#149 Negazionisti, "stiepidatori" & co.
1) Lomborg, quello che dice: il riscaldamento climatico è uno dei tanti problemi 2) I No-vax alla prova del vaccino 3) Quelli che "la Luna? Mai stati" 4) trascrivere non sarà più la stessa cosa
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Prologo
Non ricordo più quando mi ci sono imbattuto per la prima volta ma l’espressione “tutto quello che precede un ‘ma’ è una stronzata” ma, nel suo semplicismo, mi torna in mente sempre più spesso.
RITRATTO DI UNO STIEPIDATORE PROFESSIONALE
Quando mi han proposto di intervistarlo ho detto che preferivo di no. Poi ci ho ripensato, perché è sempre meglio provare a capire come maneggiare anche i pusher di cattive idee. L’inizio dell’intervista sul Venerdì:
Bjørn Lomborg è cintura nera di benaltrismo. Gli dici «ad aprile era già caldo come a luglio» e lui ti risponde «ma la tubercolosi, allora? E la fame? E la mancanza di istruzione?». C’è sempre qualcosa di più importante, peccato che con un pianeta in fiamme tutti gli altri problemi rischiano di sciogliersi come il ghiacciaio dell’Adamello. Però è proprio quest’ordine di priorità che il polemista danese contesta: il cambiamento climatico non è il problema, ma un problema. Che, per di più, staremmo affrontando male. Quindi ciò che un’inedita ecumene di scienziati denuncia a pieni polmoni, al grido di “presto ché è tardi”, per questo dottorato in scienze politiche sarebbe un Falso allarme. Come da titolo del suo libro del 2020 che ora arriva in Italia per Fazi.
Due decenni fa, con un altro libro, L’ambientalista scettico, questo biondissimo cinquantanovenne divenne una star istantanea dei negazionisti globali del riscaldamento climatico. Diceva, in un linguaggio molto più forbito dei suoi fan, ciò che loro amavano sentire. In poche parole: non facciamola lunga con questa storia del global warming. La popolarità di quel testo convinse Yale University Press a dare alle stampe The Lomborg Deception, volume che lo confutava colpo su colpo. Da allora innumerevoli scienziati hanno preso le distanze dal suo cherry picking, ovvero l’uso altamente selettivo che Lomborg fa dei dati. Dopo aver provato in ogni modo a farlo desistere dal citare una distorta quantificazione del costo («11 mila dollari») che ogni cittadino americano si sarebbe dovuto sobbarcare per arrivare a emissioni zero nel 2050, un autore del paper strumentalizzato lo ha definito «oscenamente senza scrupoli». La rete pullula di debunking delle sue tesi, come se fosse un terrapiattista qualsiasi. Numeri buoni mischiati con altri vecchi, gonfiati, inventati.
Ma Lomborg, che fa impazzire i negazionisti, non è tecnicamente uno di loro. Corrisponde al sottoinsieme più sofisticato, quindi più insidioso, dei lukewarmer. Gli “stiepidatori”: ammettono che il problema esiste, l’Uomo l’ha peggiorato, ma poi ti portano su un’altra strada – drammaticamente fuori strada – quando si tratta di applicare le soluzioni su cui i climatologi concordano. Se il dibattito internazionale è incandescente, lui ci butta su delle secchiate d’acqua e lo raffredda. Fin quando il problema non spaventa più nessuno. Se continuiamo a comportarci come abbiamo sempre fatto, scrive, «entro la fine del secolo il costo del cambiamento climatico ammonterà a circa il 3,6 per cento del Pil globale. Ciò significa che i redditi, anziché crescere del 450 per cento entro il 2100, potrebbero salire solo del 434. Si tratta chiaramente di un problema, ma è altrettanto evidente che non siamo di fronte a una catastrofe». Peccato che l’ennesimo studio appena uscito dal rinomato Potsdam Institute (Pik) i danni li quantifichi in 38 trilioni di dollari l’anno, vale a dire una riduzione di almeno il 19 per cento della ricchezza complessiva, in metà tempo e oltre cinque volte quel che sostiene il nostro. Con un conto finale sei volte maggiore alle politiche di mitigazione necessarie per mantenere l’aumento della temperatura entro i 2 gradi. Tanto per fare un esempio su cento dell’aria che tira nella fantastica Lomborglandia.
I NO-VAX NON SI ARRENDONO. MAI
Si sarebbe potuto credere che il vaccino per il Covid sarebbe stata una cocente sconfitta per i No-vax. E si sarebbe sbagliato. Il pezzo del Venerdì di qualche tempo fa:
Tra le pochissime certezze circa il tanto vagheggiato quanto elusivo «ritorno alla normalità» c'è la prospettiva del vaccino. Solo allora, ripetono in coro virologi per il resto spesso in disaccordo, potremo ricominciare a fare più o meno quello che facevano prima. Tempi duri per i no-vax, si pensava, dal momento che il loro nemico è oggi universalmente atteso come il Messia. Poveri illusi. La vasta nebulosa che dietro a ogni punturina per immunizzare qualcuno da qualcosa vede soprattutto l'ennesima iniezione nelle casse di Big Pharma non è mai stata più pimpante. La Grande Cospirazione, ai loro occhi, è diventata gigantesca. Prima hanno minimizzato i pericoli del Covid19. Poi hanno criticato la quarantena. Infine si sono concentrati sulla loro ragione sociale, al grido di «preferisco morire per la malattia che per il vaccino». Ingigantendone i rischi e delegittimandolo preventivamente con fanta-argomenti. Li siamo andati a cercare.
Vaccini basta è un gruppo di Facebook dal titolo autoesplicativo. Ha oltre 28 mila follower. Il piatto forte, quando lo visito, è un post del 13 aprile che smaschererebbe la presunta («presunto» è un totem linguistico nell'universo complottista) letalità del virus. Citando molto liberamente un'intervista al presidente dell'Istat Gian Carlo Blangiardo Stefano Scoglio, titolare di un'azienda nutraceutica specializzata in «microalghe ciano-batteriche del lago Klamat>, conclude che i morti al nord sarebbero tanti, sì, ma l'anno prima quelli per malattie respiratorie erano stati di più. La rivelazione bomba però è un'altra: «La verità è che qui c'è un fenomeno limitato a Bergamo e Brescia, che non ha nulla a che fare col virus cinese, e probabilmente ha a che fare con quello che emerge anche dall'intervista dell'Avvenire che allego: i malati erano tutti vaccinati!!!». Ah, ecco. Non sono morti di coronavirus ma di vaccino. A scanso di equivoci nell'intervista menzionata di vaccini non si parla affatto. Scrivo agli amministratori del gruppo. Il primo risponde a breve, gentile, ma niente telefono né email: meglio la messaggistica di Facebook dove altre persone dello staff potranno intervenire. Quindi: anche loro aspettano la scoperta di un vaccino per la pandemia? «Ma che domanda è», obietta, dopo lungo pensamento, «è proprio sicuro che tutto il mondo lo attenda con ansia?». Contro-obietto che l'antico e rodato format delle interviste prevede che uno faccia le domande e l'altro dia le risposte.
Segue inutile confronto metodologico sin quando non irrompe un secondo attivista, più volitivo: «Egregio provocatore, ha sbagliato indirizzo! Ne usciremo come il MONDO è sempre uscito da altre epidemie e pandemie in cui NON ESISTEVA e NON ESISTE un vaccino immondizia!! Ignora forse un furbone come lei che x la SARS non si ebbe e NON SI È MAI potuto fare un vaccino?? Ignora un furbone come lei che la PESTE NERA non si fa quasi più vedere nonostante la INESISTENZA di vaccini?? Finto giornalista studentello??». Chiedo sommessamente quale sia la sua formazione per avere idee così chiare al riguardo. La risposta (va detto che lo scambio si è fatto più frizzante che con il primo letargico interlocutore) arriva in un baleno: «Certamente, mi chiamano il CASTIGADEMENTI». E poi vai di «lacché», «fenomeno foraggiato» e consigli di rivolgermi al «somaro massone» (Burioni, il loro nemico giurato). Il primo amministratore, eclissato dall'irruenza del secondo, riprende la parola rispondendo al come torneremo a uscire di casa: «In qualche modo si troverà una soluzione, ma un vaccino per un virus mutageno la vedo dura, se non impossibile, da realizzare». In qualche modo tipo? (Mutageno, per inciso, vuol dire che trasforma le cellule attaccate in tumorali, e non è il caso del Sars-COV2). «Non ho risposte a questa domanda. Però potrei consigliarle di girarla a Giulio Tarro, dell'università di Stanford».
Questo nome l'ho già incrociato. Una sua intervista recente (titolo: «Coronavirus non è Ebola, il vaccino non serve») campeggiava sul sito di Corvelva, che sta per Coordinamento Regionale Veneto per la Libertà delle Vaccinazioni ed è un punto di riferimento per i no-vax. Lo stesso Coordinamento che, a una mia richiesta di commenti, ha risposto «non abbiamo molto da raccontare sull’attualità visto che non siamo né dei politici in grado di dare risposte sulla gestione dell’emergenza, né uomini delle istituzioni che possono muovere una virgola rispetto ad essa». Salvo fare presente che «sarebbe stato apprezzabile, in qualità di giornalisti, averci contattati prima, mentre dei bambini sani venivano discriminati per un’ipotetica tutela della salute pubblica che proprio ora si rivela evidentemente fallace nei suoi presupposti». Tarro, dicevamo. Messinese ottantaduenne è stato un virologo di successo. Il momento che definisce la sua carriera è una borsa di studio vinta nel 1965 che lo porterà a studiare a Cincinnati con Albert Sabin, inventore del decisivo vaccino per la poliomelite. Tra le cose indubitabili di un curriculum meticolosamente documentato c'è che è stato a lungo primario di virologia dell'ospedale Cutugno di Napoli. Tra quelle un po' più sospette c'è la candidatura del 2015 al Nobel per la medicina (l'avrebbe proposto il Lions Club di Pompei, di cui è socio) e un altro riconoscimento magniloquente ma dall'attendibilità ballerina, ovvero quello di «miglior virologo dell'anno 2018» stando alla International Association of Top Professionals, una sorta di agenzia di pr newyorchese che seleziona professionisti ambiziosi da premiare in una serata di gala immortalata su youtube dai suoi stessi videomaker. Dunque il professore in pensione, che non ha mai insegnato a Stanford a dispetto dell'indicazione di Vaccini basta, è diventato un idolo dei no-vax anche grazie a 10 cose da sapere sui vaccini un saggio pubblicato due anni fa cavalcando l'onda della forte resistenza verso l'obbligo vaccinale imposto dal governo.
Il professore emerito è anche spesso interpellato da Gioia Locati, titolare di un blog sul sito del Giornale e punto di riferimento degli scettici della medicina ufficiale, compreso un innamoramento per il metodo Di Bella che le valse una sanzione da parte dell'Ordine dei giornalisti. «Far ammalare per testare i vaccini. È etico?» si chiede nel post del 12 aprile (il 5 febbraio aveva sorprendentemente trovato un epidemiologo della Sapienza, Stefano Petti, le cui dichiarazioni reggevano il titolo «Coronavirus: "Vi spiego perché l’isolamento è inutile"»). Locati, che racconta nella biografia online di aver superato un tumore al seno che l'ha «cambiata profondamente, ma non in peggio», è il volto rassicurante del movimento. Ha una laurea in filosofia. Non inveisce. Cita degli studi (unica bête noire lo spelling di Harvard, una volta Harward, l'altra Havard). Ma alla fine arriva, con molta più grazia, al solito punto: non fidatevi di quel che vi raccontano. Al professor Petti, la cui produzione scientifica è principalmente sulle malattie del cavo orale, parlando di Covid19, aveva chiesto: Quindi non è rischioso per le persone sane? Risposta: «No» E poi: Ma allora: tutto questo allarmismo? «È allarmismo, infatti». Infatti. Per arrivare al gran finale per cui «la vaccinazione, che si basa sul controllo di un singolo o a massimo tre o quattro microrganismi è un metodo primitivo di prevenzione delle malattie infettive».
Alla fine quello dei no-vax è un piccolo mondo dove tutti si conoscono. Scrivo alla riminese Comilve, il Coordinamento del movimento italiano per la libertà delle vaccinazioni, ma non mi rispondono. Nella sezione Ultime notizie del loro sito c'è però un articolo che segnala i rischi della corsa al vaccino («Non mancano i punti interrogativi, tra i quali emerge il fenomeno noto come Ade (Antibody Dependent Enhancement), ovvero il rischio di potenziamento della malattia indotto dal vaccino». Scrivo a Roberto Gava, medico padovano radiato dall'ordine per le sue posizioni no-vax ma che a quanto pare continua a lavorare: niente. Aggiorna però il suo sito con vari articoli sul tema del giorno, il primo dei quali metteva in guardia dal preoccuparsi troppo: «In questi giorni siamo sommersi da messaggi di grande allarme sanitario che, nelle persone carenti di competenze specifiche, diventa essenzialmente paura. La paura è origine di molti mali: diffidenze, divisioni, fughe, rinunce, reazioni emotive, contrasti, spese irrazionali e molto altro. Alla fine, la paura della malattia può essa stessa creare malattia». Scrivo anche a Eugenio Serravalle, pediatra pisano che i no-vax tengono in gran considerazione. A me non risponde. Su AssiS però, altro presidio telematico d'area scettica, sul coronavirus rassicura con questa considerazione: «Nessun virus che si trasmette per via aerea ha un alto grado di letalità, così come nessun virus con un alto grado di letalità si diffonde per via aerea o ha facilità a diffondersi». Ovviamente ho scritto invano anche al professor Tarro che in comune con Scoglio, l'esperto di alghe, avrebbe una candidatura al Nobel per la medicina nel 2018. Che non è niente male per uno che, da auto-curriculum social, ha studiato giurisprudenza a Urbino, scienze politiche a Miami, ricerca medica alla Middlesex di Londra e il dottorato a Toronto ce l'ha in filosofia politica.
Volevamo parlare, ci è toccato leggere. Compreso un'istruttiva cronaca di Fanpage su un popolare gruppo Facebook di no-vax campani. Con una mamma di una ragazza «ex-autistica» che ha paura del coronavirus ma ancor di più del fatto che il futuro vaccino le faccia tornare l'autismo. E giù un coro di no, non lo fare, «preferisco restare 2 mesi reclusa in casa fino a che l'ultimo caso scompaia dalla faccia della terra, e non portarla a inoculare un vaccino che nel 99% dei casi provoca effetti indesiderati». Ognuno ha diritto alle proprie convinzioni, ci mancherebbe. Quanto al mantra che la pandemia ci sta già cambiando, per il meglio, forse è il caso di frenare gli entusiasmi.
LUNA, LA MADRE DI TUTTE LE COSPIRAZIONI
Quelli che “mai stati sulla Luna”, dall’archivio del Venerdì. Un estratto:
La madre di tutte le cospirazioni è sempre incinta. Lo sbarco sulla Luna è un fatto che genera testacoda logici a ciclo continuo. Un altoforno che viene alimentato di sospetti, fattoidi tendenziosi e gigantesche paranoie da mezzo secolo a questa parte. Veniali, perché non puntavano a screditare, anzi goffamente ad accreditare, come l’orma pubblicata sul Messaggero all’indomani del 20 luglio 1969, che invece di essere di Neil Armstrong sul suolo lunare potrebbe appartenere a uno stivale da pescatore sulla sabbia di Ostia. Capitali, perché pretendevano invece di negare che fosse mai avvenuto, come We Never Went to the Moon: America’s Thirty Billion Dollar Swindle, il libro seminale del ‘76 di Bill Kaysing che divenne l’Omero della specialità. Fino a scoprire, e arriviamo a oggi, che il suo biografo è Albino Galuppini, il portavoce dei terrapiattisti italiani, sconcertato dall’ingenuità della domanda sul perché si sia interessato al personaggio: «Beh, andare sulla Luna era un disperato tentativo di dimostrare che la Terra fosse rotonda. Ma, ovviamente, nessuno ci ha mai messo piede». E il cerchio, per così dire, si chiude.
Il tema è il contrario di nuovo. Ma il fatto che the Moon Landing Hoax, la presunta bufala dello sbarco, lastrichi il web di seguitissime repliche di un originale vecchio di cinquant’anni rende il fenomeno ancora più seducente. Perché offre uno spaccato nella psiche collettiva (il 7 per cento degli americani ancora ci crede, stando a Gallup, circa 20 mila persone) al contempo polverizzando la puerile pretesa che la post-verità sia un’invenzione trumpiana. Prima di immergerci in un questo frizzante oceano di insensatezza, però, sbrighiamo la formalità dei capi di accusa. Sostengono i negazionisti che «il piccolo passo per l’uomo» non si sia mai posato sul nostro satellite più amato perché: la bandiera americana garriva ma sulla Luna non c’è vento; in cielo non c’erano stelle; le ombre di capsula e astronauti non tornavano; la temperatura avrebbe liquefatto qualsiasi pellicola; i razzi non avevano abbastanza forza per portare la capsule in orbita e decine di altre presunte incongruenze che si metastatizzano in altrettante anomalie in una vertigine di sfiducia sempre più patologica. Per le obiezioni, puntuali, basta la pagina di wikipedia o, come mi suggerisce l’esperto Andrew Chaikin, una vecchia e disadorna pagina a cui la stessa Nasa, stremata da troppi infruttuosi tentativi chiarificatori in proprio, linkava per smontare le fandonia (www.badastronomy.com/bad/tv/foxapollo.html). «Dico solo che la bandiera sta su perché a reggerla avevano messo un’asticella orizzontale e che le stelle non si vedono perché le macchine fotografiche erano regolate per la luce diurna» liquida Paolo Attivissimo, noto debunker di bufale d’ogni ordine e grado con una passione speciale per l’astronomia nonché traduttore-collaboratore della Nasa. La ragione più profonda, spiega, è che «la popolazione non era preparata. Si era passati dal primo volo, sessantasei anni prima, ad andare sulla Luna. Un salto oggettivamente portentoso. Aggiungete le immagini sgranate, in bianco e nero, e si intuisce l’origine dell’incredulità. Per non dire che c’è sempre una percentuale fisiologica, direi del 6-7 per cento, di gente che tende a non credere ad alcuna versione ufficiale. D’altronde, stando a vari sondaggi, un americano su cinque crede alle streghe». Sui tipi umani più inclini a essere boccaloni ho chiesto però alla psicologa Rob Brotherton, autrice di Menti sospettose (Bollati Boringhieri): «Da una parte gioca la personalità, il desiderio di sostenere posizioni non ortodosse che sfidano il mainstream e che ti danno una patente di pensatore originale. Dall’altra capacità cognitive più basse, che ti portano a vedere disegni preordinati laddove c’è solo una casualità. Insieme questi due elementi forniscono un’illusione di comprensione, ovvero la tendenza a sovrastimare il poco che si sa rispetto al tanto che non sappiamo». Miscela esplosiva e diffusissima.
TRASCRIVERE DIVENTA FACILE
L’ultima Galapagos:
La tecnologia vive di promesse. Spesso avventate. Alla fine dell'anno scorso DeepL, il celebre servizio di traduzioni, annunciava come imminente una sorta di traduttore universale di cui, da allora, si sono perse le tracce. I giornali ne avevano scritto, io ero anche andato a intervistarli e prima o poi il frutto di quell'indagine uscirà sul nostro giornale. Però stavolta – e mi rendo conto che anche questa è una formula inflazionata – con MacWhisper è diverso. Parliamo, com'è già capitato in questa rubrica, di un software per trascrivere in automatico. Che però funziona molto bene e, a differenza dei servizi in circolazione, è gratis (almeno nella sua versione non professionale, che ha una resa migliore perché usa modelli linguistici più sofisticati, i cui costi sono comunque molto contenuti). Il limite, come il nome suggerisce, è che funziona solo su Mac o su iPhone. E su modelli ragionevolmente recenti. In altre parole, né sul mio XR né sul fisso di casa che ha un sistema operativo 10.13 (il che mi ha fatto capire che urge un rinnovo del parco macchine). Ma ho visto MacWhisper all'opera su un telefono altrui. Lavora su oltre 100 lingue. Mi sembra una svolta, ma di quelle vere.