#133 Il signor G. sono io
1) Sandro Luporini si confessa 2) Lo strano caso del crac di Viareggio 3) La fabbrica dei super, mega e giga-yacht 3) Un deepfake da 24 milioni di euro
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Prologo
Ci sono un sacco di labili fili personali che uniscono la storia di Sandro Luporini alla mia. A partire da Viareggio, la città dove siamo nati e che nessuno dei due, ho scoperto con sollievo, riesce a prendere troppo sul serio. Poi un mio buon amico che, a un certo punto, aveva fraternizzato con la coppia Gaber-Luporini per motivi di lavoro che erano infine trasmutati in amicizia. Quindi mio padre, il cui unico concerto in trasferta di una vita segnata da un castrante senso del dovere è stato quello di Gaber a Milano, ai tempi di Anche per oggi non si vola, che sanciva la piena svolta luporiniana del geniale cantante. E quando rientrò a casa, con ben due lp nel carniere, iniziò per me l’ossessivo ascolto di pezzi strani, enigmatici, obliquamente pedagogici, da Un’idea al monologo su Giotto da Bondone, che – assieme con quelli degli Inti Illimani – divennero tra i primi pezzi che ho imparato a suonare alla chitarra. Mio padre, che lavorava in banca, con un agguato che immagino goffo nella trattoria dove Gaber pranzava spesso, aveva provato anche a fargli aprire un conto corrente nella sua filiale, ma non c’era riuscito. Poi ci sarebbe anche il segno zodiacale, scopro adesso, quel cancro che gli esperti intepretano come garanzia di sempre dissestati fronti sentimentali. Ma non mi voglio spingere troppo oltre. Sta di fatto che, da tanti anni, speravo di avere l’occasione di conoscerlo. Me la sono inventata all’indomani dell’uscita di un sontuoso documentario su Gaber che ne sarebbe uscito migliore se decurtato di alcune inspiegabili comparsate. Sul Venerdì in edicola e online c’è il risultato integrale di cui qui riporto un corposo estratto.
CONFESSIONI DELL’ALTER EGO DI GABER
VIAREGGIO. A novantatré anni Sandro Luporini confessa, essenzialmente, di aver amato. Tanto. Troppo. Non abbastanza. Da tempo ha smesso di dipingere le mareggiate di Viareggio, il suo soggetto preferito da pittore di «realismo esistenziale» come si professava nel '61 quando, in un bar di Milano, incontrò Giorgio Gaber. Oggi dorme molto. Non varca quasi mai la porta di questa casa per niente borghese alla prima periferia della cittadina versiliese («Mi son dichiarato patrimonio del Non-esco» ride) dove sfida a dama il tuttofare kosovaro le cui gigantesche mani da pugile vengono clamorosamente smentite da una gentilezza assoluta che gli è valsa da sei anni il ruolo di aiutante, autista, memoria esterna, esegeta e quindi ombra del Maestro. Luporini, ex giocatore di basket, è ancora molto alto, dritto e con tutti i suoi capelli. Indossa una camicia di flanella a scacchi da boscaiolo e delle ciabatte comode. Il fatto che gli abbiano a un certo punto rimosso un polmone non gli impedisce di fumare tre-quattro sigarette in novanta minuti di intervista, il che rende totalmente implausibile la sua stima di «quindici al giorno». D'altronde, se è arrivato così lucido sin qui, perché cambiare? A dispetto dell'iniziale puntata, il Signor G., l'uomo che ha trasformato il diversamente geniale Gaber in una specie di cattiva coscienza della nostra società, è lui. Le parole del teatro canzone erano del signor L. Poi insieme le aggiustavano e Gaber le metteva in scena come Luporini non avrebbe mai saputo fare. Una coppia perfettamente complementare di amici incrollabili. All'indomani del gran successo del documentario che celebra i vent'anni della scomparsa del cantante milanese e alla vigilia di una permanente che in primavera il museo d'arte contemporanea della città dove il paroliere è nato e vive gli dedicherà, gli abbiamo chiesto che impressione gli fa vivere nell'Italia del 2024. Sotto la Meloni, per di più.
Partiamo dal documentario Io, noi e Gaber di Riccardo Milani. Le è piaciuto?
«Diciamo che tra gli intervistati c'era qualcuno che non si capiva a che titolo parlasse, tipo Mogol e qualcun altro che adesso non mi viene in mente. Mentre non ci sono persone come Andrea Scanzi, Neri Marcorè, Maria Monti, Giulio Casale e Gioele Dix che di Giorgio erano veri amici. E non c'è nessun video di Dolores Redaelli, figura importante per Gaber. Complessivamente l'ho trovato un po' lungo ma son contento che sia uscito».
C'è una silenziosa, spettrale apparizione di Ombretta Colli: immagino che stia poco bene…
«Da tanto tempo non ho rapporti, ho solo notizie di seconda mano. Anche Dalia, che pure è sposata con mio nipote, la vedo di rado, giusto a certi eventi della Fondazione».
Per usare celebri categorie pittoriche, si potrebbe dire che come autore di testi ha avuto un periodo rosa, più esistenzial-sentimentale, e uno blu, più politico. Partiamo da quello rosa. È vero che Il dilemma è una delle sue canzoni che ama di più?
«Sì. È strano perché è un inno alla fedeltà, ai tentativi strenui che un uomo e una donna fanno per non lasciarsi ai tempi in cui andava molto di moda parlare di amore libero, una teoria del cazzo. D'altronde Adorno, uno dei miei autori preferiti, diceva che niente è più rivoluzionario della fedeltà. Per compensare, però, un'altra canzone che ancora mi piace molto è La strada, più sessantottina, critica delle costrizioni della famiglia. Sono antitetiche ma continuo a voler molto bene a entrambe».
Gaber era monogamo, lei meno. Ha anche avuto compagne di vari decenni più giovani. Dell'amore, di cui ha detto che è «L'unica cosa per cui si soffre, il resto sono solo preoccupazioni», oggi che ha capito?
«Che è l'unica sofferenza, ma anche la cosa che ti fa crescere. Io ho sofferto e fatto soffrire. Delle donne ho grande ammirazione, hanno un'interezza tra mente e corpo molto maggiore mentre noi tendiamo a essere scissi, schizoidi».
Un concetto che ritorna nella sua produzione. Il celeberrimo verso «Se potessi mangiare un'idea» aveva a che fare con qualcosa di simile?
«Sì, col riconciliare ciò che uno sente con la testa con ciò che sente con la pancia, contrariamente al signor Brown che si dichiarava antirazzista ma non era di buonumore quando la figlia gli annunciò che si era messa con un nero. I maschi, anche nella morale sessuale, sono campioni di queste scissioni».
Versante contraddizioni, lei sarebbe rimasto con una di destra?
«Io mi sono messo con molte matte ma con una di destra mai. Credo che avrei sofferto moltissimo. Non bisogna essere uguali, ovvio, ma sarebbe stato un colpo micidiale. Gaber diceva "ognuno pensa quel che vuole". Ma entrambi eravamo comunisti antropologici, persuasi di una differenza strutturale nella maniera di pensare».
E siamo al periodo blu, quello politico. Un cardine della sua/vostra poetica era l'attacco al conformismo. Chi sono i conformisti oggi?
«Mah, non è cambiato molto: basta guardare la tv per accorgersene. Ho un fastidio quasi fisico per quasi tutti i personaggi da talk show. Tra le rare eccezioni Pierluigi Bersani, uno che vedrei volentieri a cena, peccato che verosimilmente berrà Lambrusco. Salvo anche il già citato Scanzi, Travaglio, Padellaro, Montanari, Santoro».
La triade dei suoi autori di riferimento è ancora Céline, Adorno e Pessoa?
«Sì. Céline era un'orribile persona, antisemita e bellicoso, ma la sua scrittura teatrale è quella da cui ho preso di più. Un po' il contrario di Pasolini, brava persona ma quando ho letto "occhi ridarelli" per descrivere un "ragazzo di vita" ho messo giù il libro. Antonio Tabucchi, di cui ho amato moltissimo Il ponte della Ghisolfa, era il suo corrispettivo moderno, con la stessa passione per gli ultimi. Mentre Il libro dell'inquietudine di Pessoa è un concentrato di poesia senza pari».
Ancora sul conformismo: che ne pensa della correttezza politica e della cancel culture che guadagna punti anche da noi?
«Del politicamente corretto non vorrei che significasse evitare lo scontro fra due idee opposte. Per il resto penso che le cose più nefaste della nostra epoca la storia le abbia cancellate da sé. In ogni caso mi sembra che se ne parli troppo. Così come dell'apologia del fascismo: se è un reato, come io credo che sia, si deve punire. Dibattere è inutile. Intendiamoci: non penso che ritorni il fascismo ma io il presidente del senato La Russa me lo ricordo dal '68, una volta che a San Babila disse "se trovo un compagno in una pozza di sangue ce lo lascio". Ecco la presa del potere di queste persone mi fa paura. La correttezza politica invece è il conformismo di sinistra». (Continua…)
SE VIAREGGIO FA CRAC
Qualche anno fa mi avevano mandato a Viareggio per scrivere dell’incredibile commissariamento del Comune. Di seguito il reportage:
VIAREGGIO. La via accanto al Comune, quella che ospita il miglior spaccio di cecina della città, è sigillata dai nastri giallo-neri della polizia municipale. Sono caduti grossi rami dai pioppi e si attende che gli addetti intervengano. Andrà senz'altro meglio di qualche settimana fa, quando una delle entrate principali della Pineta di Ponente era rimasta ostruita per giorni da un pino collassato. Che, facendo le proporzioni, è un po' come se un ostacolo a caso impedisse per 48-72 ore l'ingresso a Trastevere. Cose che succedono nei comuni dissestati. Perché questa, nella persistente incredulità dei viareggini e nella comprensibile indifferenza del resto del Paese, è l'etichetta amministrativa che ha preso il posto della ben più immaginifica Perla del Tirreno conquistata sul campo agli inizi del Novecento. Con il suo Carnevale quintessenziale, i suoi bagni ostinatamente Bandiera blu e la sua cantieristica da miliardari planetari, nonostante queste e altre doti, la cittadina versiliese un anno fa ha portato i libri in tribunale. Seppellita da un debito colossale e apparentemente ingestibile che nelle prossime settimane dovrebbe essere quantificato alla virgola ma già si stima nei dintorni di 200 milioni di euro, figli di una spesa che sembra essere stata l'ultima cosa veramente allegra in una città che oggi vive nel contrappasso di una quaresima inesorabile, con tasse locali record e senza più un euro da spendere. Dopo che un'intera generazione politica (meno, ma a lungo, a sinistra; brevemente, ma pesantemente, a destra) ha sbagliato quasi tutto quel che poteva sbagliare. La domanda è quindi: come ci sono riusciti?
La storia recente della città è un lungo esercizio di sottrazione. Una spoliazione graduale e autoinflitta. In un libriccino dal titolo Viareggio (era) una città bellissima Rossella Martina, che oggi è vicesindaco, si è presa la briga di mettere in fila le defezioni. Dopo vent'anni è saltato EuropaCinema, la risposta locale a Cannes. Il Premio Viareggio, azzoppato da protratte faide, è così malconcio che in una delle ultime edizione ai vincitori è stato chiesto (con salvataggio in extremis) di pagarsi la cena. La Coppa Carnevale, torneo internazionale di calcio giovanile, l'anno scorso è stato ospitato a Pisa per inagibilità dello stadio. Stessa ignominiosa sorte per il meeting di nuoto Mussi-Lombardi-Femiano con Federica Pellegrini che ha dovuto gareggiare nella vicina Massarosa (è come se la Milanesiana si tenesse a Carugate) perché la piscina, a tutt'oggi pignorata dai creditori, non era all'altezza. Per non dire del Festival Gaber che, dopo un decennio, dall'anno prossimo non ci sarà più. La nostalgia è una trappola pericolosissima e qui be' mi tempi è tra gli intercalari più ricorrenti. Oltre che il nome di un forno molto popolare che, due anni fa, finì nelle cronache locali per essere stato derubato due volte in tre giorni, cristallizzando l'idea diffusa di un Far West fuori controllo quasi quanto i conti pubblici. Eppure, anche facendo questa tara, lo smottamento sfida ogni casualità. La crisi dell'economia ha raddoppiato quella della politica, appesantendone la picchiata. O viceversa. Il risultato è comunque disastroso, con una stupefacente quantità di negozi chiusi come ne avevo visti solo a Dublino quando la Tigre celtica si era risvegliata gattino o a Cipro all'indomani del default. «Nell'ultimo triennio hanno chiuso 400 attività, su poche meno di duemila sopravvissute, con una perdita di circa 2000 posti di lavoro» spiega sconsolato Piero Bertolani, presidente di Confcommercio oltre che storico rivenditore di abbigliamento sportivo. Il 2008 è stato annus horribilis per tutti, ma perché a Lucca e Pisa, per restare vicini, le vie dello shopping non sembrano guarnigioni altrettanto decimate? Bertolani elenca molte ipotesi: la liberalizzazione che ha consentito l'apertura nel weekend in varie altre città (togliendo l'esclusiva a Viareggio); i sempre più esosi canoni dei negozi sul lungomare; le minori disponibilità della classe media della cantieristica. Il mistero rimane.
Per decostruire il crac conviene ricostruire una cronologia minima. Che inizia con la giunta di sinistra Marcucci (1998-2008), prosegue con quella di destra Lunardini (2008-2012) passando dal primo commissario prefettizio che traghetta verso quella renziana di Betti (2013-2014) che prende atto del dissesto e consegna la città al secondo commissario, per arrivare dell'attuale giunta Del Ghingaro, moderatamente progressista e disperatamente bisognosa di un miracolo. Una delle poche cose su cui concordano gli individualisti e anarchici viareggini è che la radice del problema vada ricercata nella sconsiderata ipertrofia di partecipate, società teoricamente controllate dal Comune che in pratica finivano per fare un po' quel che volevano. Se ne contano diciotto, con un totale di circa 480 dipendenti, praticamente lo stesso numero di quelli comunali, e un disavanzo di quasi altri 200 milioni. Il caso più celebre è quello della Viareggio Patrimonio che doveva, tra l'altro, riscuotere i tributi e inesplicabilmente si sarebbe tenuta 27 milioni di euro. Il suo inventore, nel 2006, è il sindaco Marco Marcucci. Di scuola comunista, si è ritirato nei boschi e traduce gli economisti anti-austerity su un blog per appassionati. Ha anche scritto un memoriale dal titolo inequivoco: Il dissesto degli altri. Prima si nega, poi ci ripensa e accetta di vedermi. Dice che sotto la sua gestione si riscuoteva l'89 per cento delle tasse, mentre al termine della giunta successiva (la prima di centrodestra dal dopoguerra) si era sprofondati sotto il 70 (-26 milioni in quattro anni). Sono pagine piene di tabelle quelle della sua difesa, in cui dimostra quanto denaro abbia fatto perdere l'ignavia di chi è venuto dopo. Per non dire della stagnazione edilizia provocata dal non aver approvato un regolamento urbanistico (-20/25 milioni di euro). L'origine del buco, per come la racconta lui, è stato l'aumento folle dello smaltimento rifiuti («Ci è costato come quattro carnevali!»). In città i più concordano sul fatto che fosse un uomo onesto e con una visione. «La grandeur marcucciana» ironizza Donatella Francesconi, implacabile cronista del Tirreno, che pure gli riconosce intelligenza. Però le 148 pagine di relazione dell'ispettore del Ministero dell'economia e delle finanze non lo scagionano quando dicono del «grave e strutturale squilibrio finanziario nel periodo 2011-20?? (e, invero, anche nei precedenti non oggetto d'esame)». Nello stesso scartafaccio si indicano mutui complessivi per milioni di euro presi per finalità non previste dalla legge. Nessuno, per quanto si sappia oggi, ha rubato, però si faceva un ricorso sistematico all'anticipazione di cassa, si spendevano soldi che non si avevano o che sarebbero dovuti servire per altro. L'indagine della magistratura, in cui vari dirigenti parlavano di un «unico calderone» dove finiva il denaro pubblico, è stata interrotta da un giudice che non ha concesso le intercettazioni chieste dal pm.
Intanto la città sprofonda. L'hotel Excelsior, meraviglia Liberty con decorazioni di Galileo Chini, è chiuso da tempo con imbracature che impediscono ai calcinacci della facciata di cadere sui passanti. Il Principino, ex centro congressi gestito dall'ennesima partecipata appena fallita, non è in condizioni troppo migliori. Le transenne sembrano ormai divenute elemento di decoro urbano. Qui la celebre passeggiata dove sfilano i carri allegorici è un patchwork immondo di asfalti diversi. Per non dire delle palme agonizzanti che incorniciano uno dei grandi alberghi superstiti, il Principe di Piemonte dove di solito le tv intervistano i viareggini vip come l'allenatore Marcello Lippi e l'arbitro Pierluigi Collina. E parliamo del quadrilatero del lusso, la parte nobile del lungomare. Perché se vai verso Levante, oltre il porto, puoi vedere l'incompiuta del nuovo mercato ittico, bloccato da anni perché mancano 300 mila euro all'appello. O il palazzetto dello sport che, nonostante ci giochi l'hockey di serie A, ha l'armatura del cemento armato a vista, come in un tempio dell'abusivismo qualsiasi. Ogni abitante può aggiungere una personale figurina all'album degli orrori cittadini. Ciascuno, soprattutto, può raccontarti una storiaccia avvenuta entro due gradi di separazione. Il cronista (disclaimer: nato qui, ma laico) ha avuto una specie di agnizione sul cambio di clima quando ha visto un sabato sera due militari in mimetica, operazione Strade Sicure, che perquisivano un presunto spacciatore sulla via davanti alla Pineta, il nuovo mercato 24/7 di hashish e cocaina. Leggende metropolitane spacciate in buona fede da una popolazione ingrigita e quindi impressionabile? La prima risposta di Marco Monteleone, il brillante nuovo dirigente del Commissariato, è «sì» perché rispetto all'anno scorso il totale dei reati si è ridotto del 23 per cento. Un dato che cozza platealmente con i resoconti di decine di persone di cui mi fido. Così, dopo un lungo carteggio e altrettanti distinguo, emerge un quadro meno roseo, con 47 scippi dall'inizio dell'anno a metà ottobre (rispetto ai 37 dello stesso periodo nel 2014) e 350 furti in abitazione, contro i 313 dell'anno prima. Praticamente uno al giorno, come segnalato da radio serva. Con un aumento del 27 per cento, nel primo caso, e un 11 per cento nel secondo. I giornali locali calcheranno anche la titolazione, come dicono i poliziotti, quando parlano di risse e cittadini «terrorizzati», però il fatto che il capo della volante Gerardo Magliulo vada a correre ogni notte in Pineta senza aver avuto alcun problema non tranquillizza né i miei genitori né i miei amici. Tant'è che Valerio Massimo Romeo, il secondo commissario straordinario, viene ricordato (senza rimpianto) sopratutto per la battuta «rischiate di fare la fine di Scampia». Paragone che suscitò l'indignata reazione della località campana. Passi Gomorra, ma Viareggio...
Torniamo in Comune, ad accesso ridotto per la vegetazione periclitante. Giorgio Del Ghingaro, già primo cittadino della vicina Capannori dove aveva fatto scrivere di sé per le decisioni partecipate e la differenziata virtuosissima, è il Papa straniero chiamato per la missione impossibile. Dicono che abbia litigato con tutti, che sia di un decisionismo renziano. Di certo sfoggia un'altrettanto invidiabile sicurezza: «Saremo fuori dal dissesto entro cinque anni. Oggi Roma sa di avere qui degli interlocutori affidabili. Lavoreremo bene col ministero e ne usciremo prima del previsto». Ovvero i dieci anni che il penultimo assessore al bilancio Lorenzo Bertoli aveva immaginato, quando aveva preso atto di un debito di soli 53 milioni «Una soluzione sensata sarebbe andare verso il comune unico della Versilia, confederando Forte dei Marmi, Pietrasanta e Camaiore. Solo così potremo fare risparmi significativi» mi confida Bertoli in un bar vicino al vecchio ospedale, già svuotato per la stessa esigenza di risparmi. Dice Del Ghingaro, che si guarda bene dal puntare il dito contro i suoi predecessori, che «non si è voluto bene alla città», l'amministrazione è stata «disattenta» e anche la comunità è «degradata». Siamo sul vago. Aggiunge che ha in mente di organizzare una grande incontro pubblico in cui conta molto sul contributo di idee dei viareggini famosi, da Stefania Sandrelli al solito Lippi. Ma in sostanza? Non tutti hanno capito la mossa di aver fatto fallire la Patrimonio, la partecipata che si occupava della riscossione. Ci sono tre ricorsi pendenti. Per fronteggiare la percezione di paura, ha ribattezzato il responsabile alla sicurezza con il più tranquillizzante titolo di assessore alla libertà urbana. Insomma, sa comunicare, ma dove taglierà e come farà cassa? Insiste sulle «potenzialità strepitose» della città e nelle prossime settimane, quando il Mef darà l'ok sulla quantificazione della massa passiva, la giunta farà un bilancio preventivo. Chiedo anche a lui perché qui la morìa di negozi, tra gli altri sintomi, sembri assai più grave che altrove («C'è sempre stato un forte ricambio, poi la crisi ha ridotto i margini»). Mi sembra che nessuno abbia fatto i compiti sino in fondo nel cercare di capire perché il crac è arrivato addirittura a queste latitudini. Quando avevo parlato con Marcucci aveva attribuito la crisi dell'economia a «4000 posti persi nella cantieristica e 2000 nell'edilizia». Non mi convinceva che avesse sofferto così tanto il primo, un settore dichiaratamente per ricchi. E sono andato a chiedere a Maurizio Balducci, amministratore delegato di Overmarine, specializzata in super-yacht: «Su base nazionale con la crisi le navi prodotte sono andate giù del 70 per cento. Però è anche cambiato il mercato: si fanno meno navi, ma più grandi. E Viareggio è la numero uno nell'export degli yacht da oltre 24 metri. Per questo noi siamo riusciti a non licenziare nessuno e a mantenere anche tutti i nostri fornitori storici». Hanno sforbiciato un terzo dei fornitori esterni, quelli che avevano aperto qui negli ultimi anni del boom. C'è ovviamente chi ha sofferto di più, ma basta a spiegare l'implosione commerciale della città? La ricetta del doppio dissesto, dell'istituzione e della città, ha evidentemente molti ingredienti, alcuni dei quali ancora misteriosi. Se i cittadini (e la magistratura) non si arrenderanno, non è da escludere che un giorno non si possano scoprire.
LA FABBRICA DEI SUPER-YACHT
Un paio di anni fa invece ci ero tornato per raccontare lo strano caso di uno dei pochi settori economici in crescita durante la pandemia: quello dei super-yacht. L’incipit:
Viareggio. Prendete i corrimano. Forgiati da un’officina locale, in acciaio tirato a specchio come solo nelle statue di Jeff Koons, di pianta ovale sedici centimetri per dieci. Hai l’impressione, stringendoli, che niente di male possa succederti. D’altronde se puoi spendere trecentomila euro per l’equivalente nautico del battiscopa domestico non sono troppe le cose che dovrebbero impensierirti. Difatti a bordo di questo gigayacht, che nel lessico familiare del cantiere Benetti che l’ha costruito sta a indicare quelli sopra i novanta metri, sembra che il criterio che abbia improntato le scelte dell’armatore sia quello di certi parvenus davanti a liste di vini troppo enciclopediche: «Voglio il più caro!». Di rilancio in rilancio la fattura finale è arrivata a 160 milioni di euro. A cui va aggiunto circa il 10 per cento ogni anno per manutenzione e rimessaggio, che è come se dopo aver comprato una casa da un milione continuaste a spenderne ottomila al mese di spese condominiali. Senza considerare la dotazione di arte contemporanea contenuta a bordo che, non di rado, supera il valore del contenitore. La circostanza più singolare, nota da tempo agli addetti ai lavori ma ancora largamente sconosciuta ai più, è che quasi la metà di queste navi di extra-lusso (il 44 per cento di quelle sopra i 30 metri costruite dal 2016 a oggi stando alla classifica di SuperYacht Times) vengono costruite in questa cittadina di sessantamila abitanti, equidistante da Lucca e Pisa, famosa per il suo carnevale e per un turismo balneare con uno sfolgorante passato. Nella quale, incidentalmente, è nato il vostro cronista che sin qui si era astenuto dal mettere a sistema gli aneddoti raccolti negli anni da amici e conoscenti. Fino al combinato disposto di un recente articolo del Tirreno sul «boom di richieste di superyacht» nonostante e anche a causa della pandemia e un altro sulla specializzata RobbReport dal titolo «Come questa cittadina toscana senza pretese è diventata l’epicentro del mondo dei superyacht» che hanno spazzato via le ultime resistenze. Ed eccomi in una trasferta che eccezionalmente non necessita né di albergo né di guardare le strade su Google Maps, per cercare di rispondere alla domanda: perché, potendo scegliere, tanti straricchi del pianeta vengono a farsi la barca proprio qui?
In verità il gigayacht lo vedo a Livorno dove si trova per l’annuale manutenzione perché è negli ex cantieri Orlando che oggi Benetti lavora alle imbarcazioni più grandi. L’amministratore delegato Marco Valle calcola che, fatto cento il totale dei costi di uno yacht in acciaio da 30 metri, il 30-40 per cento va nell’allestimento, la costruzione personalizzata di tutti gli interni, e in questo le maestranze locali sarebbero imbattibili. È una competenza che viene dai maestri d’ascia dell’800, dai barcobestia, quei velieri da trasporto che infiammavano i racconti dei nonni (apprendo ora che l’origine del nome, più che con la robustezza, avrebbe a che vedere con la crasi tra best e bark, le barche migliori). Fino al 1979, data di nascita del vero superyacht, il Nabila da 86 metri costruito da Benetti per lo sceicco Adnan Kashoggi (quello del diamante a Lory Del Santo per una notte d’amore) che contemporaneamente promosse il cantiere nel pantheon della nautica ma ne affondò anche i conti per troppi change orders, cambi in corso d’opera, mal gestiti in un’impresa senza precedenti. Se Valle dovesse riassumere e indicare due punti di forza direbbe «creatività e flessibilità, nel senso di trovare sempre un modo per venire incontro alle richieste del cliente». Elogia in particolare i falegnami, con molte ditte piccole con massimo dieci dipendenti, che insieme a tanti altri artigiani (carpentieri metallici, tappezzieri, elettricisti, ecc.) creano un distretto economico unico, lo stesso che stando ai calcoli di Banca Intesa è cresciuto più di tutti gli altri (+20 per cento) nel terzo trimestre del 2020 mentre milioni di italiani stringevano la cinghia fin quasi a non respirare. «È stato un anno formidabile» confessa con pudore, «un po’ perché si è fatta strada l’idea che niente come una barca ti dà la libertà di viaggiare in sicurezza anche quando il resto del mondo si ferma. E poi per l’abbondanza di liquidità che la pandemia ha, per chi già stava molto bene, aumentato».
UN DEEPFAKE DA 24 MILIONI DI EURO
L’ultima Galapagos:
Essendo la gigastar che è non sorprende affatto che le false foto di Taylor Swift nuda si prendano tutta l'attenzione dei media. Ma, a ben guardare, il deepfake del momento è un altro. E riguarda un certo numero di videoconferenze in cui il presunto numero uno finanziario di una multinazionale avrebbe dato ordini per quindici bonifici dal valore totale di 200 milioni di dollari di Hong Kong, ovvero quasi 24 milioni di euro. Peccato che il Chief financial officer non fosse il vero Cfo ma una sua riproduzione fatta con l'intelligenza artificiale a partire da un discreto numero di suoi video trovati su Youtube. Sia il volto che la voce, quindi, erano indistinguibili dall'autentico. Al punto che il suo sottoposto nella filiale di Hong Kong ha eseguito gli ordini, spedendo quei soldi a chissà chi. Alle videoconferenze incriminate, spiega il South China Morning Post che ha dato la notizia, partecipavano anche altre persone altrettanto falsificate. L'unica reale era la vittima. È una storia così incredibile che stentavo a credere che fosse vera, ma l'ha ripresa Cnn, Bloomberg e vari altri siti non proprio sprovveduti. Il dettaglio che resta sorprendente è che, sempre dalle cronache, pare che il subordinato non abbia interloquito con l'ordine ricevuto, perché se l'avesse fatto verosimilmente si sarebbe reso conto che qualcosa non andava. Ha ascoltato ed eseguito senza fiatare. Chissà qual è stata la formula così autoritativa usata dal fantomatico capo. Intanto la polizia indaga. "Tutto ciò che è solido svanisce nell'aria", diceva Karl Marx. È esattamente la fine che ha fatto questo tesoretto.
Epilogo
A Gaza siamo quasi a 28 mila morti e si contano oltre 67 mila feriti, tra cui una sbalorditiva quantità di bambini. Netanyahu, però, tra l’impotenza del mondo, continua a non prendere in considerazione il cessate il fuoco.