#152 In Sicilia manca l'acqua e no, non è normale
1) La siccità come tradizione 2) Incendi e roghi 3) Dagli agrumi al mango 4) L'Isola dove i 5 stelle stravincevano 5) La guerra del "cartellino-caffè"
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Prologo
La Sicilia, giornalisticamente parlando, è interessantissima. È l’Italia, ma di più. L’Italia, ma prima. Bella e perduta.
“LA CRISI IDRICA? SIAMO ABITUATI”
Vecchi problemi, più la nuova crisi climatica. Sono stato tre giorni in giro per l’isola a raccontare una cosa che, apparentemente, indignava solo me. L’incipit:
Sicilia occidentale. L’acqua non c’è, ma non si vede. L’unico indizio visivo del problema, in tre giorni a zonzo per la Sicilia, è l’ininterrotta processione di rassegnati agrigentini con taniche da riempire alla fontana Bonamorone (sul cui conto, tra poco, surreale piccolo scoop). Il resto, dalla decimata raccolta del grano alle capre costrette a bere il fango, dalle dighe quasi vuote alle condutture che perdono metà dell’acqua che dovrebbero portare, dal razionamento a Palermo scomunicato in extremis dal governatore Schifani per salvare la reputazione dell’isola alla Grande Paura della fuga dei turisti, lo leggi sui giornali – persino il New York Times – ma qui, per strada, non te ne accorgi. Anzi, in un remake siculo dell’oscena provocazione di Maria Antonietta, i serbatoi sono vuoti ma le piscine sono piene.
La crisi idrica dell’estate 2024 è tecnicamente senza precedenti, perché alle decennali mancanze infrastrutturali va aggiunto il nuovo clima che non fa piovere da quasi un anno. Ma l’abitudine alla siccità si è fatta cultura, il che spiega perché non diventa l’argomento di conversazione. Ognuno, povero o ricco, ha un ricordo legato alla penuria del più basilare degli elementi. Vasche da bagno riempite fino al colmo. Botti in polietilene, per tutti semplicemente i recipienti, sui balconi o sui tetti. La fondamenta più importante di ogni casa qui sembra il parallelepipedo da qualche migliaia di litri da cui l’autoclave pesca per pompare nei tubi. Esotica è l’aspettativa, tutta continentale, che aprendo il rubinetto esca acqua corrente.
È in questo quadro stupefacente che la circostanza che ad Agrigento l’acqua corrente arrivi a turni ogni 10 giorni, nella vicina Favara ogni 20 e in certi quartieri di Caltanissetta ogni 40 non hanno portato sin qui a nuovi Moti siciliani. Ma dal registrare che, per il momento, nessuno dia in escandescenze a credere che sia una situazione normale il passo è lungo. Come le tappe di questo viaggio nella Sicilia più desertica di sempre proveranno a dimostrare.
Prima tappa: Agrigento
Filippo Romano, nativo di Messina, dove in certe zone dalle 14 alle 24 l’acqua non arriva, è il prefetto di Agrigento. La gestione idrica non è di sua competenza, ma quella dell’ordine pubblico sì. Ed è per questo che, da mesi, passa di riunione in riunione e consulta i sindaci della provincia in una chat WhatsApp rovente come il mezzogiorno nella valle dei Templi. Ha anche temporaneamente requisito reti idriche private per affidarle all’Aica, il consorzio locale pubblico. E, dopo una sospetta serrata di autobottisti per massimizzare la domanda emergenziale, ha stilato una lista di autobottisti “in regola” che possono rifornirsi solo da Aica. Prima magari costavano meno – Da dove viene l’acqua? Nenti sacciu – ma almeno lo Stato ha battuto un colpo. E comunque, quando i cittadini esasperati non riescono a parlare col gestore, chiamano o scrivono (un paio di lettere al giorno) in prefettura che segnala le situazioni più gravi. Che ci sono, a dispetto delle piscine tutte piene che Romano mi mostra in una foto recente scattata dall’elicottero. A partire da quella dell’Hotel della Valle, con annesso rigogliosissimo parco. «Ovviamente siamo clienti prioritari» ammette il direttore Tommaso Gallo «in quanto pilastro dell’economia. Quando le nostre scorte scarseggiano, chiamiamo e arrivano. Molti più problemi hanno i b&b in centro storico, perché lì hanno serbatoi piccoli e le autobotti non passano nei vicoletti». In ogni caso la prima domanda che i potenziali clienti dell’hotel fanno, ormai, è: «Avete acqua?». Timore che spiega il calo, pur non drammatico, registrato anche da loro.Magari turisti che hanno letto l’ordinanza anti-sprechi del sindaco Franco Micciché (ma non risulta che nessuno sia stato multato) o visto su YouTube il corteo di assetati davanti alla vicina fontana di Bonamorone. Quelli che ora, alle dieci, resistendo in silenzio alle staffilate del sole, fanno le scorte da un tubo di plastica collegato alla bocchetta. Taniche da 20 litri, di solito almeno cinque, che gli durano sì e no un giorno (una famiglia di tre persone, calcola l’Istat, di litri ne consuma 500). «Giusto per bere e cucinare: è buonissima» mi dice un ex-finanziere di Porto Empedocle che va avanti così da due mesi, da quando ha cambiato casa, pagato 300 euro di contatore e altri 200 di tecnici per l’allaccio che però, subentrata la penuria, è per il momento inutile. Ci sono due vecchietti di Villaggio Mosè, dove l’acqua arriva ogni 10-15 giorni. Due di Fontanelle che aspettano da 20 il loro turno e si sono arresi a un aumento della bonza, l’autobotte, «da 80 a 100 euro». Fino a un tipo più giovane con un’elaborata ricostruzione sul perché i politici preferiscono tenere i cittadini all’asciutto quando potrebbero «attivare il dissalatore».
È così facile? Per scoprirlo mi sposto in zona industriale, nel Forte Apache che è diventata la sede dell’Aica, che ha rimpiazzato la Girgenti Acque sciolta anche per infiltrazioni mafiose. Nella sala aperta al pubblico per i reclami, la tensione cresce. Posso eccezionalmente varcare la muraglia metallica che porta gli uffici perché ho appuntamento col direttore generale, Claudio Guarneri. Che, sul punto, risponde: «No, perché il dissalatore di Porto Empedocle è stato smontato anni fa dalla Regione per darlo alle Eolie, dove non lo usano. E quello di Gela è in abbandono», dismesso dal 2012 pur continuando a costare 10 milioni di euro all’anno di debiti pregressi. Se anche ne comprassero di nuovi non sarebbero pronti prima di gennaio. Come soluzione rapida, Guarneri vedrebbe bene i mini-dissalatori, meno energivori e bisognosi di personale, «ma il problema è che la francese Veolia li ha dati tutti a Dubai. Se però la Regione, di cui Veolia è stata socia in Siciliacque che ci ha ridotto i conferimenti del 40 per cento, facesse la voce grossa forse qualcosa salterebbe fuori». Il direttore di Aica dice almeno tre cose sorprendenti. La prima: «Le reti vetuste hanno perdite del 50-55 per cento» e sono così messe male che, anche se saltasse fuori più acqua, bisognerebbe immetterla con gran cautela per paura dei “colpi di ariete” che sfondano le condutture. Però entro «18-24 mesi saranno messe a posto». La seconda, alla domanda su che voto darebbe alla crisi attuale?: «Direi cinque, non troppo lontano dalla sufficienza. Sembra drammatica vista con i criteri di fuori, mentre è solo emergenziale ma sotto controllo secondo i nostri». La terza: «L’acqua che arriva a Bonamorone non è al 100 per cento potabile». Il che non risulta da nessun cartello. Tutti la prendono per berla. Se la chiudessero forse sarebbe l’unico innesco di una mezza rivoluzione.
INCENDI, ALTRO GRANDE CLASSICO
Un paio di anni fa, invece, ero andato a cecare di capire un’altra finta emergenza: quella degli incendi. Il reportage iniziava così:
San Vito lo Capo (Trapani). La Sicilia brucia, ma niente pettegolezzi. La cronaca locale fa il suo dovere, demoralizzata dalla ripetizione, come per la viabilità dei controesodi o la furia delle bombe d’acqua. Un appuntamento stagionale. Solo più camurriusu, seccante, di altri. Eppure, in soli tre giorni alla fine dell’estate, 600 incendi hanno distrutto l’enormità di 4 mila ettari, compresa la riserva dello Zingaro, una delle destinazioni più concupite da turisti di ogni dove. Quando la visito è passato oltre un mese dal 30 agosto del rogo che ha orribilmente ustionato la sua chioma verde, ormai marrone come la terra. Partito da punti diversi. Col favore dello scirocco, che mette le ali alle fiamme, e della sera, quando i Canadair non possono volare. Anche il più integralista dei no-mask balbetterebbe nel negare il dolo. Gli ettari totali andati in fumo quest’anno sarebbero 10 mila (il 4 per cento dei boschi «di pregio» siciliani). Il 30-50 per cento in più rispetto agli anni precedenti stando ai calcoli, limitati alla provincia di Palermo, del dirigente regionale Vincenzo Lo Meo.
Quale soglia dovrà essere superata perché diventi l’apertura di tutti i tg almeno fin quando qualche responsabile non sarà trovato, al di là dei risibili due piromani all’anno beccati, negli ultimi venti, come misera prova ontologica che lo Stato c’è? Perché in questa storia quintessenzialmente siciliana (tra gli ingredienti: cronica mancanza di lavoro, assistenzialismo, omertà) alcune cose non sono ciò che sembrano ma tantissime gridano vendetta per il fatto che nessuno ci metta mano a dispetto della loro abbacinante evidenza. Mettere in fila queste ultime, per il lettore digiuno del Continente e per quello isolano che non si arrende a farci il callo, è lo scopo delle righe che seguono.
Siccome la faccenda è una giungla di complessità, mi faccio aiutare da “Salviamo i boschi Sicilia!”, un coordinamento che mette insieme vari pezzi della società civile, nel quadrante nord-occidentale della regione. Ambientalisti, agronomi, vecchi amici di Peppino Impastato, prof delle superiori, militari e guardie forestali in incognito, precari perenni. Tutta gente che, come auspicava Leoluca Orlando in un bel libro di una vita fa, non ha perso «la verginità dello scandalo». Mi hanno preso in carico, dall’alba al tramonto, scambiandomi di auto in auto come un ostaggio, nella versione sport estremo di un Wildfires Tour. Che inizia dalla Moarda, la montagna prima frondosa ora glabra mezz’ora a sud-ovest di Palermo. Mi scorta Pietro Ciulla, valoroso presidente del Wwf e due forestali che non citerò per evitar loro grane. Mi introducono al lessico di base, a partire dai viali tagliafuoco, quelle piste senza vegetazione che dovrebbero impedire agli incendi di propagarsi, non offrendo loro niente che possa bruciare. Esistono regolamenti sulla loro larghezza: 20 metri minimi al confine dei boschi, intorno alle case demandati ai proprietari. Ma chi deve controllare che siano a norma di legge, senza accumuli di foglie altamente infiammabili? Gli operai forestali, a partire da maggio di ogni anno, ma non succede quasi mai perché i soldi per pagarli si trovano sempre all’ultimo e la manutenzione non parte che a giugno inoltrato, quando ormai è troppo tardi. Per non dire del sindaco, che dovrebbe verificare che almeno quelli intorno alle abitazioni siano a posto e multare gli inadempienti. Non succede. Qui, in località Altofonte, nella notte del 29 agosto sono stati ritrovati cinque inneschi diversi. L’agronomo mi fa vedere come le fiamme siano passate vicino alle case e sussurra: «Sanno tutti nome e cognome di un pastore che è solito dare fuoco al bosco per ottenere erba tenera per il pascolo. Ma siccome è uno considerato pericoloso nessuno dice niente». Tanto è vero che, durante una manifestazione contro i roghi, la sindaca si è lamentata che ad ascoltarla ci fosse gente di fuori ma nessun suo concittadino. Tra le tante piste è quella della «mafia dei pascoli». Qualcuno indaga? Forse.
L’ISOLA DEI FRUTTI TROPICALI
D’altronde in Sicilia fa così caldo che è diventata la terra dei frutti tropicali. L’avevamo raccontato, in una copertina, l’anno scorso. Iniziava così:
Palermo. Del mango non si butta via niente. La buccia depurerebbe la pelle, dai semi si ottiene un burro per la cosmesi, tramite “sferificazione” se ne ottiene una specie di caviale vegetale, il suo chutney è una composta pregiata nella cucina indiana, disidratato è uno spuntino venduto sui banchi di Ballarò, affettato finisce nelle vaschette della cosiddetta “quarta gamma” delle pause pranzo dei travet salutisti. Ma soprattutto, a differenza del maiale da cui deriva l’analogia di uso versatile, è di per sé tra i frutti più preziosi. Ed è per questo moltiplicatore economico rispetto ai tradizionali agrumi, assai più del riscaldamento del clima, che la Sicilia si sta progressivamente riconvertendo ai frutti tropicali. Papaya, avocado, litchi, maracuja, passiflora: sembra che non ci sia niente che non possa attecchire a queste latitudini. D’altronde, nel mondo rovesciato in cui (boccheggiando) stiamo imparando a vivere, l’olivo è arrivato sulle Alpi, trovi vigne a 1200 metri e arachidi in Toscana. Perché allora non il caffè nel cuore di Palermo?
Dalla politica all’agronomia il destino dell’isola è di essere un’avanguardia. Qui si testa oggi quel che accadrà sul continente domani. In questo antipasto di futuro la nostra guida è Vittorio Farina, brillante docente di frutticultura tropicale e subtropicale all’università di Palermo. Inizia con la storia: «I primi studi sono degli anni 50-60. Le prime cultivar piantate in quelli 60-70. I primi finanziamenti degli anni 80. Il boom arriva nel 2000». Il professor Rosario Schicchi che incontreremo più tardi va oltre mostrandoci, nel magnifico Orto botanico che dirige, un monumentale albero di avocado datato 1820. Quale che sia la data che scegliamo, tutte predatano l’allarme di Greta. Sta di fatto che «in meno di tre anni il numero delle coltivazioni di frutta tropicale è raddoppiato, raggiungendo i 1000 ettari essenzialmente tra Sicilia, Calabria e Puglia, perché i consumi sono raddoppiati negli ultimi cinque. E l’Italia» spiega il presidente di Coldiretti Ettore Prandini «al momento è in grado di coprire circa il 5 per cento dei consumi interni». Quindi c’è un ampio margine di crescita. Che incrocia la decrescita infelice di limoni e arance, i cui terreni coltivati si sono ridotti rispettivamente del 50 e del 30 per cento. Perché, con la concorrenza spagnola e turca, non convenivano più.
GLI AGRUMI? NON ERANO DI QUI
Peraltro nemmeno gli agrumi, oggi usati come bandierine dell’identità siciliana da piantare sulla schiena dei traditori che si riconvertono al tropicale, sono autoctoni. «Come le pesche e il melograno vengono dall’Asia o dal medio oriente e si sono adattate benissimo qui, così come stanno facendo i loro cugini tropicali» chiarisce Farina che smonta col sorriso il presunto sovranismo agronomico di alcuni suoi corregionali. I motivi della transizione sono, come sovente accade, più prosaici: «Dal 2000 si è registrata una forte richiesta del mercato europeo – con crescite di dieci volte in Germania e Olanda – dei cosiddetti superfood, ovvero cibi con la reputazione di fare particolarmente bene alla salute. E rese economiche di almeno cinque volte superiori degli agrumi. Così i nostri agricoltori hanno preso nota». Non ha ancora citato la tropicalizzazione del clima, con pezzi di ghiacciaio che si staccano come stalattiti da un frigo staccato dalla corrente e letti di fiumi sfatti e rugosi che fanno scattare stati d’emergenza. «È un fenomeno drammatico e innegabile, ma non necessariamente alleato delle nuove colture. Nel senso che escursioni più forti sono minacce esistenziali: basta un giorno a 3-4 gradi per bruciare i manghi, mentre l’avocado può resistere fino a 0. Oltre alle gelate anche le precipitazioni più violente, le bombe d’acqua o i medicane, gli uragani mediterranei, possono essere devastanti». Quindi piano con la retorica per cui il global warming ha fatto anche cose buone. Perché è falsa. Se nel breve periodo ci si può avvantaggiare di inverni più brevi, nel lungo la radicalizzazione peggiorerà tutto. I frutti tropicali vogliono il caldo per definizione e in Sicilia ce n’era più che abbastanza già dai tempi dei documentari di Vittorio De Seta, riproposti nel magnifico Palazzo Steri, che in Parabola d’oro del ‘55 parlava di «corso infuocato dell’estate» per raccontare i raccolti di grano. Meno ovvio sapere qual è il loro fabbisogno idrico rispetto ai frutti della tradizione. Ancora Farina: «In confronto agli agrumi il mango beve la stessa quantità. L’avocado di più. Ma possono crescere bene solo nelle zone vocate, tipo Nebrodi e Etna, che con l’università e grazie a un milione di euro dalla Regione stiamo mappando. Zone dove l’acqua dai monti abbonda e il terreno è vulcanico, ricco». A patto di aver chiaro da subito che sono coltivazioni più esigenti dei mandorli, che non han bisogno quasi di niente: «C’è da acquisire un know how, e su questo l’università aiuta. E poi, con l’eccezione dei Vivai Torre che da quarant’anni se ne occupano, bisognerebbe produrre in autonomia le piantine di cui oggi siamo largamente dipendenti dalla Spagna».
NELL’EPICENTRO DEI 5 STELLE
Undici anni fa, quando erano una novità, ero andato ad Alcamo per raccontare il comune dove i 5S avevano fatto un superlativo exploit. Un estratto:
ALCAMO. Nella controra una lama di sole marca il confine di piazza Ciullo. Reduci da un lungo inverno piovoso che ha benedetto le vigne e maledetto lo struscio, gli alcamesi ne approfittano. Un settantenne che raschia avidamente un gratta e vinci, s'interroga sul risultato per poi stracciare la scheda, deluso. Un quarantenne in tuta da ginnastica cerca occasioni su un catalogo di Carrefour. Un cinquantenne porta a braccetto la madre, l'unica che ignora la primavera incipiente con un completo da prefica di lana nera, comprese le calze spessissime. Due di queste quattro persone, statisticamente parlando, hanno votato Beppe Grillo. Con il 48 per cento delle preferenze Alcamo, ex-feudo democristiano governato negli ultimi vent'anni da una sinistra che è andata via via sbiadendo, è diventata la primatista nazionale del Movimento Cinque Stelle. Se tutta l'Italia ha conosciuto lo tsunami, questo borgo di 45 mila anime, famoso per il poeta omonimo della Rosa fresca aulentissima, un vino bianco dal «gusto fresco, sapido ed elegante» e percentuali bulgare di antiche coalizioni oggi rottamate con fragore, ne è l'ipocentro. Che conviene osservare da vicino per cercare di capire se, già alle prossime e forse imminenti elezioni, le onde anomale si propagheranno nel resto del Paese con la medesima forza.
San Giuseppe, giorno di festa. La piazza diventa un sondaggio peripatetico. Chiedo a un diciannovenne se li ha votati per le loro ricette economiche. «Se propongono quel che propongono, che per adesso mi sfugge, penso che un cambiamento ci potrà essere. Dando ai giovani la possibilità di trovare lavoro». Fiducia in bianco. Un pensionato arrabbiato li ha scelti perché vuole «la riduzione di stipendi e pensioni d'oro e d'argento di questi baronetti. Togliere il 70 per cento e l'Italia si mette a posto». Un cinquantenne sta con loro perché «prima la sinistra era il partito dei poveri, ora fa gli accordi coi miliardari. I veri compagni sono i 5S». Solo un ventenne preferirebbe non rispondere, intimorito dal nuovo pensiero unico locale: «Sono tutti grillini, ma sulla vittoria c'è un grosso alone di demagogia». Un vecchietto con i capelli immacolati e una scriminatura perfetta rivendica il voto, per rompere col passato. Ma il futuro resta un'ipotesi: «Cosa cambierà. Questo unno saccio». Una cosa per volta.
L'importante era archiviare il passato prossimo. Che ha i nomi del combinato disposto di Giacomo Scala e Nino Papania, ex sindaco e senatore di riferimento. Il primo, appena condannato per falso e abuso d'ufficio, non ha alcuna voglia di parlare con la stampa. Il secondo, con una puntualità kantiana su cui gli alcamesi hanno a lungo rimesso l'orologio – aspettandolo al varco per chiedere udienza all'autista che poi smistava al capo –, lo si può trovare ogni mattina dal barbiere che affaccia sul municipio. È lì anche stamani, come nei migliori western, che legge Il Giornale di Sicilia incorniciato da una mantellina candida mentre lo pettinano meticolosamente. E quindi lo strepitoso successo del M5S? «È del tutto naturale che in una città governata per vent'anni dalla stessa coalizione si avverta un'esigenza di rinnovamento». Parla con un distacco olimpico, come se il dominus politico di quella coalizione fosse un altro. «Certo ha influito che stavolta il candidato del centrosinistra non fossi io, che nelle primarie avevo preso oltre 6000 preferenze». Il Pd, dopo lungo e proficuo servizio, l'ha escluso dalle liste come «impresentabile» per il patteggiamento di una vecchia condanna per abuso d'ufficio. La circostanza che il suo factotum fosse un esattore dei clan, pur non coinvolgendolo penalmente, deve aver influito sull'allontanamento. E sull'insofferenza del paese (nonostante le persone che ancora si fermano per ossequiarlo) per un sistema di potere che, l'opposizione concorda, controllava tutto, dall'assegnazione di uno dei mille posti in Comune alla concessione dei mutui. Spianando la strada all'exploit grillino.
LA STRETTA DI AMAZON SUL LAVORO DA CASA
L’ultima Galapagos:
C'era una volta il sogno del lavoro da casa. In Italia, con eccesso colposo di anglicismo, unici al mondo l'abbiamo addirittura battezzato "smart working". Dal Jobs act in poi, quando vogliamo indorare cambiamenti nelle forme del lavoro, tendiamo a prendere a prestito dall'inglese. Gli americani, che più fattualmente l'hanno sempre chiamato "work from home" (WFH), ci stanno ogni giorno di più ripensando. Anche nella Silicon Valley che, delle tendenze innovative, è l'epicentro. A febbraio 2023, come tanti altri, Amazon ha diramato un ukase in cui chiedeva ai propri dipendenti di presentarsi in ufficio almeno tre giorni alla settimana. Siccome non resistono agli acronimi, la nuova politica "return to office" è, per tutti, RTO. Questo era l'anno scorso. Circa 20 mila dipendenti firmarono allora una petizione chiedendo all'azienda di riconsiderare. Ma a maggio il cambiamento entrò in vigore. Seguirono malumori, mugugni e una resistenza silenziosa. Contro la quale oggi va in scena il secondo atto. Il Seattle Times, infatti, è venuto in possesso di schermate di Slack, l'app di messaggistica diffusissima tra le aziende americane, in cui dipendenti si confrontano preoccupati circa un'ulteriore modifica. La guerra al coffee-badging, ovvero l'abitudine di molti di presentarsi al lavoro (e timbrare il cartellino) giusto per prendere un caffè, fare due chiacchiere e tornare a casa. Giusto per rispettare, formalmente, i tre giorni di presenza. A qualche team, infatti, sarebbe stato chiesto di stare almeno due ore perché conti come giornata in presenza. Ad altri sei. Ad altri, ancora, non hanno ancora detto niente. Una portavoce dell'azienda, commentando sul RTO, ha detto che l'hanno deciso per "portare i migliori risultati ai clienti, al business e alla cultura aziendale. E sta funzionando". Un dipendente, invece, ha detto che "Amazon sta diventando un posto sempre meno ospitale dove lavorare". E che cosa dovrebbero dire, allora, i magazzinieri?
Epilogo
Se fosse possibile la situazione a Gaza addirittura peggiore dell’ultimo aggiornamento. Siamo a 40 mila morti, di cui 15 mila bambini. Soldati israeliani hanno torturato un prigioniero palestinese e un certo numero di ministri li ha, di fatto, lodati. Nella Striscia, ormai ridotta a cumulo di macerie, è tornata la polio.