#160 Sorpasso alla norvegese
Mentre il resto del mondo frena sulle auto elettriche, Oslo mette la quarta: a batteria il 97% delle vendite 2) Le politiche anti-auto di Amsterdam 3) Utøya, vent'anni dopo 4) L'IA dentro WhatsApp
ARTICOLI. LIBRI. VIDEO. PODCAST. LIVE. BIO.
QUI COMPRARE ELETTRICO CONVIENE
Sono stato in Norvegia per un paio di pezzi. Il primo racconta di un sorpasso storico: quello della vendita di auto elettriche su quelle a benzina. L’incipit del pezzo sul Venerdì:
OSLO (Norvegia). Se non fosse che le manca il cambio classico si potrebbe dire che l’auto elettrica ha messo la quarta. E ha superato, 754 a 753 mila vetture, quella a benzina. Succede in Norvegia dove, a dirla tutta, la quota maggiore delle quattro ruote su strada, poco più di un milione, è ancora diesel. Ma il sorpasso resta e viene definito «storico». Se poi, dal censimento degli acquisti passati spostiamo lo sguardo su quelli nel tempo presente, la vittoria diventa schiacciante. A settembre, per dire, il 97 per cento delle nuove immatricolazioni era di macchine full electric. Praticamente nessuno compra altro. «La transizione verso l’auto a emissioni zero fissata dall’Unione europea per il 2035» ci spiega, nella luminosissima sede della Federazione norvegese per le strade (OFV) il suo presidente Øyvind Solberg Thorsen, occhi azzurri, camicia a quadrettini, sorrisi non pervenuti, «noi la stiamo facendo con dieci anni d’anticipo».
Ha di che essere orgoglioso. Perché, al di là delle veementi proteste italiane, non è affatto assicurato che l’Europa riuscirà a varcare quel medesimo traguardo. In uno degli ultimi numeri dell’Economist, infatti, un grafico implacabile registrava ad agosto una contrazione di oltre il 40 per cento nelle immatricolazioni di veicoli elettrici rispetto a solo un anno fa. Il tutto a corredo di un trafiletto su come, per conseguenza della Grande Frenata, la svedese Northvolt che produce batterie per auto elettriche, non solo ha cancellato i piani di espansione ma anche licenziato un quinto della forza lavoro. Alla luce di tutto ciò la domanda è ancora più legittima: come sono riusciti, i norvegesi, nell’impresa in cui il resto del mondo sta così platealmente fallendo?
All’inizio fu una batteria
È una storia lunga, ma non complicata. Inizia a metà anni 90 quando la locale Pivco si mette in testa di costruire una piccola auto urbana ecologica. Nasce Th!nk, colorata, plasticosa, ma soprattutto a batterie. All’epoca sembra un concept più che un mezzo di locomozione e il governo, per incoraggiare l’idea che ci sta dietro, decide di concedere un’ampia serie di incentivi alle auto elettriche. «A partire dalle tasse di registrazione», ricorda Thorsen, che è una specie di Wikipedia vivente di tutto quel che riguarda la mobilità di quel ricchissimo Paese, «che qui sono una fetta grossa del costo di un’auto. Su un’auto da un prezzo medio di 55 mila euro, ne valgono all’incirca 15». Risparmiarle, al netto del nettamente superiore tenore di vita degli amici scandinavi, è un bonus piuttosto strepitoso. E non è che l’inizio di una lunga serie di sottrazioni. {prosegue sul Venerdì in edicola e online}.
SI VIS BICI, PARA BELLUM (ALLE AUTO)
A proposito di rendere la vita difficile alle auto per facilitarla alle soluzione non inquinanti, tipo la bici, qualche tempo fa ero stato in Olanda e avevo imparato questo:
AMSTERDAM. Il senso di quest'articolo sta tutto in un responso di Google Maps. Che, alla richiesta su come arrivare dal punto A al punto B, entrambi sufficientemente centrali, calcola un percorso da 15 minuti in auto contro uno da 8 in bicicletta. Se due ruote corrono il doppio di quattro vuol dire che la matematica della mobilità urbana è stata definitivamente rivoluzionata. Quella per cui in Olanda le bici siano padrone della strada è notizia vecchia di quasi un secolo. Non però che nella sua capitale diano addirittura una pista ai veicoli a motore (nello stesso esempio, con i mezzi pubblici si impiegava mezz'ora), una cosa tanto innaturale da essere spiegabile solo con la sommatoria di tanti, radicali e coerenti interventi umani. Che proveremo a ripercorrere, con l'aiuto di due donne che ne sanno molto, nel caso in cui qualche sindaco italiano volesse trarne ispirazione.
La prima è Meredith Glaser, direttrice dello Urban Cycling Institute nonché ricercatrice di pianificazione urbana all'università di Amsterdam. Californiana, è venuta a studiare qui quasi vent'anni fa, si è innamorata di questo strano posto dove, al contrario di casa sua, le auto sono minoranza, e non se n'è più andata. Mi viene a prendere con una delle sue sei bici, una ebike cargo su cui di solito carica i due figli piccoli, e mi porta a far vedere un paio di stradine di De Pijp, il quartiere popolare dove abita. Sono state ridisegnate da poco: carreggiata ristretta a tutto vantaggio del marciapiedi che è quasi raddoppiato e ospita, oltre a varie rastrelliere stracolme di bici, scampoli di terra utilizzati come orti urbani. «Fa tutto parte di un progetto più ampio» dice «che punta, entro il 2025, a togliere diecimila posti auto a tutto vantaggio di una mobilità più morbida. Perché il miglior piano per favorire le bici è un piano per scoraggiare le auto». La filosofia che spiega le diverse previsioni della mappa digitale, alla fine, sta tutta qui.
E poi:
Il governo, invece di contrastare gli attivisti, li sponsorizza ed è in quegli anni che le strade della capitale adottano il woonerf, un nuovo design che incorpora dossi e chicane per rallentare le auto. Il tasso di ciclisti metropolitani, sceso del sei per cento all'anno negli anni precedenti, arresta la sua caduta. «Negli anni '90» spiega ancora Glaser «si è arrivati a ritenere il governo responsabile di chiunque si faccia male in strada. Da allora deve fare del suo meglio per evitare che succeda. Siamo arrivati così alla media di 2 vittime al giorno contro le 100 che si registrano negli Stati uniti. Oggi, essenzialmente, esistono tre tipi di strade urbane: poche a 50 chilometri all'ora, molte a 30 ed alcune, tipo nei pressi delle scuole, a 15/20». In questo ambiente sicuro, dove le due ruote spadroneggiano, sul totale degli spostamenti cittadini il 38 per cento avviene in bici. Ma questa è una media tra il 66 del centro, dove non vedi altro che due ruote e auto che lentissimamente si incolonnano in stradine strette, e le più basse percentuali delle periferie. {prosegue sul Venerdì}
UN RICCHISSIMO, STRANO PAESE
Tornando in Norvegia, invece, tre anni fa mi avevano mandato a Utøya nel ventesimo anniversario della strage. Di seguito l’inizio del reportage:
UTØYA (Oslo). Nell’isola del massacro c’è un sentiero dell’amore, una fettina di sterrato appiccicata tra il lago e una collinetta, che i fidanzatini adoravano perché al riparo dagli sguardi. Ma non dal metodo omicida di Anders Breivik che, dopo aver sterminato il grosso delle sue prede al chiuso della vecchia caffetteria, l’unico edificio in legno lasciato com’era il 22 luglio 2011 compresi i fori di pallottola nei muri, ne aveva finite a distanza ravvicinata una decina proprio qui. Ma sia questo luogo, Utøya, sia la storia di uno dei lupi solitari di maggior successo nella storia del terrorismo domestico, è lastricata di paradossi. Jens Stoltenberg, l’allora primo ministro norvegese che commentò a caldo la strage di 69 giovani qui e di 7 altre persone a Oslo, disse che Breivik, nella sua personale guerra civile contro l’islamizzazione del Paese, aveva trasformato «quel paradiso in terra in un inferno». Però evitò di identificare nei giovani laburisti (Auf), come lui era stato, le vittime di quella violenza atroce che invece sarebbe stata compiuta contro la democrazia e i suoi valori. E oggi, dopo infiniti dibattiti ed elaborazioni di lutti è ancora tabù dire le cose per come, all’evidenza, mi sembrano stare: ovvero che si trattò dell’attacco premeditatissimo e rivendicato in un farneticante manifesto di 1500 pagine di uno con “cacciatore di marxisti” tatuato sul braccio contro un’intera leva di giovani progressisti in quanto quinta colonna dell’invasione del Paese da parte dei musulmani. «Quel giorno ho perso i miei due migliori amici e mi son salvato per miracolo» mi dice Gaute Skjervø, vice presidente dell’Auf, che allora aveva sedici anni: «Sono furioso ma se lo dico gli altri partiti, compresi quelli al governo, mi accusano di giocare la “carta del 22/7”, ovvero strumentalizzare. È assurdo ma è così». Da qui parte il tentativo di scoprire se e come la Norvegia è cambiata a due lustri di distanza dal suo 11 settembre.
Culture diverse
Che avessimo culture, tempi e modi di reazione diversi l’avevo già intuito nei preparativi. Gentilezza iniziale, lunghe sparizioni, riapparizioni in zona Cesarini per fissare appuntamenti ormai dati per persi. Aggiungete che il loro luglio è il nostro agosto. Il trenino dall’aeroporto, con le due auto pubblicizzate sui monitor, mi conferma che sto per entrare in un altro campionato economico: una Porsche Taycan (da 80 mila euro) e una Polestar 2, un’elettrica che parte da 60 mila (qui le Tesla sono comuni come da noi le Panda). Il loro Pil pro capite è il doppio del nostro. Tra le tante ossessioni (gli immigrati, le donne, etc) il benestante Breivik voleva diventare molto ricco ma non c’era riuscito. Voleva soprattutto, mi spiega Aage Borchgrevink, autore di uno dei due libri più importanti sulla strage che incontro alla Casa della letteratura, «essere visto: dal padre che l’aveva abbandonato, dalla madre che pur detestava, dalle ragazze che non lo consideravano granché. Da tutti». Come il Traini vendicatore di Macerata con la Lega, aveva militato nel Partito del progresso (Pp), conservatore nonostante il nome, abbandonato poi perché troppo moderato. Avrebbe lasciato un segno a modo suo. Quel giorno aveva preso la stessa piccola chiatta su cui mi trovo per raggiungere Utøya, tre quarti d’ora di boschi, poi boschi e ancora boschi a nord-ovest della capitale. Travestito da poliziotto, approfittando del caos della bomba che aveva fatto esplodere, l’avevan lasciato salire. Il lupo solitario nel recinto degli agnelli che sull’isoletta ragionavano di femminismo, antirazzismo, tolleranza. Come questa comitiva di ventenni di Rød Ungdom, a sinistra dell’Auf, che sono saliti con me, dopo aver fatto un paio di telefonate per sincerarsi che fossi proprio un giornalista e non un altro matto che approfittava dell’anniversario tondo per un bis di sangue. Alberte Tennøe Bekkhus è la loro coordinatrice e, dopo aver piantato le tende in cui dormiranno in questi cinque giorni di campo estivo, mi segnala due altri paradossi: «Ci raccontiamo pacifici, ma siamo in prima fila come contributi alle guerre e poi green ma emettiamo tonnellate di Co2 a testa». Nell’èra Post Breivik dice «che il discorso d’odio è passato dal web alla vita reale, fomentato dalla retorica tossica di molti partiti di destra che non hanno mai riconosciuto alcuna responsabilità». Pensa soprattutto al Pp che da otto anni è al governo con la coalizione conservatrice che ha scalzato il partito laburista dopo un secolo al potere. Dice: «La nostra scommessa è di rendere i legami della comunità più forti di quelli che si stabiliscono tra gli arrabbiati online, denunciando la disuguaglianza e i veri problemi strutturali che provocano esclusione sociale».
UN’IA PER AMICA (DI WHATSAPP)
L’ultima Galapagos:
Il successo di una tecnologia dipende sempre, molto, dalla sua praticità d'uso. Se devi fare troppo passaggi, rinunci. Per questo la notizia che Copilot, l'intelligenza artificiale di Microsoft (che usa ChatGpt come motore), sia ora disponibile dentro WhatsApp non è di poco conto. Perché chiunque potrà interrogarla all'interno della piattaforma di messaggistica come se fosse un amico onnisciente. Basta settarla una volta per tutte. Per prima cosa c'è da aprire una nuova chat e, nello spazio bianco dove si scrivono i messaggi, cliccare sulla macchina fotografica. Con la quale basterà fotografare il QR Code che si trova qui. A quel punto riceverete un messaggio che vi chiede di "accettare". Di lì in avanti ogni domanda, dalla più prosaica alla più spinosa, potete farla al contatto Microsoft Copilot. Al netto delle solite, spiacevoli "allucinazioni", funziona alla grande. Soprattutto è molto più comodo che andare sul sito di Copilot, loggarsi, eventualmente scegliere la voce con cui volete che Copilot parli e così via. Qui avete solo da chiedere. E vi sarà risposto.
Epilogo
Sinwar è morto ma lo sterminio non accenna a rallentare.