#151 La salute è già differenziata
1) In cima Bolzano, in fondo la Basilicata: ballano 14 anni di gioie o sofferenze 2) Quel tram torinese che allunga o scorcia la vita 3) La verità, Giorgia, sui soldi del Ssn 4) L'IA scrive i paper
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SE 14 ANNI DI ACCIACCHI IN PIÙ VI SEMBRAN POCHI…
Sono andato in provincia di Bolzano e in Basilicata sulle tracce del primo e ultimo classificato quando ad aspettativa di vita in salute. In altre parole per quanti anni in media, in vetta e al fondo, la gente risponde “bene” alla domanda “come stai?”. La differenza è enorme. L’incipit:
MERANO (Bolzano) e VAGLIO BASILICATA (Potenza). Quattordici anni di cattiva salute è tra i peggiori anatemi che si possano scagliare contro qualcuno. Purtroppo è anche la misura del divario tra la zona d’Italia dove si campa meglio e quella dove si campa peggio. Non parliamo di aspettativa di vita, ma di un indicatore senz’altro più misconosciuto (al punto che alcuni epidemiologi erano, sulle prime, sorpresi) che è quello degli “anni in salute”. Rispetto al primo, oggettivo, il secondo incorpora una quota maggiore di soggettività, di “salute percepita”. In un rapporto annuale l’Istat chiede a un campione di persone se si sentono “bene o molto bene”. Nella provincia di Bolzano il 79 per cento risponde stentoreamente “sì”. Nella regione Basilicata solo il 60. Aggiungendo a questo spaventoso dislivello i tassi di mortalità, la speranza di vita senza limitazioni dopo i 65 anni e altri indicatori si ottiene il differenziale da cui siamo partiti. Quasi quattordici anni di lamentazioni (l’anno scorso, tra la solita Bolzano e la Calabria, erano addirittura sedici). A rispondere mesti “si tira avanti” o “da poveri vecchi” alla domanda “come stai?”. Un basso continuo di cupezza che diventa, assicura Lidia Gargiulo, responsabile dell’indagine Condizione salute della popolazione dell’istituto di statistica, una profezia che si autoavvera: «Una letteratura scientifica crescente dimostra che, a forza di ripetere che stai male, anche quando stai solo non particolarmente bene, alla fine peggiorerai davvero». Tutto questo in un’Italia ancora sanitariamente unita e non ancora travolta dall’autonomia differenziata approvata dal Parlamento. Che, se già abbiamo questi fossati, finirà per riempirli di coccodrilli per assicurarsi che chi già sta bene forse stia ancora meglio e chi sta male… beh, peggio per lui. Ma intanto occupiamoci del presente.
SPORTIVI E FELICI
Iniziamo quindi da Merano, dove il neopensionato responsabile provinciale della Fimmg, il sindacato che rappresenta il sessantacinque per cento dei medici di medicina generale Sergio Rubino, dopo aver smaltito lo stupore per una distanza che sembrava eccessiva anche a lui, mi dirotta sul collega Fabio Salvio. Il suo Gruppenmedizin, lo studio associato di tre medici di famiglia, è tanto tirolese quanto un arrosticino. Tutti abruzzesi, infatti, con Salvio che ha aperto la strada dopo la frustrazione incipiente per un concorso da medico ospedaliero nella regione natìa con 400 aspiranti per 20 posti. Aveva letto che nella provincia autonoma c’era carenza, perché qui l’esodo è verso la Svizzera, che paga dal doppio in su. Così ha imparato da zero il tedesco e da dieci anni è qui, assieme alla moglie e un’altra dottoressa, dove ha tutta l’aria di voler restare ottimamente. Emigrato e contento, con 1800 assistiti sullo sforamento massimo a 2000 (rispetto ai 1500 nazionali) che alcune regioni consentono.
Ipotesi circa il loro record? «Ovviamente medici veri, come noi, che dobbiamo saper fare un po’ tutto» dice come il pasticciere che raccomanda la sua torta. «Poi i soldi della provincia autonoma, che si trasformano in welfare, sussidi per i nuovi nati, assegni per la famiglia ma anche per gli anziani bisognosi di badante. Addirittura un contributo a fondo perduto per l’acquisto della casa». E, infine, un dato culturale: «Un rapporto antico e speciale con la natura. Basti pensare a quanti campioni, da Sinner in giù, provengono da qui. Col fratello di Messner, celebre neonatologo, assessore alla salute. L’offerta sportiva è praticamente infinita e non è un caso che diabete, ipertensione e colesterolo abbiano un’incidenza più bassa. Per non dire dell’obesità. D’altronde una delle camminate più popolari in città si chiama Tappainer, in onore di un grande medico cui hanno intitolato anche l’ospedale». La stessa che mi farà fare a passo di carica, dribblando un discreto numero di turisti austriaci o tedeschi che, quando non alle prese con gli spritz dei cafe cittadini, si inerpicano come stambecchi su questi tornanti. Taluni verso la nostra stessa destinazione, il ristorante Saxifraga, il cui singolo canederlo può neutralizzare le calorie bruciate nella scarpinata. {prosegue sul Venerdì in edicola}
IL TRAM DOVE PERDI O GUADAGNI 5 MESI OGNI KM
Sei anni fa ero andato a Torino a raccontare un’altra storia molto plastica di disuguaglianza di salute. Iniziava così:
TORINO. Im Bedamje, col suo nome arabeggiante che in realtà significa «grande pascolo» in un dialetto della Val Sesia, sembra una via di mezzo tra un museo e una gioielleria. Più semplicemente trattasi di «boutique alimentare». Tra le specialità una marmellata fatta dalla suore trappiste (9,30 euro), un miele alla lavanda (11) e un whisky McDuff (540). Per tacere di quel salmone importato direttamente dall’Alaska, che va sui 180 euro al chilo. La proprietaria, tuttavia, ci tiene a smentire le apparenze: «Che mangiare bene costi di più è falso» e mi mostra una foto fatta col telefonino che dimostrerebbe come il San Daniele di un celebre supermercato, a 48 euro al chilo, è tre euro più caro del loro. Le spiego che non sono lì per comprare, ma per un servizio intorno a una scoperta intuitiva, sino a poco tempo fa indimostrata. Quella per cui chi nasce in questo quartiere, la zona precollinare di Torino, ha un’aspettativa di vita di quasi quattro anni superiore (82,1) a chi viene al mondo nella circoscrizione operaia delle Vallette (77,8). «Davvero?» commenta «E dove sono esattamente le Vallette?». Interviene il figlio a spiegarle che si trovano addirittura oltre la casa del cognato. La signora ovviamente non c’è mai stata, così come tanti abitanti di Manhattan non hanno mai messo piede nel Bronx. Eppure sarebbe stato facile perché i due antipodi sono stati a lungo collegati da un tram, il 3 (oggi sdoppiato), che in quaranta minuti ti porta dal mondo di sopra a quello di sotto. Un viaggio al termine dell’uguaglianza, dal momento che a ogni chilometro percorso il passeggero guadagna o perde cinque mesi di vita a seconda del senso di marcia.
A mettere a verbale l’ennesima declinazione degli effetti di una società sempre più economicamente polarizzata è Giuseppe Costa, l’epidemiologo dell’università di Torino che l’anno scorso ha curato il secondo rapporto L’equità nella salute in Italia (Franco Angeli). «Abbiamo diviso la città per reddito e abbiamo usato i dati dello Studio longitudinale torinese» mi dice in un bar alle spalle del Campus Einaudi «e il risultato, già grave, peggiora ulteriormente se aumentiamo il livello di dettaglio. Confrontando certi isolati più fortunati con quelli più sfortunati, la differenza arriva a sette anni». Non sorprende, solo che da noi nessuno l’aveva calcolato. Il sociologo di Oxford Göran Therborn ha spiegato in The killing fields of inequality come il divario di 5,4 anni tra i più ricchi e i più poveri quartieri di Londra (1999-2001) si è ampliato a 9,2 anni (2006-2009). Anche lì, spostandosi a est sulla Jubilee Line, si perdevano sei mesi a fermata. «Se è per quello esistono gap di 15 anni a Glasgow e Washington» ammette Costa, prima di elencare le cause che lo determinano. Il concetto principale è quello di «controllo sulla propria vita». Generalmente più hai studiato, più sei padrone del palinsesto delle tue giornate e del modo in cui esegui i compiti. Quindi, dal punto di vista organico, ti eviti un sacco di guai. Breve elenco semplificato: niente stress cronico, quindi no arterie ristrette e irrigidite che, al primo evento acuto (licenziamento, divorzio, malattia di un familiare), potrebbero risultare in un infarto o un ictus. «Oltre al fatto che un disoccupato ha un rischio doppio di avere disturbi mentali» chiosa Costa. A buste paga diverse corrispondono anche stili di vita diversi, con quelle più leggere spesso associate a quelli più nocivi («Fumo, alcol, droga, obesità, sesso non protetto sono meccanismi compensativi del disagio»). Poi c’è l’ambiente, il fatto di vivere «a un chilometro da una discarica o nel mezzo di viali ad alto scorrimento o vicino a fabbriche insalubri». E infine l’accesso alle cure, per cui la solita cartina torinese si colora di infarti nei quartieri operai (+16 per cento di incidenza per gli uomini, +18 per le donne) mentre le rivascolarizzazioni, ovvero il modo migliore di intervenire, in collina sono enormemente più frequenti che in borgata. Che è un po’ come se gli incendi scoppiassero da una parte e gli estintori fossero da tutt’altra. «Per non dire della prevenzione, un lusso che sembra appannaggio esclusivo dei più colti, e quindi generalmente dei più ricchi» fa notare l’epidemiologo. I tram della disuguaglianza (il 6 da Piazza Hermada e il 3 che lo interseca e ne continua il tragitto fino alla Vallette) io li ho presi. È come un ascensore sociale orizzontale da cui assistere a un doppio spettacolo. {continua qui}
IL GIOCO DEI NUMERO DEL GOVERNO MELONI
l’anno scorso invece, quando Meloni si vantava di aver speso di più per il Fondo nazionale salute fingendo di non capire che quel che conta è quanto si investe rispetto al Pil, avevo fatto una ricognizione. Un estratto:
La prima ministra nega il triste record. Lo fa invocando una diversa unità di misura: i soldi stanziati per il Fondo sanitario nazionale, ovvero la cassa del Ssn. Dice: «Con quasi 136 miliardi di euro noi raggiungiamo il più alto investimento mai previsto per la sanità». Circostanzia: «Nel 2019 il Fsn ammontava a 115 miliardi di euro per viaggiare, negli anni del Covid, tra i 122 e i 127 e quindi mi sembra un po’ forte sostenere che questo governo tagli la Sanità». È una difesa abile, perché quelli del Fsn sono numeri assoluti, facili da confrontare. Ma è una difesa debole. Perché quei numeri non tengono conto dell’inflazione, dell’invecchiamento della popolazione e di altri fattori che influenzano i costi della sanità. Come se il vostro datore di lavoro, nell’anno in cui tutte le spese lievitano del 10 per cento, pretendesse un monumento per avervi aumentato lo stipendio dell’1: ringraziereste, ma col 9 per cento in meno di soldi da spendere. Più poveri, non più ricchi. Quello tra spesa sanitaria e Pil è invece un rapporto, un numero relativo, meno facile da confrontare. Ciononostante l’unità di misura più onesta perché tiene conto dell’inflazione. Un rapporto che oggi è del 6,6 per cento (già basso rispetto alla media Ue del 7,1 e quasi due punti percentuali in meno rispetto a Francia e Danimarca). Scenderà al 6,2 nel 2024 e 2025, fino al 6,1 del 2026. I 3 miliardi in più concessi nella Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (Nadef) non bastano nemmeno a contrastare l’aumento dei prezzi. A scanso di equivoci, negli ultimi 15 anni han tagliato tutti. Dal 7 per cento del Berlusconi IV siamo passati al 6,8 di Monti, fino al 6,6 di Renzi quindi al 6,4 del Conte I che poi l’ha innalzato al 7,4 nel 2020 (causa Covid), per riprendere una netta discesa con Draghi. Dal banchiere all’underdog, che si voleva paladina dei meno fortunati, la curva non fa che scendere.
LA MALATTIA, OVVERO UN COLPO ALL’ECONOMIA
Appurato che le colpe sono bipartisan, ma anche che l’ultima inquilina di Palazzo Chigi ci sta mettendo del suo, cosa rischiamo? Un esodo di quasi 40 mila camici bianchi entro il 2025 «può mettere definitivamente in ginocchio la Sanità pubblica» scrive il Sole 24 Ore. Antonio Magi, del sindacato dei medici ambulatoriali (Sumai), sempre per quella data avverte: «Senza investimenti seri la Sanità pubblica rischia di saltare». «Arrestare il declino del Ssn sembra quasi impossibile» vaticina una veterana come Nerina Dirindin su Salute Internazionale, a meno di escludere dal computo europeo del debito pubblico, per parecchi anni, gli investimenti in sanità per paesi come il nostro. Esagerano? Nino Cartabellotta, presidente dell’osservatorio Gimbe, non sembra meno preoccupato: «Da troppi anni la normalità è tagliare. Ma, oltre ai danni alle persone, troppi governi non hanno capito una cosa semplice: salute è anche economia. Chi sta male non consuma, non va al ristorante, sottrae i familiari dalle proprie occupazioni produttive. Durante la pandemia ci è sembrato di aver dedicato un sacco di soldi a questo settore cruciale. La verità è che, per colmare il divario pro-capite con la media europea del 2022, da qui al 2030 dovremmo stanziare 14 miliardi e mezzo all’anno, ovvero quasi 5 volte quelli aggiunti, con enorme sforzo, dalla Nadef». Il che, non gli sfugge, è del tutto inverosimile rispetto alla storia recente: «Potremmo però passare dai 3 miliardi del 2023 a 6 nel 2025, a 9 l’anno dopo e così via. Invertire la tendenza». Sarebbe l’unico modo per ricucire il divario Nord-Sud. Quello, ad esempio, che inchioda la Campania ad accontentarsi di 3,59 infermieri per mille abitanti contro i 6,72 del Friuli-Venezia Giulia. Quanto alla “medicina territoriale”, tanto invocata durante le ore più buie del Coronavirus, ovvero la rete che doveva affiancare al medico di base le case e le comunità della salute, oltre agli assistenti sociali, «ci hanno investito solo alcune regioni, essenzialmente Emilia, Toscana e Veneto, mentre il Sud è totalmente desertificato. D’altronde richiederebbe un cambiamento culturale che non può essere calato dall’alto come ha provato a fare il Pnrr, credendo che il modello Bologna, affinato negli anni, potesse subito adattarsi a tutti».IL MODELLO AMERICANO
Anche Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, nonché autore di La salute (non) è in vendita (Laterza), ha un aneddoto da raccontare: «A Mantova, come da previsioni del Pnrr, hanno realizzato una “casa comunità” che assiste in media 800 persone al giorno, a tutte le ore, tutto l’anno. Dove, se serve, prendono l’appuntamento con l’ospedale di prossimità per la Tac e altro. A quel punto elimini le file al pronto soccorso! E con tre case così servi una città grande. Però ci vogliono le persone giuste e, soprattutto, separare la politica dalla loro gestione. Non c’è uno dei miei colleghi stranieri che non trasecoli per la nomina politica dei nostri direttori sanitari». Remuzzi non vuole sentir parlare di «sostenibilità» economica: «Quale che sia il prezzo, sostenibile lo è per forza. Il Ssn è la cosa più preziosa che abbiamo. Togliere da un ammalato la preoccupazione di come pagare le cure è una cosa eccezionale. Deve essere la priorità assoluta della politica. Mentre stiamo scivolando verso il sistema americano, uno dei più fallimentari al mondo». L’inizio della fine lo colloca negli anni 90, quando l’allora ministro De Lorenzo, poi condannato a pagare 5 milioni di euro per danni all’immagine dello Stato per una brutta storia di presunto aumento dei prezzi dei farmaci, introdusse i concetti di “libera scelta e mercato”. Entrambi in collisione con l’articolo 32 della Costituzione dove prevede che la salute è un diritto di tutti, indipendentemente dalla condizione socio-economica, compresi gli indigenti: «Per il mercato più operazioni si fanno, soprattutto operazioni costose, meglio è. Non così per il paziente. Con la prevenzione si possono evitare, ma sul concetto c’è un anatema». Per Remuzzi va benissimo che uno si scelga il chirurgo che vuole, a patto che se lo paghi. Mentre, in percentuali variabili tra l’80 e il 90 per cento, le strutture private convenzionate (raddoppiate negli ultimi dieci anni) si sostengono coi soldi pubblici. E allora, con buona pace della Lombardia, così è troppo facile. «Dovremmo tendere alla qualità della Scandinavia e all’efficienza di Singapore» dice, a mo’ di sfida, ma per portarci a quei livelli invece di tre miliardi all’anno ne servirebbero venti. Si può decidere di risparmiarli oggi, sapendo però che li pagheremo con gli interessi domani. Quando orde di vecchi non autosufficienti sequestreranno dalla vita attiva i loro figli, trasformandoli in badanti, mentre i più abbienti riempiranno Rsa sempre più care perché a trazione privata.DALL’EMILIA CON PASSIONE
E invece, alla faccia dei padri costituenti, si rischia un inasprimento senza precedenti delle disuguaglianze di salute. Ne è convinta Chiara Gibertoni, direttrice sanitaria dell’ospedale universitario Sant’Orsola di Bologna, con lunga esperienza tra grosse Asl e Istituto superiore di sanità: «Se non si inverte la tendenza è facile immaginare che l’”alta specialità”, le operazioni più complesse, saranno garantite solo dal privato dove si saranno trasferiti i chirurghi in cerca di paghe migliori. Chi avrà soldi o assicurazioni continuerà ad avere buone cure, gli altri si arrangeranno». {prosegue qui}
L'IA SCRIVE PAPER SCIENTIFICI. È UN BENE?
L’ultima Galapagos:
Sempre più abstract di studi scientifici vengono scritti dall'intelligenza artificiale. Un dieci per cento, calcola l'Economist. Che diventa 20 nei paper a tema informatico. E nei dintorni del 30 per quelli scritti da ricercatori cinesi, verosimilmente perché producono tanto, ma non hanno altrettanto dimestichezza con l'inglese. È l'ennesimo sintomo precursore dell'Apocalisse o, semplicemente, il segno dei tempi? Per il settimanale inglese è vera la seconda che ho detto. Per tutta una serie di ragioni. Velocizzando la produzione lascia a scienziati già appesantiti da molta burocrazia accademica di concentrarsi sulle cose importanti, tipo farsi venire idee brillanti. Aiutando gli studiosi non nativi anglofoni allarga il loro mercato, internazionalizzandolo ancora di più, a beneficio di tutti. I problemi, ovviamente, esistono. I grandi modelli linguistici (Llm) rendono anche più facile generare paper falsi. Solo l'anno scorso la rivista Science ha ricevuto 10.444 candidature delle quali l'83 per cento è stato scartato prima della "revisione tra pari". E tra queste un numero non irrilevante era stato generato da qualche IA in vena di allucinazioni. Ma richiedere, come fa la stessa Science, di autodenunciare quando qualcosa è stato scritto con l'aiuto di un bot, non avrebbe tanto senso. Perché il plagio generato dall'IA è molto più difficile da beccare che quello tradizionale con copia-e-incolla da web Piuttosto, propone l'Economist, dovremmo potenziare la peer review, «magari pagando i revisori per il tempo che dedicano a scrutinare gli studi altrui». Più facile a dirsi che a farsi. La promessa dell'IA di aumentare la produttività punta a farlo senza spendere una lira.
Epilogo
A Gaza la carneficina va avanti indisturbata: siamo a 38 mila morti, di cui 15 mila bambini. Fate un esercizio di visualizzazione creativa e immaginate l’equivalente nella vostra città. All’Esquilino, per esempio, ci viviamo in 21 mila. Ecco: due Esquilini. Puf!