#150 Ci meritiamo Don Matteo? Dibattito sulle serie
1) Colpa degli sceneggiatori, dei produttori o delle piattaforme? 2) Nussbaum, la signora delle serie 3) intervista a Saul Goodman 4) Perché in aeroporto è tutto caro appestato?
ARTICOLI. LIBRI. VIDEO. PODCAST. LIVE. BIO.
COLPA DEI PRODUTTORI? O DEGLI SCENEGGIATORI?
Erano anni che mi ponevo, invano, questa domanda. com’è che, semplificando, gli americani avevano Breaking Bad e noi, sostanzialmente, ancora Don Matteo? Finalmente ce la siamo posti sul Venerdì e qualche indizio lo abbiamo messo in fila. Ma la risposta definitiva ancora manca. L’incipit del pezzo (il resto lo trovate sul numero in edicola e poi online):
ROMA. Al termine di un appassionato, cosmopolita e colto peana ai produttori italiani, e sul perché non corrisponderebbe al vero il fatto che siano ancora troppo legati ai personaggi positivi rispetto a quelli negativi, Riccardo Tozzi mi congeda con un aneddoto. Che risale a un viaggio del tonico settantaseienne presidente di Cattleya, una delle principali case di produzione italiane, al leggendario tempio cambogiano Angkor Wat. Qui il monaco che gli fa da guida gli rivela il segreto di Pulcinella della condizione umana: «Vede il ponte che porta all’entrata? Ha 54 demoni sul lato destro e 54 dèi sul sinistro. Da quale parte crede che passi la quasi totalità dei visitatori?». Che è la versione buddista del perché l’Inferno di Dante è, a mani basse, più appassionante del Paradiso. Oppure della domanda che mi ronza in testa da anni e che incardina questo articolo: perché, semplificando con l’accetta, quando in America partorivano Breaking Bad noi eravamo (e in un certo senso siamo ancora) all’ennesima stagione di Don Matteo? E siccome detta così può sembrare un’antinomia troppo soggettiva, la àncoro a due categorie decisive di cui l’ex-critica televisiva del New Yorker Emily Nussbaum aveva parlato al Venerdì. In breve: fin quando negli Stati Uniti c’è stata la tv generalista, coi canali in chiaro, le serie hanno raccontato gli eroi che, piacendo a un pubblico ampio, facevano contenta la pubblicità. Da quella via cavo in poi, con tante nicchie che pagavano l’abbonamento, hanno osato passare agli antieroi. Come il mafioso che va dallo psicoterapeuta (The Sopranos) o l’integerrimo prof di chimica che diventa narcos (Breaking Bad, appunto). Cattivi vulnerabili. O buoni che, per una catena di circostanze, diventano proverbiali figli di puttana. Veri come la vita, o la grande letteratura. E non caricaturali come certi santini che spesso spadroneggiano sul nostro prime time.
TERRORIZZATI DALLE CAUSE
Per solidarietà di categoria – commerciamo entrambi in parole – parto dagli sceneggiatori. Si dà poi il caso, tanto per confermare il cliché dell’Esquilino roccaforte del cinema, da Sorrentino&Garrone in giù, che uno di loro viva a due minuti da casa mia e l’altro addirittura due piani sopra. Michele Pellegrini (Il clandestino, La mafia uccide solo d’estate) è vicepresidente di Writers Guild Italia, un sindacato di sceneggiatori. Incassa signorilmente l’addebito di storie italiane a cattiveria limitata, poi la scompone. Dice: «Il coraggio ci sarebbe, ma spesso resta sulla carta dei soggetti. Perché essere scorretti ha un costo: restringe il mercato che da noi, al 70/80 per cento, è servito dai prodotti generalisti, Rai o Mediaset. Se non un vero antieroe puoi fare un personaggio sfaccettato, come il sostituto procuratore Imma Tataranni o il vicequestore Rocco Schiavone, sapendo però che fanno decisamente meno di Don Matteo». Ma le nostre serie starebbero alla larga dalla realtà anche per «paura delle cause». Tipo: «Da noi è quasi impossibile parlar male di qualcuno o qualcosa. Una battuta sulle “cazzo di birre artigianali” ci è costata seimila euro di danni a un’associazione che le raggruppa. Idem per aver parlato di “ulivi morti in Salento”. Se nell’americana Il problema dei tre corpi uno può dire “Fottuta Vodafone”, noi invece dobbiamo trasformare “WhatsApp” in “messaggino” per evitare il marchio commerciale. Il diavolo sta nei dettagli. E a forza di toglierli restano solo i santi». E a forza di pixelare resta solo un’immagine sgranata, cartoonesca, finta. {continua sul Venerdì}
EMILY NUSSBAUM, TRA EROI E ANTIEROI
La spiegazione più cristallina del perché in America la tv era diventata una cosa seria me l’aveva data qualche anno fa l’allora critica tv del New Yorker. Una donna di un’intelligenza mostruosa. L’intervista iniziava così:
La televisione era spazzatura. Peggio, era «gomma da masticare per gli occhi», secondo la definizione splendidamente feroce del critico teatrale John Mason Brown. Intrattenimento sempre, arte mai. Un ingombrante pezzo di mobilio. Un medium senza speranza dove «la volgarità è innalzata a potere. Il potere viene abbassato verso la volgarità» sentenziava nel 1980 sul New Yorker George W.S. Trow. Epperò insidioso: «Un additivo sospetto che le aziende avevano aggiunto all’acqua corrente della cultura, un elemento in grado di indebolire la spina dorsale dello spirito» ricorda oggi Emily Nussbaum, che della medesima rivista è stata a lungo critica televisiva, premio Pulitzer e autrice degli articoli di intelligenza pirotecnica raccolti in Mi piace guardare (minimum fax).
Poi sono successe delle cose. Era il 1999 ed è arrivata I Soprano, «una serie per adulti, qualcosa di cui vantarsi e non scusarsi. E fu quella che definì il modello di “televisione di qualità”». Il canale che la mandò in onda era consapevole dello spartiacque e battezzò lo slogan «Non è tv. È Hbo». Il piccolo schermo poteva finalmente covare grandi ambizioni. «I Soprano enfatizzava l’immaginario più che l’azione, i personaggi più che la trama, attraverso linee narrative spesso lasciate in sospeso a vantaggio della costruzione della storia. Dava l’impressione di un romanzo e sembrava un film». Se si poteva fare una cosa così, con un killer mafioso che va in analisi, se ne poteva fare anche una su un prof di chimica a cui hanno dato pochi mesi di vita che diventa un narco stacanovista per provvedere ai bisogni della sua famigliola quando lui non ci sarà più. Non è tv. È Netflix. Amazon Videos. Hulu e chi più ne ha più ne guardi.
Come è stato possibile?
«Se capissi qualcosa di economia non avrei fatto questo mestiere. Però cruciale è stato il passaggio dal modello pubblicitario a quello degli abbonamenti. Finché i soldi si facevano solo con gli spot servivano programmi che garantissero un pubblico sufficientemente vasto affinché chi produceva corn flakes o auto ritenesse vantaggioso spendere una fortuna per raggiungerlo. Non si poteva osare troppo, perché servivano numeri importanti. Quando invece si è cominciato a pagare direttamente i canali con gli show si è potuto pensare di fare anche una mini-serie per una nicchia. Perché il plurale di nicchie fa comunque pubblico».
È troppo dire che quel passaggio ha coinciso con quello da protagonisti positivi ad anti-eroi?
«Una vecchia regola tra gli sceneggiatori era di non creare mai personaggi che non avreste voluto far entrare in casa vostra. Autori come David Chase (Soprano) sono cresciuti odiando quelle regole e la tv che ne derivava. Ora quella generazione ha vinto e lo spettro di personaggi che ci piace vedere si è allargato a dismisura. Carrie Bradshaw (Sex & the City) è stata la prima enti-eroina televisiva femminile. Tony Soprano, Walter White di Breaking Bad,le spie di The Americans sono tutte persone che, a cose normali, starebbero in prigione e non nel nostro salotto. E invece li facciamo accomodare e gli offriamo anche da bere».
Lei scrive che un altro agente di cambiamento è stato il pulsante “pausa” sul telecomando, ché ha trasformato lo spettacolo da un flusso a un testo...
«È così. Prima c’erano stati i videoregistratori ma era tutto molto laborioso. Quando è stato facile fermare le immagini, risentire un passaggio, magari cercare su internet un riferimento, di colpo nessuna storia è diventata troppo complessa o audace da far digerire. I dialoghi pensati da David Simon per The Wire erano così densi che non sarebbero stati concepibili senza la possibilità di fermarsi un attimo. E no, vi assicuro, non è una cosa che fanno solo i critici o i fan ossessivi. Da onanistica qual era, guardare la tv è diventata una pratica molto più sociale». {continua qui}
BETTER CALL ODENKIRK
Non scrivo quasi mai di spettacoli. Però mi son molto divertito a intervistare un mito: Saul Goodman.
Meglio chiamare un medico. Bob Odenkirk si è accasciato a terra. Sul set ad Albuquerque, New Mexico, dove sta girando la sesta e ultima stagione di Better Call Saul (in onda su Netflix dal 19 aprile), la serie su un avvocato da tre soldi, con una moralità malleabile come la gomma da masticare, che è entrata nella premier league degli show televisivi di tutti i tempi. Fortunatamente non è ancora rientrato nel camerino, come fa di solito, per guardare un po’ di baseball e fare la cyclette. Rhea Seehorn, sua moglie Kim nella finzione, lo vede e grida. Il medico della produzione interviene subito. Alla terza scarica di defibrillatore il cuore ritrova una pulsazione quasi normale. Lo portano all’ospedale, gli mettono due stent e lui non ricorderà niente dell’accaduto.
«È così iconico» scrisse Martin Amis di John Travolta e delle sue discese ardite e risalite professionali «che dovrebbe essere morto. Ma non è morto, non più». Saul Goodman, il nome d’arte con cui Jimmy McGill, reclamizza nella fiction i suoi servizi legali, allude a «it’s all good, man», va tutto bene ragazzo, sono io quello che risolverà i tuoi problemi. E, a vederlo dall’altro capo di Zoom, va veramente tutto bene. L’attore non è morto, non più. È in forma smagliante. Dall’incidente dell’anno scorso ha scritto un’autobiografia, Comedy Comedy Comedy Drama, girato un film in cui interpreta il vendicatore della porta accanto, pensato una serie agrodolce sulle sette e si appresta a dare l’addio al personaggio che gli ha fatto compagnia per oltre un decennio fruttandogli 21 Emmy, 11 Writers Guild of America Awards e quattro Golden Globes, più una dozzina di altri trofei, un bottino inedito nella storia della tv.
Ha imparato niente da quello spiacevole evento? «Lì per lì niente. Ho un totale buco nero di otto giorni. Ma poi ci ho pensato a lungo e posso rispondere come farebbe qualsiasi persona di cinquantanove anni: voglio lavorare meno. Mi rendo conto di non essere originale. Intervistato da Esquire, alla domanda su cosa avrebbe cambiato se avesse potuto tornare indietro, Paul Newman risponde allo stesso modo: avrei lavorato meno. Ecco, oggi lo capisco meglio. E sto provando a tornare in possesso del tempo per essere più presente con i miei familiari e amici perché so bene che siamo in circolazione per un periodo di tempo assai limitato».
“SAUL? VUOLE ESSERE AMATO”
Se non fosse tutto vero, il contrattempo cardiaco avrebbe potuto essere una coerente trovata di Vince Gilligan e Peter Gould, i due sceneggiatori di Breaking Bad (BB) prima, dove l’avvocaticchio Saul fa capolino, con la previsione di esserci per tre-quattro episodi e poi rimanerci, torreggiante, per dodici anni, compresi quelli di Better Call Saul (BCS), il prequel sviluppato sull’enorme successo di questo formidabile antieroe. Perché Saul è, prima di tutto, un uomo danneggiato che, durante tutto il suo arco narrativo, fa di tutto per essere visto, riconosciuto e infine amato dalle persone cui tiene di più: il fratello, avvocato di successo e la moglie, legale di grandi società mentre lui è rimasto a tutti gli effetti un ambulance chaser, un “parafangaro” che arriva come un avvoltoio sul luogo di qualche incidente e non ha problemi a mettere la sua faccia su un enorme cartellone pubblicitario, con quel nomignolo assurdo che lo renderà popolare ma mai rispettato.
Da groupie dichiarato gli chiedo come sia stato possibile che la prima puntata di BCS avesse scoraggiato tanti entusiasti spettatori di BB. «Quella di Walter White è la storia universale di ogni cinquantenne che sperimenta una crisi di mezza età, con le tensioni tra marito e moglie, le pressioni finanziarie: tutti potevano identificarcisi. Mentre BCS è una storia in cui è molto più difficile rispecchiarsi: devi essere un avvocato cui le cose non vanno troppo bene, un po’ delinquente, con un fratello maggiore verso cui provi gran risentimento. Insomma non c’è niente di universale. Tranne la ricerca di sé, ciò che si vuole davvero essere nella vita, tipica di trenta-quarantenne e che a Saul succede un po’ più tardi». Forse, più semplicemente, è che subito dopo aver visto BB le aspettative erano troppo alte, i paragoni troppo incalzanti. Dice: «Nemmeno gli scrittori sapevano bene, all’inizio, cosa fare. Volevano qualcosa che fosse diverso da BB ma che si situasse nello stesso universo. E hanno compiuto uno straordinario lavoro. Non solo: adesso che ho girato anche l’ultima stagione, sebbene ovviamente non possa dir niente a riguardo, anche alcuni aspetti di BB si possono leggere sotto a una nuova luce».
Il cronista, che ha potuto vedere solo il primo dei tredici nuovi episodi, può solo confermare l’immenso piacere di rivedere, come in una riunione di famiglia, il sanguinario Lalo Salamanca, scampato a un regolamento di conti ordito da Gustavo Fring, il gelido narco che usa come copertura i fast food di Los Pollos Hermanos; lo zio Hector, il patriarca muto in sedia a rotelle che comunica a colpi di campanello da reception; lo spicciafaccende Mike Ehrmantraut, una specie di Leibniz a servizio del male, con una sorprendente coerenza interiore, e il resto dell’insuperabile fauna umana che si muove intorno a Jimmy e Kim.
IL MISTERO DEI PREZZI FOLLI ALL'AEROPORTO
L’ultima Galapagos:
Ringraziamo, tra gli altri, l'11 settembre. Se i prezzi di un paninaccio che sa di cartone all'aeroporto possono raggiungere quelli di un primo in una trattoria di buona qualità lo si deve anche ai rincari di sicurezza post attacco alle Torri. Perché i camion che portano il cibo devono passare rinforzati controlli di sicurezza. Perché i venditori devono pagare per assicurarli in caso di incidenti sulla pista. E per tante altre complicazioni che il ferale giorno di 23 anni fa si è portato dietro. Ma, ovviamente, non è solo quello. Dopo lo scandalo di un incauto viaggiatore che aveva speso 27,85 dollari per una birra in un bar dentro al LaGuardia, la Port Authority, l'autorità che sovrintende sugli aeroporti newyorchesi, aveva indagato su altri osceni rincari e emanato due anni fa delle linee guida. Tendenzialmente la ristorazione dentro l'aeroporto può maggiorare il listino del 10 per cento rispetto ad analoghi locali in centro. Ma poi ci si è messa la pandemia e l'inflazione che hanno normalizzato il rincaro del 15. Che molto spesso va decisamente oltre, anche perché non è sempre facile trovare il locale analogo con cui fare il confronto. È facile per la catene, difficile per certi ignoti brand che misteriosi spadroneggiano nel "dwell time", ovvero quel tempo ozioso da riempire tra il superamento dei controlli di sicurezza e il decollo. Ognuno, ovviamente, avrà le sue storie dell'orrore da raccontare. Io ho in mente un baracchino al Jfk, gestito da turchi se ricordo bene, che per cose al confine dell'edibilità faceva pagare come fosse Eataly. E quindi che fare? "Portatevi un panino da casa" il triste e ragionevole consiglio dell'Atlantic. La buona notizia è che il peggio degli scali italiani è meglio (e meno esoso) della crema della crema di quelli americani.