#134 Salvare Assange
A giorni si decide sulla sua estradizione, quindi della sua vita. I giornali dovrebbero mettere la storia in prima pagina per fare pressione affinché non avvenga: per ora non è successo
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Prologo
Nei prossimi giorni una corte britannica deciderà sull’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti. Il suo reato è di aver rivelato cose vere, importanti, gravi, che senza di lui non si sarebbero sapute. Di fatto è reo di aver rubato il lavoro ai giornalisti. È forse per questa appropriazione indebita, quindi, che i giornali di tutto il mondo non mettono in prima pagina questa storia per scongiurare che l’estradizione avvenga?
CRONACA DI UNA PERSECUZIONE
Ad aprile dell’anno scorso sul Venerdí avevamo intervistato l’ex relatore speciale Onu sulla tortura che si era occupato del caso. Qui l’integrale di quella, almeno per me, illuminante conversazione:
Abbiamo tutti un’idea un po’ appiccicaticcia di Julian Assange. È così per molti personaggi pubblici, ma per lui di più. Anche chi era partito simpatizzante ha virato presto verso la critica. “Sì, però c’era una storia di stupri che non si capiva bene”; “Ma non aveva messo in pericolo un sacco di innocenti con le sue rivelazioni?” e via mascariando. Parlando di lui, immancabilmente, saltano fuori le avversative. Cementate dalla possente macchina comunicativa del dipartimento di Stato statunitense e da media che, per ragioni probabilmente afferenti a una profonda ferita narcisistica (chi è quest’informatico che ci ruba la scena?), non sempre hanno avuto voglia di verificare ed eventualmente smontare la narrazione ufficiale. Sta di fatto che, dopo sei anni chiuso in un’ambasciata (dove il concetto chiave è il primo, impossibilità di uscire, non il secondo, belle sale per feste dell’ambasciatore) e oltre tre in un quasi totale isolamento a Belmarsh, la Guantanamo britannica, ancora oggi se chiedi in giro tornano a galla i “ma” e i “però” e non la drammatica sproporzione della pena per uno che, se vai all’essenziale, ha pubblicato cose gravi e vere che hanno molto imbarazzato l’America.
A ripulire questo dibattito fortemento inquinato da incrociate ragioni di Stato ci ha provato Nils Melzer, ex relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura e oggi al vertice di un’importante organizzazione internazionale che, a riprova di quanto ancora sia radioattivo il tema di cui ci occupiamo, ci ha pregato di non nominare. E lo ha fatto, al termine di lunghi e sempre più frustranti tentativi istituzionali, in Il processo a Julian Assange. Storia di una persecuzione (Fazi editore), una poderosa ricostruzione che ha definito «la continuazione della diplomazia con altri mezzi».A fine 2018 gli avvocati di Assange scrivono al suo ufficio ma lei stesso, confessa, ha resistenze: perché occuparsi di questa figura così discussa? Resistenze di cui, due anni di inchieste e diecimila documenti dopo, non resta traccia. Partiamo dall’accusa di aver messo in pericolo innocenti…
«Risale agli esordi di WikiLeaks, la piattaforma che lui crea per rendere pubblici documenti segreti. Dopo Collateral Murder, il video in cui soldati americani su un elicottero, tra battute e risate, sparano prima su civili scambiati per guerriglieri e poi su altri che soccorrono i feriti, nel luglio 2010 pubblica i “diari afgani” con informazioni riservate sulle operazioni Usa. Oscurando però una quantità di passaggi che, appunto, potrebbero mettere a rischio persone sul terreno. Saranno la tedesca Der Freitag e due giornalisti del Guardian a pubblicarli nella loro interezza, senza esser stati perseguiti per aver fatto il proprio mestiere. Solo un anno dopo Assange pubblicherà l’integrale. In ogni caso gli Stati Uniti non hanno mai fornito alcuna prova che qualcuno sia stato messo in pericolo per quelle rivelazioni. Anzi, l’allora vice-presidente Joe Biden disse che non avevano causato “alcun danno sostanziale”. Eppure l’argomento ha continuato imperterrito a circolare».Veniamo all’altra accusa infamante, quella di ben due donne svedesi che avrebbero iniziato rapporti sessuali con Assange tranne denunciarlo per violenza sessuale per una speciosa riluttanza a indossare il preservativo. Come stanno le cose?
«Questo ovviamente lo sanno solo i protagonisti. So però come sono andate le cose processuali. Ovvero che in ben cinque anni di indagini preliminari i procuratori svedesi non sono riusciti a incriminare Assange e hanno poi volontariamente chiuso il caso. E che lui, da Londra, non è voluto tornare in Svezia a farsi interrogare solo perché Stoccolma non garantiva il non refoulement, la non estradizione in quella stessa America che più tardi l’avrebbe condannato in absentia a 175 anni di carcere. Quanto al suo Dna per le indagini, l’aveva dato agli inglesi ma gli inquirenti svedesi non ne han voluto sapere. È sembrato insomma che l’interminabile vicenda processuale servisse a tenerlo sulla graticola piuttosto che ad appurare la verità che a quelle donne era dovuta e a cui i pm, una volta entrato Assange in una prigione britannica, hanno rinunciato».Da qui guardiamo sempre ai Paesi scandinavi come esempi di moralità pubblica. Invece dal libro parrebbe che anche loro sono succubi di giochi di potere più grandi…
«È stata una gran delusione anche per me. Diffidiamo sempre dei soliti sospetti e invece anche gli Stati più civilizzati sono pronti a negare la realtà quando in ballo c’è la loro reputazione democratica. Questo caso è così importante, ben oltre il suo protagonista, perché mostra un fallimento sistemico nel funzionamento di Stati Uniti, Gran Bretagna, Ecuador e Svezia che hanno tranquillamente sacrificato un uomo a una lezione universale: “con noi non si scherza”».L’Ecuador però era stato coraggioso nel concedergli rifugio e dargli la cittadinanza. Poi cos’è successo?
«Che è cambiato il presidente, ne è arrivato uno molto più filo-Usa e in ballo c’era un prestito da oltre quattro miliardi di dollari da parte del Fmi dove gli americani hanno potere di veto. Anche intorno alla permanenza nell’ambasciata sono nate leggende. Tipo che Assange se la spassasse, tra skateboard, ospiti e, da buon ingrato, facendo lo schizzinoso sul cibo e lordando di feci le pareti. Lo stesso tabloid che lo sosteneva però non ha potuto pubblicare altro che la foto di un bagno lindo. Sostenere poi che era libero di uscire quando voleva, disconoscendo il fatto che, appena fuori, sarebbe stato arrestato, come poi è avvenuto».Sulla base di quale reato?
«Essere sfuggito alla libertà condizionale di cui godeva nelle more del processo svedese per rifugiarsi, appunto, nell’ambasciata. Un’imputazione che, al peggio, prevede sei mesi di carcere, mentre lui è in custodia preventiva dal 2019. Quanto alle accuse degli americani, se fosse riconosciuta l’intrusione informatica – in realtà ha solo provato a cancellare le tracce digitali di Chelsea Manning, la fonte che gli ha passato i documenti, era stato condannato a trentacinque anni e dopo sette in carcere è stato perdonato da Barack Obama – è punita al massimo con cinque anni di reclusione mentre la sua vita è un inferno giudiziario già da tredici. E invece, facendo leva sull’Espionage Act del ‘77, il dipartimento di Stato ha aggiunto altri diciassette capi di imputazione con pene medie da dieci anni l’uno. Aggiungo che lo spionaggio è un esempio da manuale di reato politico: e per questi reati non si dovrebbe venire estradati».Nel gennaio 2021 un giudice britannico ha negato l’estradizione sulla base delle condizioni di salute…
«Io ho visitato Assange solo una volta a Belmarsh assieme a due periti medici di prim’ordine. Aveva perso 15 chili, zoppicava, faceva fatica a seguire un discorso: anni di costante ansia e stress hanno causato danni neurologici e cognitivi già oggettivamente misurabili. Ricordo che Augusto Pinochet, responsabile della morte di decine di migliaia di persone, non è mai stato demonizzato altrettanto dalla giustizia britannica e non ha mai trascorso un giorno in un carcere di massima sicurezza come Assange. Che, tecnicamente, non sta scontando alcuna condanna e dovrebbe essere libero (Gli Stati Uniti hanno fatto appello a ottobre 2021, a giugno scorso la ministra dell’Interno britannica Priti Pratel l’ha concessa e i legali di Assange si sono appellati alla Corte suprema, ndr). Ma sulla base di quanto i protagonisti principali hanno investito su questa storia – solo la sorveglianza dell’ambasciata è costata a Londra 16 milioni di sterline – non credo lo lasceranno mai in pace. Sparirà in qualche carcere americano o si suiciderà. L’importante è metterlo in condizione di non nuocere».Perché buona parte dei media non ha sostenuto convintamente uno che, pur senza tesserino, ha fatto scoop tra i più rilevanti degli ultimi anni?
«Perché era un concorrente scomodo? Perché era diverso? Per lui si è ipotizzato un disturbo dello spettro autistico: è uno che non si accorge, se non intellettualmente, dell’altro e capisco che si fatichi a empatizzare con lui. Ma ha pubblicato notizie importanti e vere: un vanto che non è di tutti i giornalisti. Notizie di cui era l’editore, non la fonte. Le stesse per le quali New York Times, Guardian, Le Monde e El Pais non sono stati perseguiti. Eppure non solo non l’hanno difeso sul serio, l’hanno proprio gettato sotto a un bus. Temo che non capirò mai esattamente perché».Lei scrive di aver ricevuto molte critiche, anche da colleghi, per essersi esposto su questo caso. Com’è cambiata la sua vita da allora?
«Per uno che ha fondato la sua vita sull’intangibilità della rule of law è stata una delusione formidabile. Ho avuto modo di vedere come funzionano, a porte chiuse, certi meccanismi del potere. Alla fine ho solo fatto quello che prevedeva il mio mandato, indagare sulle torture, in questo caso psicologiche, anche se alla fine ciò che ho trovato a molti non è piaciuto. Ci ho pensato, certo: preferisco rischiare di perdere la mia integrità o la mia carriera? E ho deciso che dovevo fare quello che mi consentisse di guardarmi ogni mattina allo specchio perché l’unico luogo da cui non possiamo fuggire siamo noi stessi».
Epilogo
A proposito di storie raccontabili meglio, a Gaza il massacro continua: siamo a oltre 29 mila morti. Se nessuno ferma l’operazione di terra, e non vedo candidati in giro, quel numero già osceno potrebbe presto lievitare.
Grazie Riccardo. Apprezzo moltissimo il tuo lavoro.