#141 Stati disuniti d'America
1) Immaginate una guerra civile (per il momento, al cinema) 2) Lavender, l'IA che uccide anche le persone sbagliate
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QUANDO LA REALTÀ SUPER LA FINZIONE
Qualche settimana fa mi hanno mandato a vedere questo film. Una distopia terribilmente realistica. L’articolo l’abbiamo pubblicato sull’ultimo Venerdì.
C'è un assembramento di persone in fila per l’acqua. La distribuiscono con camion-silos perché quella del rubinetto, a quanto pare, non è più potabile. L’attesa è febbrile. La polizia stenta a tenere a bada gli assetati. Pochi secondi dopo da quando una tipa si stacca dal mucchio brandendo una bandiera c’è un’esplosione assordante. Tanti morti. Corpi mutilati. Sangue dappertutto. Sembra la tragica fila per la farina a Gaza ma la bandiera è a stelle e strisce e, sullo sfondo, si vede l’Empire State Building. È una delle prime scene di Civil War, che sarebbe un film (in sala dal 18 aprile) ma ti lascia con la perturbante sensazione di essere un documentario ambientato in un domani molto prossimo. Praticamente il sequel dell’assalto a Capitol Hill di tre anni fa. Il regista britannico Alex Garland ha fatto del suo meglio per dire che no, accostamenti meccanici con il presente e con le prossime elezioni presidenziali sono sbagliati. Per confondere le acque ha addirittura immaginato che il Fronte Occidentale, che ha trasformato il Paese in un campo di battaglia per ottenere l’indipendenza da Washington, tenga insieme il repubblicano Texas con la democratica California. Non si capisce se il presidente assediato dentro la Casa Bianca sia di destra o di sinistra. Però l’eco di un bis trumpiano nei sempre più disuniti stati d’America si sente forte e chiaro. E riattizza un interrogativo con il quale, da qualche anno, i commentatori politici americani fanno i conti sul serio: quanto è verosimile una seconda guerra civile?
Ma prima il film. Gran bel film, potente e disturbante. Trama minima. Tra le rovine fumanti di una nazione dilaniata, una navigata fotoreporter (Kirsten Dunst) decide con un collega che l’unica storia che valga davvero la pena di raccontare sarebbe un’intervista al presidente. Loro stanno a New York e devono fare milletrecento chilometri decisamente rischiosi per arrivare a Washington. Si aggrega all’avventura un vecchio cronista in cerca di un degno canto del cigno e una giovanissima aspirante fotografa (Cailee Spaeny). Come da drammaturgia classica il “viaggio dell’eroe” è costellato di ostacoli. Una delle scene clou è quella di una fossa comune ricolma di morti in cui alcuni miliziani vorrebbero far finire anche i nostri impavidi colleghi a cui, nel frattempo, si sono uniti anche due giornalisti asiatici. La specificazione etnica è importante perché il perverso miliziano (uno strepitoso Jesse Plemons in mimetica e occhiali rossi a forma di cuore) domanda loro «Che tipo di americani siete?» e quando uno risponde che è nato a Hong Kong («Ah, cinese») si aggiudica una bella mitragliata in faccia. Rinfaccio a Garland che, proprio in quel momento, il travestimento ideologico in cui si è tanto impegnato mostra la corda: «È una domanda da nativista, suprematista bianco, fan trumpiano, nessun democratico la farebbe: non crede?». E lui concede: «La risposta breve è “sì, ha ragione”. Quella più lunga è che quel tipo di pericolosa polarizzazione sta avvenendo dappertutto. Quando incontro persone nella vita di tutti i giorni è ancora possibile avere scambi civili mentre nel discorso pubblico lo è sempre di meno. Credo che il singolo principale responsabile siano stati i social media che hanno acuito le differenze mentre i media tradizionali hanno perso il ruolo aggregante di una volta. Io però non volevo contribuire a questa tendenza facendo un film accusatorio, urlato e quindi ho provato a staccarlo dal dibattito corrente». Però gli eserciti privati che si vedono sullo schermo non potrebbero esistere in Europa ma solo in un Paese che ha più armi che abitanti, no? «Forse non in Europa, ma l’estremismo è in crescita ovunque. E non servono necessariamente mitragliatrici per fare carneficine, come ci insegna la Cambogia o il Ruanda». Sta di fatto che i cecchini, i tank e gli elicotteri nel film portano lo scontro a un livello superiore, immensamente più efficiente. Nonché scenografico. Full Metal Jacket con, al posto delle risaie, un abbandonato JC Penney, che è l’equivalente americano dell’Ovs.
E ora digressione sulla vita vera, perché è a quella che questo road movie altamente adrenalinico costringe a pensare. Da quando Trump è apparso sulla scena politica l’eventualità secessionista è stata ampiamente sdoganata. Alcuni sintomi, selezionati da un’ampia rassegna stampa degli ultimi cinque anni. Il titolo del Washington Post, correva il 2019, “In America il dibattito è su qualcosa di cui non si parlava da 150 anni: la guerra civile”. Il deputato repubblicano dell’Iowa Steve King che serenamente avvertiva che gli stati rossi (repubblicani) hanno «8 trilioni di munizioni» in caso di guerra civile. Il sondaggio Rasmussen Reports, sempre estate 2019, per cui quasi un terzo di elettori trovava “probabile una seconda guerra civile nei prossimi 5 anni”. La circostanza che il 36 per cento dei soldati in servizio abbiano testimoniato episodi di suprematismo ariano o altre ideologie razziste nelle loro file, stando al Military Times. La decisione dell’Fbi di non inserire più sospetti suprematisti nelle watchlist, sotto osservazione, per evitare che la polizia, che ne sarebbe infiltrata, potesse coprire i suoi eventuali amici. Il raddoppio delle minacce contro membri del Congresso, dopo il 6 gennaio 2021. L’aumento di milizie che si addestrano in preparazione della caduta della repubblica. E tutto questo, giurano storici ed esperti di terrorismo domestico, non può che peggiorare avvicinandosi all’Election Day. Sino al libro How Civil Wars Start della politologa Barbara Walter che, argomentando dal passato lancia un allarme sul presente. D’altronde, a chi le liquida come “esagerazioni”, va forse ricordato che anche nel 1861 nessuno aveva visto arrivare la prima se lo stesso senatore schiavista James Chestnut, con enormi responsabilità nella carneficina, aveva promesso di bere tutto il sangue versato nel conflitto convinto che, al più, avrebbe «riempito un ditale». Tranne dover aggiornare la contabilità a 600 mila morti in quattro anni di macelleria americana. Questo per dire, con le parole di Mark Twain, che la storia non si ripete ma spesso fa rima.
Ma torniamo alla fiction. Nel ruolo degli eroi, ancorché molto poco sentimentali, i giornalisti. Quando l’aspirante fotoreporter chiede alla veterana «cosa faresti se mi sparassero?» quella, senza batter ciglio, confessa che la prima preoccupazione sarebbe di scattarle una foto. Zero empatia è la conseguenza, o parte della causa, dell’orrore cui assistiamo in sala? «Non direi zero, tant’è che a un certo punto anche Lee crolla. Ma è vero che i giornalisti, che conosco da vicino per esserne figlio e nipote, vivono spesso in una specie di dissonanza cognitiva di persone che devono registrare i fatti ma ne sono anche coinvolti». Ecco Lee, davanti a due esseri umani torturati e appesi ma ancora vivi, dice proprio «Noi registriamo gli eventi affinché qualcun altro possa porsi le domande». Mentre Joan Didion insegnava che non poteva essere obiettiva perché non era una macchina fotografica ma un essere umano. «E aveva ragione, certo, però Didion, Bbc e Fox News si collocano in punti molto diversi della scala della commistione tra opinioni e fatti. A me sembra che, per motivi commerciali dovuti alla concorrenza dei social, anche i grandi media, invece di sforzarsi per quanto è umanamente possibile di essere bilanciati e non alimentare l’estremismo, abbiano abbracciato i pregiudizi del loro pubblico, pensando così di fidelizzarlo e capitalizzare con la pubblicità. Il risultato è sotto gli occhi di tutti». Fino al grandioso crescendo finale, che non abbiamo cuore di spoilerare.
LAVENDER, L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE CHE UCCIDE. TROPPO
L’ultima Galapagos:
Quelli che gongolano, e sono legioni, a ogni errore dell'intelligenza artificiale oggi hanno una cause célèbre da citare: il caso Lavanda. Lavender è infatti, così come hanno svelato i media israeliani +972 Magazine e Local Call, il nome del progetto di IA a servizio delle Israeli Defence Forces. Ovvero il programma che, in totale autonomia, aveva etichettato 37 mila palestinesi come variamente associati ad Hamas o alla Jihad Islamica, includendoli in una kill list sulla base della quale l'esercito ha compiuto molti dei suoi attacchi. Pur sapendo che il sistema sbagliava più o meno nel 10 per cento dei casi.
Soprattutto nelle prime settimane, a quanto rivelano i giornalisti che hanno parlato con almeno sei ufficiali dell'intelligence che avevano a che fare col progetto, i soldati si sono fidati quasi ciecamente (la verifica del potenziale bersaglio, prima di autorizzare il fuoco, durava il più delle volte una ventina di secondi: l'importante è che fosse maschio) delle indicazioni di Lavender. E hanno bombardato le case dei sospetti, generalmente di notte, quando erano a casa, fatalmente uccidendo donne, bambini, spesso famiglie intere. Come tutti sanno, o dovrebbero sapere, l'intelligenza artificiale sbaglia ancora spesso e volentieri. Nel caso di quella generativa gli errori vengono chiamati "allucinazioni" tanto possono essere giganteschi, fuori bersaglio. Mai gergo si è rivelato tanto appropriato.
Epilogo
Mentre la prospettiva di una Terza guerra mondiale si fa sempre meno inverosimile, sul fronte privato registro una terribile notizia. È morta Fiorenza Marrara, mia fidanzata dei tempi dell’università. Una donna intelligentissima con una malattia rara, senza diagnosi certa, per cui aveva dovuto dimettersi anzitempo dalla magistratura. Avrebbe meritato più felicità. È un giorno tristissimo.