#155 Perché i russi van presi terribilmente sul serio
1) Hanno un senso di destino manifesto che coincide con la loro patria, per la quale possono sacrificare tutto, spiega un bel libro 2) L'IA, se per ora non licenzia, intanto blocca le assunzioni
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Questo numero è in ritardo di una settimana: troppe scadenze da rispettare. Sorry.
LA PASSIONARNOST NON È UNA ROBA DA NIENTE
Dal servizio di copertina del Venerdì scorso questa intervista a Marzio Mian.
Di Russia non so quasi niente, tranne una fascinazione per la letteratura e tante intuizioni prese a prestito da Carrère. Non so quasi niente ma riconosco il buon giornalismo quando mi ci imbatto. È il caso di Volga Blues (Feltrinelli) in cui Marzio G. Mian prova a capire, in un reportage lungo un mese e tante letture pregresse, cosa pensa il popolo che tutti ora, piuttosto caricaturalmente, ri-considerano l’Impero del Male. Di seguito il pezzo uscito sull’ultimo Venerdì:
È sempre un azzardo calcolare la capacità di resistenza al dolore di una nazione. Per la Russia, però, la storia aiuta. Ventisette milioni di morti, oltre la metà civili, è quel che l'ex Unione sovietica mise sul piatto della seconda guerra mondiale. America, Gran Bretagna e noi, giusto per un confronto spurio, ne contarono ognuna circa 400 mila. Questa preternaturale disponibilità al sacrificio salta fuori spesso nelle interviste che Marzio G. Mian inanella nel potente Volga Blues (Feltrinelli, pag. 288, e. 19), un periglioso viaggio lungo un mese, col fotografo Alessandro Cosmelli e due locali abbastanza fuori di testa, seguendo il corso del fiume da San Pietroburgo ad Astrakan. Per cercare di rispondere alla domanda che esula dalla geopolitica e rientra invece nella giurisdizione del giornalismo: che cosa vuol dire esser russi oggi? Mian, a lungo vicedirettore di Io Donna, con molte collaborazioni internazionali e grande esperto di Artico, ci restituisce un reportage denso, documentatissimo, uscito in estratto anche sulla copertina della rivista Harper's.
E dunque, che cosa vuol dire?
«Rispetto agli inizi della guerra, quando mi trovavo in Russia per altri motivi, siamo passati da un'ostilità verso un conflitto che sembrava incomprensibile e assurdo a un vasto consenso di uno scontro ormai verso l'Occidente. Che i russi rifiutano perché temono che la sua contaminazione, dall'identità di genere in giù, possa portare al collasso. La spacciano come questione religiosa, peraltro in un paese primatista mondiale di divorzi, ma in gioco è la tenuta della società. E Putin, che conosce la psiche della sue gente, l'ha capito. Quindi, in un aggettivo, i russi sono diventati molto più reazionari. In un mix di nostalgia del soviet, pulsioni fasciste, integralismo ortodosso e nazionalista. Che senso ha un mondo senza Russia? si chiede retoricamente l'archimandrita Tichon e lo ripete Putin. Ecco, il mondo sappia che siamo pronti a morire per difenderci».Scrivi anche che la religione ha preso il posto del comunismo, nella nazione dall'ateismo di Stato…
«Religione come ideologia, non come spiritualità. Tre quarti dei russi si definiscono cristiano-ortodossi ma in chiesa vedi solo poche beghine. Solo il 5 per cento è praticante. Però la religione, soprattutto dopo i terribili anni 90, ha riempito un vuoto. È stato il collante per mettere insieme l'idea del Russkij mir, la terza via russa tra Europa e Asia. In tutto questo, ovviamente, la democrazia è proprio l'ultima idea quanto a popolarità. L'hanno avuta per soli dieci anni, i 90 appunto, e sono stati i peggiori della loro storia. Con la fame passata dall'1,5 al 45 per cento. Umiliazioni di ogni tipo. E un'ingerenza senza precedenti degli americani nella loro società, come mi racconta il ministro degli esteri di Eltsin. Serviva una contronarrazione».Spiegaci il termine passionarnost e perché è importante per capirli?
«Fu inventato, presumibilmente in un gulag siberiano, dal figlio di Anna Achmatova, Lev Gumilëv. È “l’energia interiore della nazione, la capacità di sacrificarsi per un bene comune superiore”. Una sorta di destino-manifesto, ma scritto in cirillico. A provarne l'esistenza ci sono i morti della seconda guerra mondiale. Nessuno che intenda combattere la Russia può sottovalutarla».A proposito di guerra e vittime, scrivi che solo i poveri di provincia ci vanno…
«Dopo esserti venduto le collanine d'oro dei figli puoi giocarti giusto la vita. È una specie di welfare. Più una zona è povera, più si vedono in giro manifesti per l'arruolamento. Per un morto, come mi ha raccontato una donna il cui marito era partito per il fronte, vale sugli 80 mila dollari, una decina di volte lo stipendio medio di un operaio. Un ferito sui 30 mila».A un certo punto incontri la vicepresidente dell'unione degli scrittori, mesta figura. Quanto rappresentativa degli intellettuali?
«Gli scrittori che vivono in Russia sono passati dal marxismo al patriottismo che prima, solo a nominarlo, finivi in Siberia mentre oggi è la condizione per essere nell'entourage che conta. Putin sa che i libri non vendono come una volta. L'opinione pubblica si forma su internet ed è su quello che è importante picchiare duro. Ma sa anche che in Russia senza intellettuali (sia pure scadenti) e senza monaci non è possibile né muovere truppe né tenere vivo il sogno dell’Impero. L’improvvisa ossessione del Cremlino per la letteratura sembra anche la risposta al demenziale boicottaggio della cultura russa in Occidente».Altri cambiamenti nella vita quotidiana?
«Bevono di più e, considerato il contesto, vuol dire davvero molto. Forse negli anni 90 se ne moriva di più ma i consumi, anche tra i giovani, non sono mai stati così alti. D'altronde l'alcol aiuta a entrare nella dimensione nichilista e autodistruttiva con cui i russi hanno molta familiarità. Quanto alle sanzioni, oltre a permettere a nuovi imprenditori di portarsi via per pochi rubli le aziende occidentali espropriate, all'inizio hanno un po' peggiorato la vita pratica ma ora tutti si sono adattati. In termini più macroeconomici se la Russia ha perso il 58 per cento dell'export verso la Ue ha guadagnato un 78 per cento di affari con l'Asia. E sta diventando, complice il cambiamento climatico che a quelle parti non è affatto un timore, una superpotenza agricola».Di Putin, alla fine, cosa pensano?
«Che è un condottiero forte. Dà l'impressione di avere in mano il Paese e ciò fa digerire ogni danno collaterale, dalle purghe anni 30 ai più recenti assassini degli oppositori. I russi sono assuefatti all'idea della morte, sia per alcol, omicidio o guerra. Ma non a quella del collasso, l'idea che le tante nazionalità entrino in conflitto l'una con l'altra, facendo riemergere rancori e pretese secolari. Per averlo scongiurato, cinquecento anni fa, oggi ha fatto riabilitare anche Ivan Groznyj, il Terribile. Ora è la volta di Vlad Groznyi».
QUANDO L'IA BLOCCA IL TURNOVER
Questa è invece l’ultima Galapagos uscita oggi sulla newsletter del Venerdì:
Mi hanno invitato a L'aria che tira, su La 7, a parlare di lavoro e intelligenza artificiale. Nelle intenzioni degli autori, credo, dovevo fare il poliziotto cattivo. Anni fa ho scritto un libro che raccontava i rischi di sostituzione tecnologica di molte professioni. E se i radiografi e gli anestesisti americani non sono stati rimpiazzati dal software Enlitic o dalle macchine Sedasys lo si deve solo alla fiera resistenza degli ordini dei medici. Alla loro azione politica, non all'inadeguatezza tecnologica. Comunque, citando Potere e progresso di Daron Acemoglu, ho detto che alla domanda "l'IA ci sostituirà in tanti lavori" l'unica risposta seria è "dipende: se la useremo per potenziare la nostra produttività o per fare a meno dei lavoratori". Ovvero un'altra decisione politica. Nel ruolo dei poliziotti buoni, invece, il collega del Corriere Federico Fubini che fa notare come l'occupazione italiana sia adesso in crescita, anche quella stabile. E l'ex sindacalista Marco Bentivogli che ha detto che le notizie per cui l'IA licenzierebbe le persone sono "stupidaggini". Forse un pelo perentorio, dal momento che la mattina stessa, facendo i compiti per quell'ospitata, mi ero imbattuto in quella per cui Klarna, l'azienda svedese dei pagamenti a rate, ipotizzava di dimezzare lo staff proprio grazie all'IA. Lì i bot fanno già il lavoro di 700 assistenti ai clienti, riducendo i tempi di risposta da 11 a 2 minuti. In un anno sono passati da 5.000 a 3.800 dipendenti, grazie ad abbandoni incentivati, e l'idea è di non assumere più nessuno fino ad arrivare a 2000 unità. Quindi, ok, non sono licenziamenti ma blocco del turnover (come quello che ha visto la riduzione del 20% in 10 anni dei celeberrimi traduttori Ue). Però il risultato è lo stesso: ci saranno più o meno lavoratori? Difficilmente di più. Dipende.