25 per cento. Un risultato che non si vedeva da decenni. Complice la solidarietà del vecchio Joe Biden che si è presentato ai picchetti di Detroit. Un’onda nuova, fa notare l’autore, che non si è propagata in Europa dove l’amministratore delegato di Stellantis Tavares guadagna come «12.000 lavoratori metalmeccanici di terzo livello» mentre i salari degli operai, considerata l’inflazione, hanno messo la retromarcia.L’ESEMPIO DI GKN
Che poi non è del tutto vero che da noi la resistenza non sia pervenuta. Basta avventurarsi fino a Campi Bisenzio, tre quarti d’ora di macchina da Firenze. È ciò che ha fatto Gea Scancarello, combattiva giornalista de La7, per Questo lavoro non è vita, illuminante conversazione con Dario Salvetti, l’anima della lotta della Gkn. I cui 422 operai finiscono il turno notturno sapendo di lavorare per una proficua fabbrica di semiassi salvo ricevere un’email poche ore dopo che li avverte che la sede è stata chiusa e la produzione delocalizzata nella più economica Slovenia. Quel 9 luglio 2021 perdono tutto, tranne se stessi. E da lì ripartono, organizzando l’assemblea permanente più lunga della storia italica. L’intuizione geniale di Salvetti, operaio laureato in sociologia, è di allargare la lotta. Con i freelance pagati pochi euro a pezzo che vanno a intervistarlo credendo di andare a raccogliere le lacrime di uno sconfitto lui ribalta la domanda: «E tu come stai?». Perché, con molti distinguo, rispetto al capitale i lavoratori sono tutti sulla stessa barca. Quelli che una volta erano inamovibili oggi sentono la terra tremare sotto i piedi tra stati di crisi e altre scosse telluriche. Il libro cita un celebre, ma mai abbastanza interiorizzato, passaggio di Antonio Gramsci sull’indifferenza: «Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare». Ci piace chiamarla «fatalità», ma è solo per assolverci. E quando i nodi vengono al pettine «alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo?». Una domanda alla quale Salvetti – che una sinistra astuta proverebbe a candidare oggi, anzi ieri – e le sue centinaia di compagni possono serenamente rispondere “noi ci abbiamo provato”.IN GIAPPONE, UK E IN AMERICA…
Ci prova anche Kohei Saito, giovane filosofo giapponese, a svecchiare Marx in chiave ambientalista. In Il capitale nell’antropocene (Einaudi) di cui il Venerdì si era occupato quasi due anni prima del suo lancio italiano. La cui scommessa fondamentale – vittoriosa a giudicare dalle vendite – è togliere la patina di sfiga al concetto di “decrescita”.
Il principale punto in comune degli ultimi due libri è di concentrarsi sulle comunità lasciate indietro, nel tentativo di tracciare una specie di cartografia sociale della precarietà. Mai frutto di calamità naturali ma di decenni di politiche pro-ricchi. Così l’economista di Oxford Paul Collier, racconta in Poveri e abbandonati (Bocconi University Press) la spirale negativa dei vecchi buoni lavori sostituiti da tanti lavoretti. Un viaggio nella deindustrializzazione che, passando dalla Colombia allo Zambia, arriva nel South Yorkshire. Dove l’aristocrazia operaia delle acciaierie si è riciclata in call center e magazzini, trasformando la zona in una delle più derelitte d’Inghilterra. Un tracollo che provoca frustrazione e rabbia e spiega fenomeni come la Brexit che, se da lontano liquidiamo come masochismo, per chi si sente in trappola han pur sempre il fascino del cambiamento. Dai nodi evocati da Gramsci arriviamo a quelli citati dal giornalista Matthew Desmond in Povertà in America (La nave di Teseo) quando la descrive non come una semplice mancanza di denaro ma come un «nodo stretto di malattie sociali», dalla crisi abitativa al difficile accesso alla cure mediche, tutte endemiche nel modello economico dominante.
Il premio Pulitzer denuncia il «diversivo della scarsità», per cui non si potrebbe fare più di tanto contro le disuguaglianza perché le risorse sono limitate. Argomento che Desmond demolisce spiegando che le risorse sono poche perché si decide che lo siano. Tipo quando, nel suo Paese, Trump ha varato il più potente programma di tagli alle tasse per i ricchi dai tempi di Reagan. O quando, tanto repubblicani che democratici, chiudono entrambi gli occhi di fronte alla colossale elusione fiscale delle grandi aziende. Porre fine alla povertà, si chiede, è al di là delle nostre capacità? Risposta: «Potremmo permettercelo se consentissimo al fisco di fare il suo lavoro. Potremmo permettercelo se i più abbienti tra noi ricevessero meno dal governo». Peccato che, né a Washington, né a Londra, né a Roma, accada. Per quello servono più lettori che, al momento giusto, si ricordino di cosa hanno letto.
CONTRORDINE COMPAGNI CAPITALISTI
Un paio di anni fa avevano notato questa strana coppia di uscite in libreria:
Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del capitalismo. Sentite questa frase: «Sono maturi i tempi per un nuovo socialismo, radicalmente ambientalista, che riparta dai temi del lavoro e della sostenibilità per riconquistare un popolo perso nelle nebbie dello scontento». Un pezzo del programma di Elly Schlein? Macché, un passaggio di Radicalità, il sorprendente libro di Carlo De Benedetti, dalla Fiat a Cir, “razza padrona” in purezza. Oppure questa: «Le tecnologie hanno anche creato enormi concentrazioni di ricchezza che sfuggono a un controllo democratico (...) e hanno polarizzato il mercato del lavoro. Tutto ciò ha compresso e impoverito la classe media che rappresentava il baluardo della stabilità sociale e ha radicalizzato l’elettorato di molti paesi rafforzando i movimenti di estrema destra». Presa dall’acuminato Profeti, oligarchi e spie di Franco Bernabè (e del giornalista Massimo Gaggi) che ha guidato alcune tra le più grandi aziende del Paese, da Eni a Telecom Italia.
Due atti d’accusa cristallini sugli effetti nefasti di globalizzazione e neoliberismo come da sinistra, almeno dal centrosinistra governista delle tante, sempre più sbiadite permutazioni del Pci, si era persa memoria. Tempi interessanti quelli in cui aquile in doppiopetto sartoriale volano, almeno intellettualmente, dove gli spaventati passerotti progressisti non osano più. Tempi che forse spiegano perché una trentasettenne, con parole chiave più nette del solito, abbia espugnato il fortino del principale partito progressista.
È proprio il capitalismo, arriva a dire l’ingegnere con il lessico di chi protestava a Occupy Wall Street («la globalizzazione che ha distrutto i sindacati e disgregato e precarizzato il lavoro»), che non funziona più. E siccome si rende conto dell’effetto che un’affermazione del genere, in bocca sua, potrebbe sortire chiama in correità l’editorialista del Financial Times Martin Wolf e il fondatore dell’hedge fund Bridgewater Ray Dalio. Sebbene perfezionabile «il reddito di cittadinanza» è «una misura necessaria» dice De Benedetti, staccando in souplesse Enrico Letta, e abolirlo sarebbe «scarnificare la parte più penalizzata del Paese», il sud. Altro che autonomia differenziata, vagheggiata dal governo Meloni, o l’«imbroglio della flat tax» adorata da Salvini. Il nostro ex editore cita Oxfam, quando auspica che nuove tasse dimezzino il numero di miliardari sul pianeta entro il 2030. Ma anche il calcolo di Forbes secondo cui un’imposta supplementare del 2 per cento sul patrimonio di Bernard Arnault, «l’uomo più ricco del mondo, basterebbe a ripianare il deficit del sistema pensionistico francese».
SALARIO MINIMO O AI MINIMI?
Parla ancora di salario minimo come di «emergenza umanitaria» e ironizza sul fatto che «in compenso abbiamo salari al minimo, diminuiti del 3 per cento mentre in Germania aumentavano del 33 e in Francia del 31. Si chiede: «Tutti noi, ma primi fra tutti i sindacati, dovremmo porci una domanda: dove eravamo?». Già. Quindi si sbilancia davvero: «Sono favorevole alla patrimoniale e lo dico dal punto di vista di una persona che questa tassa per decenni l’ha pagata, in Svizzera (di cui è cittadino, anche se ora vive a Montecarlo), nella misura dello 0,9% del patrimonio». Dando una delusione a Matteo Renzi, che il Pd l’ha guidato, e l’ha sempre definita un «clamoroso errore». Chiede anche di ripristinare a livelli europei l’imposta di successione, ipotesi che Draghi aveva fatto rimangiare a Letta con un sibilo. Arriva addirittura a citare Kohei Saito, il marxista giapponese della decrescita, intervistato dal Venerdì e amato giusto dall’intrepida Luciana Castellina.
D’altronde, come spiegava Gramsci, in un tempo in cui «il vecchio agonizza ma il nuovo non è ancora nato», i testacoda ideologici non mancano. Così ci tocca farci spiegare dal numero uno della banca JPMorgan Chase, Jamie Dimon, che le aziende devono pensare al benessere dei cittadini e non solo degli azionisti. O dagli economisti del Mit, fucina di robot che rimpiazzano uomini, quanto sia invece importante tutelarli. Se De Benedetti se la prende soprattutto con l’imbelle sinistra italiana, Bernabè, complice Gaggi che da anni racconta l’America, allarga lo sguardo a Bill Clinton reo di aver rottamato gli ultimi democratici ancorati al New Deal per mettere in pratica «la svolta ideologica neoliberista maturata durante l’amministrazione di Ronald Reagan». Una tumulazione della “Terza via” (CDB definisce «delinquenziale» Blair per la guerra in Iraq) che sarebbe stata impensabile da parte loro ancora pochi anni fa. Così, sotto il compiacente sguardo liberal, la finanza è diventata selvaggia, ha portato alla crisi del 2008 e «contrariamente alla narrazione in positivo degli anni novanta», gli anni in cui Bernabè era già pienamente Bernabè, ha tradito la promessa che la tecnologia avrebbe portato «una società più aperta, informata e consapevole, e dunque più democratica». Che è quanto una pubblicistica critica, cui anche il vostro scrivente ha contribuito, sostiene da tempo a prezzo di sgangherate accuse di luddismo.BASTA FAR WEST DIGITALE
Per favorire lo sviluppo del capitalismo digitale si è pensato dunque che il modello migliore fosse il Far West. Il Communications Decency Act (1996) ha deresponsabilizzato le piattaforme per i contenuti postati. L’Internet Freedom Act (1998) ha fatto gli sconti ad Amazon a tutto svantaggio dei negozietti. E a rimediare non poteva certo essere Obama, «eletto con il sostegno delle compagnie della Silicon Valley» e con Chris Hughes (Facebook) e Eric Schmidt (Google) nella sua squadra. Giusto negli ultimi mesi del mandato la Casa bianca commissionò uno studio sull’impatto di robot e IA sul lavoro, dagli esiti non tranquillizzanti. Un dibattito, oggi con ChatGPT, più incandescente che mai. Bernabè cita vari studi e non ce n’è uno che neghi che i posti di lavoro diminuiranno e la transizione sarà dolorosa.
I sindacati hanno pronte le contromisure? Alle ultime politiche nessuno ha dato l’allarme. Possibile che tocchi farlo a due manager tra i più navigati e floridi? Certo il «tarlo» dello strapotere dei gigacapitalisti che può «minare le fondamenta della nostra democrazia» con cui chiude Bernabè è una metafora più piccola della talpa marxiana. De Benedetti, quasi ad attutire il colpo, dal canto suo si congeda dicendo che «nella vecchiaia si ritorna velleitari ed estremisti come gli adolescenti». Che, da vecchie volpi, abbiano solo fiutato lo spirito del tempo o che siano genuinamente preoccupati, le loro analisi sono serissime. Il nuovo Pd non potrà ignorarle.
LA RIVOLUZIONE SARÀ RILEGATA
Parecchi anni fa il liberale Attilio Giordano, sempre sia lodato, mi aveva mandato a New York per raccontare un revival di riviste marxiste:
NEW YORK. La rivoluzione sarà rilegata. Alla Barnes&Noble di Union Square, la libreria il cui caffè si trasforma spesso in temporanea base operativa per anarchici e socialisti newyorchesi, il nuovo pantheon siede immobile sullo scaffale delle riviste. I neonati Jacobin e The New Inquiry. L'adolescente n+1. L'anziano ma rinvigorito Dissent. Per citarne solo alcuni, tacendo della collana Pocket Communism della gloriosa Verso, portabandiera della New Left britannica, a pochi metri di distanza tra i libri. La sinistra è morta, viva l'editoria di sinistra. Rianimata da editor ventenni, per un pubblico (mentalmente) giovane, che vuol fare di tutto per smentire la profezia del pur amatissimo Slavoy Žižek su Occupy Wall Street: «I carnevali costano poco. Quello che importa è il giorno dopo». Loro ci sono ancora. Nonostante le varie dichiarazioni di morte presunta, come quella che si desume da un utile rapporto del locale istituto Rosa Luxenburg: «La sinistra (americana) è dura da trovare e ancor più da definire». Soprattutto se sei europeo, abituato all'equivalenza tra politica e partiti. Che qui conduce solo a frustranti aporie.
Tipo credere che Il Communist Party Usa, un martello e una specie di falce stilizzata nel logo, abbia qualcosa a che fare, non dico con la rivoluzione permanente ma almeno con un progressismo radicale. Il suo segretario si chiama Sam Webb, sessantenne laureato in economia nel Connecticut. L'ultima apparizione sulla stampa borghese risale al 2006. Due battute su Forbes: «Cos'è per me il denaro? Ciò di cui la maggior parte di noi dispone troppo poco, nonostante gli sforzi dell'amministrazione Bush». Mi era sembrata un po' moscia come affermazione. Lo contatto via posta elettronica prima di partire. Niente. Riprovo e metto in copia un paio di assistenti. Ancora niente. Chiedo a Nikil Saval, introdottissimo editor del trimestrale n+1, che mi fornisce altri contatti. I comunisti mangiano le email? Mi presento alla loro sede, sulla ventitreesima strada. Un sorridente pensionato alla reception interpella un cinquantenne dell'organizzazione che mi rassicura: «La chiamerà oggi stesso». Sto ancora aspettando. Forse l'indisponibilità, deduco da una serie di altri incontri, deriva dall'imbarazzo ad ammettere un annacquamento, quello sì radicale, rispetto alle origini («Sono diventanti ragazze pon pon di Obama» è la clausola più definitiva sul loro conto, copyright Bhaskar Sunkara, che conosceremo a breve).
Larry Moskowitz era uno di loro. Ci vediamo in un ristorante messicano con menu fisso a 12 dollari e 95. A sessantasei anni un po' sofferti è un uomo dall'espressione mite che ha imparato a tagliare i costi privati prima che diventasse una perniciosa ideologia pubblica. Vive a Inwood, sopra il Bronx, al canone calmierato (600 dollari) di un box auto altrove. Ha una pensione sociale di poco superiore e comunque tale da fargli rubricare un incisivo e un canino mancanti tra i beni di lusso. «Perché li ho lasciati? Perché non c'era margine di dissenso e detestavo il centralismo democratico. E soprattuto perché mancava il legame con i lavoratori». Così, nella migliore tradizione scissionista, cinque anni fa ha dato vita al Left Labor Project. «La nostra principale vittoria? Aver fatto rimettere il Primo maggio tra le festività». Si incontrano una volta al mese («30-40 persone, di più quando abbiamo ospiti famosi») tassativamente dalle 18 alle 20 perché «è un principio di classe: la gente prima lavora e comunque non ha tempo da perdere». Collaborano con i sindacati, con organizzatori locali su campagne specifiche. «In Europa sieta da sempre più a sinistra di noi. Qui è già tanto dedicarci a battaglie più circoscritte, come i diritti dei neri». Se proprio dovesse dire, a Lenin preferisce Bakunin, socialista libertario, che voleva saltare la «dittatura del proletariato» per paura che da fase intermedia diventasse permanente. E che prediligeva le «azioni dirette» del popolo, come la restituzione delle case confiscate ai vecchi proprietari in stile Occupy.
Prima di procedere facciamo due conti: trenta persone a New York è come dire nove persone a Roma. A spanne i membri del Communist Party saranno tre-quattromila. Quelli dei Democratic Socialists of America, il più robusto raggruppamento, circa settemila. Il Socialist Party Usa, che ha sede in uno sgarrupato trilocale del Lower East Side, è frequentato come una bocciofila d'inverno. Anche alcuni successi editoriali di cui va giustamente fiera Audrea Lim, la trentenne editor di Verso che incontro in un bar di Brooklyn, vanno da poche migliaia alle quarantamila di Žižek, che però è una star globale. Dividete almeno per cinque per un confronto con il mercato italiano. Piccoli numeri (crescono). Lo stesso Žižek protagonista all'Ifc Center, il cinema d'essay più ortodosso del Greenwich Village, di A Pervert's Guide to Ideology, un documentario in cui il filosofo marxista disseziona l'immaginario collettivo, dalla fenomenologia degli ovetti Kinder all'ideologia subdola de Lo squalo. Alle 10 di mattina, con fuori un sole incongruo, una ventina di persone sono pronte a immolarsi per due ore e venti davanti alle digressioni del pensatore barbuto che tiene un poster di Stalin sul letto. Ma questa è New York, dove L'insurrezione che viene, libello culto degli indignados globali, si trova nella sofisticatissima libreria del New Museum di Soho. La città più economicamente iniqua del mondo che può vantare una statua di Lenin su un palazzo che si chiama Red Square e che punta il dito ammonitore verso Wall Street.
Dicevamo della nouvelle vague marxista. Bhaskar Sunkara, 23 anni da Trinidad, ne è il campione. Ci incontriamo a Bedford Stuyvesant, la zona di Brooklyn che era sinonimo di paura e dove Spike Lee ha ambientato il suo Fa la cosa giusta, dove ha casa e ufficio. Nel 2010, reinvestendo i soldi presi a prestito per l'università, questo ragazzino con la barba nera e la camicia bianca ha fondato Jacobin, una rivista marxista senza gli ermetismi e l'odore di muffa tipici del genere. Tre anni dopo, con cinquemila abbonati, ha doppiato quelli di Dissent che è su piazza dagli anni 60 e il sito viene visitato ogni mese da 250 mila persone. «Non mi piace il termine comunista. Per la disastrosa incarnazione sovietica che richiama. E anche il dibattito tra rivoluzione e riforma mi sembra superato. Piuttosto "riforma non riformista", alla André Gorz, ovvero che non trascuri i bisogni sociali odierni senza rinunciare a una modifica strutturale. Il socialismo che vorrei estende il welfare, riduce la disoccupazione e introduce un reddito di cittadinanza». In un editoriale recente ha scritto che «il problema della sinistra non è che è troppo austera e seria, ma che non si prende sufficientemente sul serio per fare i cambiamenti necessari». Una piattaforma sanamente social democratica, nonostante le suggestioni iconografiche di cui l'appartamento è pieno. Tipo la foto di Lenin trattata alla Andy Warhol come sfondo del computer. Le antologie dei discorsi di Castro e di Chavez, di scritti zapatisti e una biografia di Trotsky («lui distribuiva i giornali per strada, non aspettava che fosse la gente ad andarlo a cercare»). Interventismo che condivide. «Insieme al sindacato degli insegnanti di Chicago, tra i più attivi del paese, abbiamo realizzato un manualetto che spiega perché l'ideologia neoliberista è sbagliata, da distribuire gratuitamente». Impaginato bene, non penitenziale come certi tomi degli Editori Riuniti anni 70. E la gente se lo legge.
Se vuoi che il messaggio passi non puoi prescindere dal linguaggio. L'hanno capito anche a Dissent, che di recente ha stupito il suo lettorato tradizionale con un pezzo su un artista del rimorchio a Copenaghen. «C'è un tipo che scrive guide su come portarsi a letto le ragazze all'estero. In Danimarca è andato in bianco, e la sconsiglia a tutti» mi spiega Sarah Leonard, trentenne editor della nuova leva, nella stanzetta-redazione vicino alla Columbia University. «Partendo da questo dato abbiamo imbastito un reportage sull'uguaglianza dei sessi, divertente e documentatissimo. Un buon esempio del nostro nuovo stile». L'età media delle quattro persone della redazione è sui 25? anni («Direi che siamo più a sinistra di Michael Walzer», condirettore emerito). Ciò che la rivista si propone è dare un contesto culturale ai lettori. «Se si discute dei costi dell'istruzione è importante, ad esempio, ricordare che Cuny, l'università pubblica, prima era gratuita e ora costa 8000 dollari all'anno. Se hai vent'anni puoi non saperlo. Noi diamo quella prospettiva, indispensabile per fare confronti tra ieri e oggi». La stranezza, rispetto alla scena editoriale cui siamo abituati, è che qui tutti parlano bene dei concorrenti. Non pretendono primogeniture. Addirittura collaborano.
Ne sa qualcosa la fondazione Rosa Luxenburg. Capitolo americano dell'ente legato al partito socialista tedesco Die Linke, ha per missione quella di studiare i processi sociali e produrre convegni e rapporti. Il direttore Albert Scharenberg ha mappato la sinistra americana e se gli chiedi di riassumerla comincia parlando di scioperi di lavoratori dei fast food, di movimenti ambientalisti contro un gasdotto, di organizzatori locali che mobilitano piccole comunità, di singoli giornalisti influenti. Poi, dopo quindici minuti buoni, accenna alla costellazione di partitini tipo i comunisti renitenti alle email che abbiamo incontrato. «La loro influenza all'interno dei Democratici è minima. Ma in generale i partiti sono diversissimi dai nostri, basti ricordare che tutti possono votare alle primarie e nessuno può essere espulso». Più il fattore soldi che li condanna alla marginalità. In un sistema ferocemente bipolare, dove il vincitore prende tutto, non c'è spazio per i piccoli («Una campagna nazionale costa una fortuna»).
Sono i giorni di Bill de Blasio neo-sindaco. Agli occhi di un italiano sembra una gran vittoria per la sinistra. Ma la circostanza che a tanti occhi americani Grillo sembri la prova ontologica della democrazia dal basso mi suggerisce cautela sugli entusiasmi stranieri. Doug Henwood, fondatore della newsletter Left Business Observer e padrino intellettuale di Sunkara e altri giovani radicali, mi dice che anche lui ci sperava, ma che le prime nomine che ha fatto sono di personalità vicine ai palazzinari. Tutto dipende dai punti di partenza, ovvio, ma come Obama sembra più sexy di Letta, anche De Blasio sembrava più carismatico di Marino. Anche al netto dell'esterofilia. La vera buona notizia, per il patchwork che abbiamo chiamato sinistra americana, risale a due anni fa. Nella fascia 18-29 anni, per la prima volta coloro che vedevano positivamente il socialismo superavano quelli negativi (49 contro 43 per cento), sorpassando anche le simpatie per il capitalismo (46 per cento). Succedeva tre mesi dopo Occupy Wall Street, il grande Gerovital del progressismo statunitense. Fino al 2000 chi voleva entrare negli Stati Uniti doveva rispondere a una grottesca domandina: «Hai fatto parte di organizzazioni comuniste?» (che sopravvive nel formulario I-485 per l'immigrazione in pianta stabile). Oggi nelle librerie trovi L'ipotesi comunista di Alain Badiou, un libretto rosso che ricalca graficamente quello di Mao, presentato come Un nuovo programma per la sinistra dopo la morte del neoliberalismo. Qualcosa è cambiato. Quanto al decesso cui allude, fa venire in mente il commento di Mark Twain circa un erroneo necrologio che lo riguardava: «È una notizia largamente esagerata». Le riviste marxiste, giovani talpe, avranno ancora di che scavare.
Sempre dal Venerdì in edicola:
RIPRENDERSI LA RETE O FINIRCI DENTRO
Il titolo è impeccabile: Riprendiamoci la rete!, sempre più feudo di un manipolo di gigacapitalisti. Lo svolgimento è più complesso. Trebor Scholz, tra i più acuti indagatori dello sfruttamento nel lavoro digitale, critica il "capitalismo di piattaforma" che esternalizza all'algoritmo controllo e valutazione dei lavoratori. Propone in alternativa le "piattaforme cooperative", gestite dai lavoratori. Fa anche esempi di successo, dalla Mensakas dei rider di Barcellona alla Drivers Cooperative dei tassisti di New York. Mentre Midata in Svizzera e PescaData in Messico consentono agli utenti di controllare i propri dati. Ammette però che il problema è la scala: possono sperare di resistere contro i grandi solo se diventano sufficientemente grandi anche loro. Propone vari approcci (scaling up, scaling out e scaling deep) che vale la pena approfondire. Oppure di federare le cooperative. Sarebbe bellissimo ma, nella mia esperienza, assai difficile. Anni fa avevo intervistato a San Francisco il fondatore di Loconomics che voleva essere un competitore di Taskrabbit. Benintenzionatissimo quanto naif, non ce l'ha fatta. E poi quello italiano di Fairbnb che doveva soppiantare Airbnb su basi etiche. Sono ancora in pista, e me ne rallegro, ma non conosco nessuno che abbia prenotato con loro.
PINCIO E IL LIBRO CHE VISSE DUE VOLTE
La scrittura è morta, viva Panorama. Dove Ottavio Tondi, ex temuto lettore di una casa editrice, di quelli che fanno o disfano il successo di un manoscritto, si è ormai rifugiato. Succede a Roma dopo "l'incidente di Ponte Sisto" quando, all'indomani di una gloriosa intervista che l'aveva incoronato celebrità letteraria, viene inspiegabilmente e brutalmente aggredito da un branco di ragazzi. Non uscirà più di casa e vivrà la sua vita attraverso lo schermo di Panorama, appunto, che è il nome del social attraverso il quale conosce l'enigmatica Ligeia Tissot ma anche il titolo del bellissimo romanzo di Tommaso Pincio, ora ripubblicato da Sellerio in un'edizione ampliata da Acque chete, un sorprendente divertissement dell'autore e pluripremiato traduttore. In cui il poeta Mario Esquilino traccia un "Sillabario delle basilari possibilità di esistere", ovvero il tentativo di identificare la "piega suprema" di ogni vita, la svolta decisiva che ci ha fatto diventare esattamente ciò che siamo. La "piega" decisiva di Tondi, per Esquilino, starebbe proprio nel suo disprezzo per il Sillabario. Una convinzione che diventa odio e fa preparare la vendetta, servita fredda per via telematica. È il poeta ad aver inventato la ragazza cui Tondi, come in un catfishing di terza categoria, scriverà ogni giorno, per quattro anni, senza vederla mai. Limitandosi a cercare tracce di lei in un letto sfatto – come nell'installazione dell'artista britannica Tracey Ermin – che osserva attraverso una webcam. Il libro ha una forte potenzialità cinematografica e infatti era stato opzionato (dove siete finiti, produttori italiani?). Pincio mischia abilmente fatti (persone reali, con nomi e cognomi) e finzione. Sa che le nostre vite sono, essenzialmente, il racconto che ne facciamo. O la versione che omettiamo di farne. «Non sono orgoglioso dei libri che ho letto, ma di quelli che non ho scritto» fa dire, a un certo punto, a Ottavio Tondi, ex avido lettore alle prese con un mondo che ha voltato le spalle alla parola scritta. Borges all'Esquilino.
MR. MUSK VA ALLA CASA BIANCA
L’ultima Galapagos:
Ha vinto Elon Musk. Le elezioni presidenziali, beninteso. Si è speso per Trump. L'ha accompagnato come gruppo spalla in comizi che talvolta si sono trasformati in dj-set. Ha promesso soldi a chi l'avesse votato. Ha organizzato addirittura una riffa a favore di costoro. Si calcola che abbia speso, di tasca propria (gli americani hanno questa espressione, non fine ma fortemente descrittiva: put your money where your mouth is), 123 milioni di dollari per sostenere il candidato. E gli è convenuto perché, all'indomani dei risultati, in borsa Tesla ha guadagnato oltre il 13 per cento. E lui si è portato a casa 13 miliardi, con un ritorno sull'investimento dell'11 mila per cento. Ma questi sono solo soldi che, per l'uomo più ricco del mondo, non fanno troppa differenza. Da un po', infatti, il gigacapitalista gioca con la politica. Da quando ha deciso di concedere agli ucraini, rispondendo a una richiesta d'aiuto via Twitter, i suoi satelliti Starlink decisivi per la resistenza. Allora è diventato il salvatore di Kiev. Salvo trasformarsi tra i più disprezzati del Paese dopo aver deciso di non concedere i suddetti satelliti per portare a termine un'importante operazione in Crimea. L'uomo – magari c'entra la ketamina che assume – è così: volubile. Pare che Trump gli ritaglierà su misura una specie di ministero dell'innovazione. Innovare, innoverà. A X, in pochi giorni, ha licenziato l'80 per cento della forza lavoro. Per annunciare il suo arrivo alla Casa Bianca ha usato lo stesso meme. Con la scritta: «fatevene una ragione».
Epilogo
Ho visto un pezzo di Piazzapulita. C’era Ugo Volli, che è stato un filosofo, che diceva che i 42 mila morti a Gaza su cui non polemizza più nemmeno l’Idf sono inventati, propaganda di Hamas. Fortunatamente in collegamento c’era anche Francesca Mannocchi, sbigottita, che gli chiedeva di fornire la fonte di un’affermazione così fuori dal mondo. E, ovviamente, niente.