#147 Tesla, scontro di civiltà in Svezia
1) Un piccolo sciopero che rischia di fare scuola 2) la vittoria del sindacato su Amazon, in America 3) tutti contro tutti tra le sigle della logistica 4) lo psicodramma di OpenAI
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Prologo
Se c’è una lezione da questi pezzi – e dagli scioperi dell’automotive americana di 46 giorni – è forse che, se si vuole ottenere qualcosa, lo sciopero di un giorno, à la Cgil, non serve assolutamente a niente. Bisogna prepararsi a lottare a oltranza, altrimenti è inutile.
UN PICCOLO GRANDE SCIOPERO
Sono andato a Malmö, in Svezia, per raccontare un piccolo sciopero dalle potenziali conseguenze globali: quello dei meccanici Tesla. In Svezia il 90 per cento dei lavoratori è coperto da un contratto collettivo e Musk non lo vuole assolutamente firmare. IF Metall, la Fiom Locale, ha detto basta: da quasi 7 mesi paga gli stipendi maggiorati agli scioperanti e dice di aver soldi per andare avanti “500 anni”. Intanto a Berlino, dove c’è una vera fabbrica Tesla, i lavoratori stanno prendendo appunti. E anche se Musk dice che va tutto bene, in realtà teme il contagio. Sarà interessante capire come finirà. Intanto abbiamo racocntato come è iniziata e come procede. Qui sotto, l’inizio del reportage:
MALMÖ (Svezia). Prima hanno tolto le sedie, perché sul lavoro non si tira il fiato. Poi hanno proibito il barbeque del venerdì perché men che meno è ammesso divertirsi, foss’anche in pausa pranzo. Quindi hanno abolito gli aumenti salariali per chi avesse avuto da ridire su qualcosa, perché così veniva a mancare il “positive impact”, l’attitudine positiva, quel perma-sorriso di solito richiesto alle hostess ma non ai meccanici specializzati quando fanno notare che certi ritmi sono insostenibili. E così, a forza di sottrazioni, dei quindici originari a lavorare sono rimasti in due, perché qualcuno ha lasciato e gli altri da sette mesi sono in sciopero. Da allora, ogni giorno feriale, si danno il turno qui, a fare presenza su seggioline da campo davanti all’officina autorizzata Tesla dove fino al 27 ottobre scorso avevano lavorato con legittimo orgoglio.
Un picchetto silenzioso che non è tecnicamente un picchetto, perché non ostruisce né disturba in alcun modo l’ingresso ai crumiri aviotrasportati da mezza Europa. Addirittura con i colleghi ancora in servizio, compreso il supervisore dell’officina che si ferma con la schiscetta di salmone e riso, che salutano e scambiano imbarazzate battute. Una “cosa” che sindacalmente è intraducibile in italiano. Sia perché è la muta incarnazione del radicale dissenso a giocare secondo le regole del più ricco e prepotente capitalista del pianeta che non vuol firmare uno dei contratti collettivi che da un secolo egregiamente proteggono nove lavoratori svedesi su dieci. Ma anche perché dura da duecento giorni e, alla faccia di Elon Musk che apotropaicamente twitta “la tempesta è passata”, non ha alcuna intenzione di finire. Né presto né tardi, a dar credito alla baldanzosa dichiarazione in cui Veli-Pekka Säikkälä, il negoziatore del fronte sindacale, assicura che hanno risorse economiche per pagare gli stipendi, addirittura maggiorati, dei lavoratori in protesta (altra significativa differenza con le usanze nostrane) «probabilmente per 500 anni». È un piccolo sciopero per il numero di lavoratori coinvolti ma potrebbe diventare un grande balzo avanti nelle relazioni industriali della più renitente tra le aziende, disposta a fare di tutto perché non diventi un precedente. Preparate i popcorn.PIÙ DIRITTI CHE SOLDI
Prima di conoscere qualche irriducibile e i loro rappresentanti sindacali, un po’ di contesto. Tesla ha fabbriche solo in America, Cina e in Germania. Si dà il caso però che le sue auto elettriche nella terra di Greta Thunberg, dove una forte sensibilità ambientalista si unisce a un alto potere d’acquisto, vadan via come il pane. L’anno scorso, nonostante i quasi 60 mila euro da listino, la Model Y è stata la macchina più venduta. Quindi servono officine specializzate. Se ne contano otto che, oltre a un discreto numero di amministrativi, impiegano 130 meccanici. Un terzo dei quali, a un certo punto, ha attaccato la tuta al chiodo e non l’ha ancora rimessa. Perché Musk, sin dal suo arrivo nel 2013, ha escluso di sottostare a qualsiasi contratto collettivo. Non è tanto un problema di soldi: oltre ai 3000 euro, più o meno il livello base dell’accordo nazionale, un operaio prende anche stock option che possono farlo lievitare un bel po’, a patto che le azioni Tesla non scendano come hanno fatto negli ultimi mesi. È un problema di diritti, che qui prendono terribilmente sul serio. Niente scatti annuali automatici da circa 100 euro al mese. Niente tutele contro licenziamenti arbitrari, in un momento in cui Tesla ha annunciato una sforbiciata del 10 per cento negli organici mondiali e ha fatto fuori, da un giorno all’altro perché insoddisfatti delle performance, i 500 membri che lavoravano sui supercaricatori. Niente garanzie, insomma, contro i colpi di testa di un datore di lavoro che, sarà il carattere o la ketamina di cui fa uso, scapoccia spesso e volentieri.Così, dopo anni di vani negoziati e di contemporanea organizzazione dei lavoratori, la IF Metall, il principale sindacato dei metalmeccanici del Paese, ha deciso che non c’era alternativa al battere un colpo. Praticamente da subito altri lavoratori, e altre sigle, si sono uniti alla lotta. I portuali si sono rifiutati di far sbarcare dalle navi le Tesla in arrivo dall’America. I postini hanno cominciato a non consegnare più le targhe che dalla motorizzazione erano indirizzate alle officine. Gli spazzini non pulivano più nei loro dintorni. E così via, un sympathy strike via l’altro, in un contagio di solidarietà sindacale che non si vedeva da tempo. Più esattamente dal 1995 quando, di fronte alla renitenza di Toy ‘r Us di piegarsi alla civiltà svedese dei contratti collettivi, uno sciopero durato quattro mesi aveva ricondotto la multinazionale americana a più miti consigli. Finirà così anche stavolta? Non è detto.
IL GANGSTA-RAPPER CHE HA SCONFITTO AMAZON
L’anno scorso invece ero andato a Staten Island, New York, per raccontare un’altra storia di lotte per il lavoro che aveva fatto storia. Ovvero l’entrata del primo sindacato in un magazzino Amazon in America. L’autore dell’exploit è Chris Smalls, un ragazzone che voleva fare il cantante hip-hop e che è diventato sindacalista. Un estratto:
Staten island (New York). Immaginatevi una riunione nella casa discografica di un rapper. A capotavola c’è la star, cinque anelli d’oro alle dita, grandi come monete da un quarto di dollaro, un bracciale Versace e un altro con decorazioni ellenizzanti, più una collana a forma di denti di leone, tutto 14 carat gold, meno prezioso ma più giallo, come piace ai ragazzi del ghetto. Immaginatevi Landini vestito come Sfera Ebbasta o Salmo, se potete, perché è così che va in giro Chris Smalls, la stella che illumina quest’anonima stanza in una palazzina che ospita anche un laboratorio di urologia in quella terra desolata che è Staten Island. Unico vantaggio: essere a sette minuti d’auto dal JFK8, il primo magazzino Amazon d’America in cui un sindacato sia mai riuscito a entrare. Più precisamente l’Amazon Labor Union (Alu) che Smalls ha fondato nell’aprile del 2021, un anno dopo il suo licenziamento e uno prima dall’apertura della storica crepa aperta nel quasi trentennale carapace cresciuto intorno al gigante del commercio elettronico. Il tutto senza alcuna esperienza pregressa nell’organizzazione di battaglie per i lavoratori, nella più totale assenza di collaborazione da parte dei sindacati tradizionali o da forze politiche istituzionali, gli uni e le altre poi rimasti attoniti davanti allo specchio a ripetere un unico, assillante interrogativo: com’è stato possibile?
È la domanda che, oggi, gli rivolgono tutti. Perché Amazon, che solo l’anno prima aveva speso 4,3 milioni di dollari per reclutare consulenti specializzati nel dissuadere i magazzinieri dall’iscriversi a qualsivoglia associazione, era rimasta l’ultima, inespugnabile Stalingrado tra le corporations statunitensi. Fin quando questo trentaduenne del New Jersey, figlio di un’infermiera e di un padre che ha visto essenzialmente da dietro al vetro delle visite in carcere, non ha trovato la formula magica che ora in tanti vorrebbero replicare. Glielo chiedo anch’io mentre sembra decisamente più interessato a recuperare un biglietto di treno per Philadelphia, dove dovrà andare a parlare ad altri attivisti, che a esaudire le curiosità del cronista straniero.
Per qualche anno ha provato davvero a diventare qualcuno nel mondo dell’hip-hop. Poi gli sono nati due figli da un matrimonio precoce e ha cercato un lavoro meno aleatorio, nel settore più in turbo-espansione: la logistica. Dopo un paio di esperienze particolarmente infelici è passato ad Amazon. E gli è piaciuto. Superando in scioltezza la media di 250 merci che l’algoritmo si aspetta che un picker raccolga all’ora, l’hanno promosso supervisor. Ricorda: «Controllavo un gruppo di circa 500 persone. Lavoravamo duro ma in armonia. Poi, quando col Covid siamo diventati migliaia, e da 250 la soglia è stata portata a 400, l’atmosfera è cambiata e tutto è andato in frantumi. A quel punto non importava più quanto comode fossero le scarpe che usavi per trottare, perché alla fine diventavano tutte dei mattoni».
Lo strappo avviene quando un superiore lo convoca per dirgli che, nella sua squadra, c’è stato un tampone positivo ma meglio far finta di niente per non bloccare la produzione. Chris non ci sta. Si consulta con quattro amici e decidono di chiedere all’azienda di sanificare i locali e mandare i lavoratori a casa, in congedo pagato per due settimane. Il superiore mette invece lui in quarantena. A quel punto Chris chiama il New York Post per avvertire che il lunedì successivo un centinaio di persone avrebbe protestato per la prima volta davanti allo stabilimento. Cento persone, in una fabbrica dove di solito nessuno fiata, è un’asticella alta. Ma c’è il trucco: per quel giorno il meteo prevede bel tempo e quindi, tra i due turni all’ora di pranzo ci sarà comunque un sacco di gente nel parcheggio. Oltre a lui e agli altri fedelissimi per mantenere la promessa fatta ai giornalisti. La protesta, riuscita, è appena terminata quando riceve comunicazione del licenziamento per avere interrotto senza giustificazione la quarantena imposta. Ops.
IL SINDACATO COME SPORT ESTREMO
In Italia invece i sindacati, anche quando hanno davanti avversari fortissimi, si prendono a roncolate. Me ne sono reso conto dopo qualche giorno passato con loro, qualche anno fa, nel piacentino che è l’epicentro nazionale della logistica. Un estratto:
Piacenza. Il titolo di lavoro di questo articolo, a un certo punto, mi ha tagliato la strada manifestandosi sulla fiancata di un camion che rientrava alla base: «O così. O Pomì». Immaginate la scena. Ora di pranzo, 35 gradi che bruciano come 50, nello spiazzo davanti al Consorzio Casalasca di Rivarolo del Re, una grande fabbrica in mezzo al niente. Dove si lavora il pomodoro, l’”oro rosso” di Piacenza, un’ora a ovest da qui. Da stamattina presto seguo Roberto Montanari, dell’Unione sindacale di base (Usb), nei suoi incontri con addetti della logistica – magazzini, movimentazione, consegne – vera specialità di queste terre. È venuto a incontrare una decina di lavoratori, tutti africani, addetti alla pulizia delle centinaia di fusti impilati nel piazzale antistante lo stabilimento dove la polpa viene lavorata. Adesso che la cooperativa Mondial Work ha chiuso denunciano che da anni le loro buste paga segnano 4 ore quando in realtà ne lavoravano 8 o 12. Peccato che i contributi si calcolino solo sulle ore dichiarate. Malattia non pervenuta. Sotto inquadrati. Se vi sta bene è così, altrimenti altri proletari (nove su dieci stranieri, quindi ricattabili perché senza contratto salta anche il permesso di soggiorno) prenderanno il vostro posto «O così. O Pomì», insomma. Almeno fin quando qualcuno armato di machete prova a disboscare una giungla giuslavoristica fatta di finte cooperative, Iva evasa per milioni di euro, caporali e banditi vari da affrontare a brutto muso. Con una conflittualità che ormai tracima anche nei rapporti tra sigle. Con la Cgil in affanno che stigmatizza i modi duri dei sindacati di base. I Si (leggi: sindacato intercategoriale) Cobas in gran spolvero che danno dei venduti alla Cgil. E l’Usb che accusa i Si Cobas di difendere solo i propri iscritti. Il tutto tra audio imbarazzanti registrati di soppiatto, accuse di arricchimenti personali, minacce a mano armata di cutter. Il sindacato come sport estremo.
Sono perfettamente consapevole che questo pezzo scontenterà tutti gli intervistati. Tanti. Troppi. Tre giorni intensissimi tra tecnicalità e una gragnuola di accuse incrociate impossibili da verificare fino in fondo. Montanari è un ex dirigente regionale di Rifondazione Comunista in pensione. A pranzo mi parla della cause célèbre recente, la chiusura dello stabilimento Tnt di Piacenza da parte della casa madre Fedex: «È semplice: chiudendo han potuto sbarazzarsi in un colpo solo di gente che guadagnava 26 mila euro lordi all’anno per rimpiazzarli, in caso di riapertura, con altri che ne prenderanno si e no 16 mila». Ovvero il comportamento tipico delle cooperative che ogni due anni chiudono per riaprire sotto altro nome e con una forza lavoro riverginata, con zero scatti di anzianità e condizioni da ricontrattare da capo. Però adottato da una multinazionale di Memphis. Ma sul caso Tnt, che ha lasciato 300 persone a casa, torneremo più tardi. Nata nel 2010 l’Usb è cresciuta parecchio (in città ha due delegati per circa 2000 iscritti) e di recente ha strappato i camalli di Genova alla Cgil. Sostiene Montanari che servirebbe un codice degli appalti privati per evitare le mostruose catene di subfornitori. E che i blocchi stradali siano diventati una tattica proibitiva perché il salviniano decreto sicurezza l’ha ripenalizzati con una sanzione fino a 12 anni di reclusione.
OPENAI, LO PSICODRAMMA È SOLO AGLI INIZI
L’ultima Galapagos:
Chi l'avrebbe detto che l'anemico Sam Altman avrebbe causato quasi tante polemiche quanto il sanguigno Elon Musk? La strada è ancora lunga, ma la rincorsa accelera. E lo psicodramma sulle "vere" intenzioni del co-fondatore di OpenAI, l'azienda che ci ha dato ChatGPT, è solo alla prima stagione. Riassunto delle puntate precedenti. Novembre 2023: un golpe interno disarciona Altman dalla guida dell'azienda. L'accusa: non ci possiamo fidare. Passano pochi giorni e Altman viene rimesso al suo posto e alcuni dei cospiratori cacciati. Nel frattempo lui stesso, in un'audizione al Senato, aveva parlato di "rischi esistenziali" se l'IA generativa non fosse stata in qualche modo regolata. Vien da dire: ma se è una cosa così pericolosa, perché la state costruendo? Una cosa è sviluppare l'atomica per vincere i nazifascisti, altra è creare una tecnologia che, semplificando parecchio, moltiplica la nostra produttività nel frattempo rendendo inutili un certo numero di noi. Avanti rapido. Altman è così preoccupato dai rischi della sua creatura che… smantella l'unità che si occupa della sicurezza. Due ex-membri del consiglio di amministrazione spiegano perché è impensabile che aziende come quelle possano regolarsi da sole. Sullo stesso numero dell'Economist l'economista Larry Summers, che da consulente di Clinton fu uno dei principali responsabili delle liberalizzazioni finanziarie che hanno portato alla crisi dei subprime e oggi lavora per OpenAI, risponde che no, va tutto bene così. Ma chi ha ragione, l'Altman-1, quello che parla di rischi per l'intera umanità, o l'Altman-2 che sbaracca la divisione che dovrebbe mettere dei paletti? Al Festival dell'economia internazionale di Torino l'ho chiesto a Barbara Caputo del Politecnico di Torino che ha puntualizzato: «Altman non è uno che fa l'IA. La sua reazione è emotiva». Sono in disaccordo su entrambi i punti. Mentre Diletta Huyskes, del Privacy Network, propende per una strategia di marketing del tipo: «Più esageriamo i rischi, più ribadiamo quanto siamo importanti». Prepariamoci alla seconda stagione.
Epilogo
A Gaza il massacro continua indisturbato. Siamo a 36 mila morti. Biden continua a fare la voce grossa ma non stacca la spina. Ieri in un bombardamento dell’esercito israeliano su una scuola dell’Onu sono morti 33 palestinesi, compreso il sindaco di Nuseirat. Intanto a Gerusalemme i ministri più fanatici di Netanyahu parlano dal cuore: niente accordo, riprendiamoci Gaza.