#130 Il ritratto della disuguaglianza
1) Una foto che vale mille parole 2) Storia della propaganda di guerra 3) Il capolavoro di Wim Wenders 4) La lunga, lunghissima strada verso la digitalizzazione
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Prologo
Oltre 24 mila morti a Gaza.
UN’IMMAGINE ANCHE TROPPO ELOQUENTE
Venti anni fa Tuca Vieira, un fotografo brasiliano, aveva scattato una foto dall’alto di due quartieri agli antipodi di São Paolo. L’abbiamo intervistato sul Venerdì in edicola. L’inizio:
Poche altre foto godono di un riconoscimento così unanime. Tipo la morte del miliziano spagnolo di Robert Capa o l'esecuzione del vietcong di Eddie Adams. Ma qui siamo su un teatro di guerra diverso. A destra dell'inquadratura un grattacielo immacolato che ha una piccola piscina su ogni terrazzo, lussureggiante di vegetazione, in una versione paulista del "bosco verticale" che torreggia su un lindo campo da tennis e una piscina più grande, di un azzurro hollywoodiano. A sinistra invece una favela allora senz'acqua corrente con casette di un piano, abbarbicate una sull'altra, color mattone crudo, grigio cemento, con sprazzi cerulei forse di tetti di plastica ondulata o di eternit, non si capisce. Nel mezzo un muro che divide Morumbi, la città dei ricchi, da Paraisopolis, quella dei poveri, nonostante il nome. Lo scatto del brasiliano Tuca Vieira risale esattamente a venti anni fa. E se, a distanza di tutto questo tempo, chiedete a Google in inglese "la più iconica immagine della disuguaglianza" il motore non ha il benché minimo dubbio su quale risultato mostrarvi. Da allora è apparsa dappertutto, dai giornali mainstream alle riviste di urbanistica, dai cataloghi delle mostre più paludate ai samizdat che inneggiano alla lotta di classe. È diventata, visivamente parlando, l'idea platonica di un problema ancora grosso come una casa. Anzi, come un quartiere. In questo caso, addirittura due.
Il suo autore oggi ha cinquant'anni tondi. All'epoca la Folha de São Paulo, il quotidiano più letto del Paese, l'aveva autorizzato a prendere in affitto un elicottero (altri tempi) per fare foto a corredo di un articolo sull'emergenza abitativa (niente è cambiato). La sua collega Marlene Bergamo gli aveva suggerito di farsi portare sopra Morumbi, zona da ricchi costruita negli anni '70 ai cui bordi si era ammassato un certo numero di baracche. «Allora si lavorava su pellicola e non capivi subito com'era andata» ci racconta via Zoom da casa «però l'indomani pubblicarono la foto in prima pagina e da noi fece piuttosto impressione». La celebrità globale arriva quando Ricky Burdett, sociologo urbano alla London School of Economics, la porta alla Biennale di Venezia del 2006 e poi alla Tate Modern. È così perfetta, nel suo schematismo, che non sembra neanche vera. Allora, rievoca il professore, «la prima reazione di chiunque la vedesse è che fosse photoshoppata». Se fosse stata scattata oggi probabilmente la attribuiremmo al didascalismo di qualche intelligenza artificiale. Vieira ne è perfettamente consapevole: «Con la sua netta divisione in due è molto pedagogica: pochi simboli son più chiari di un muro. Mentre la disuguaglianza è un problema più complesso, non di bianco e nero ma di infiniti grigi. Paraisopolis non era la favela più malridotta, né Morumbi il quartiere più ricco di tutti. La loro combinazione era però unica». Come quelle colle a due componenti che diventano invincibili solo quando mescolate. Misteriosa resta anche la circostanza del perché, non volendo certo i ricchi camere con vista sui poveri, avessero lasciato che le loro catapecchie si accumulassero proprio lì dirimpetto. Sta di fatto che le idee spesso hanno bisogno di rappresentazioni per camminare. E qui la trovano. Anni dopo Vieira, nel frattempo invitato un po' dappertutto come ritrattista ufficiale della disuguaglianza, incrocia il presidente Lula a una mostra. «Spero che questo sia il simbolo della vostra lotta» gli dice. E Lula, uno notoriamente difficile da zittire, accusa il colpo. Nonostante che «con lui, al netto di tutte le critiche che gli si possono rivolgere, tra i 20 e i 30 milioni di brasiliani siano usciti dalla povertà più abietta».
CHE FATICA VENDERE IL PRODOTTO “GUERRA”
Sullo stesso numero c’è un secondo pezzo, terribilmente attuale, sulla propaganda di guerra. L’incipit:
Se la prima vittima di ogni guerra è la verità, come ebbe a dire Eschilo già qualche annetto fa, è perché a vincere è stata la comunicazione. O, se preferite, la propaganda. Ogni conflitto ha la sua. La storia, in questo caso le storie, non si ripetono ma rimano tra loro. A partire dalla cartellonistica, con qualche figura imbronciata che ti punta il dito contro per dirti che la nazione ha bisogno di te, proprio di te. Per continuare con la pioggia di volantini dal cielo ad annunciare una cascata di bombe, dal Giappone a Gaza, o con l’ossessione, da Mussolini a Lollobrigida, di finanziare lo sforzo bellico (ma anche quello economico in tempo di pace) sostenendo a ogni costo la produzione nazionale. Fino alla reductio ad Hitlerum, che sarebbe ridicola se non fosse tragica, di cui abbiamo fatto scorte nelle ultime due guerre acnora in corso, con invaso e invasore che si danno del nazista a vicenda. Di questa orgia di parole molto interessate si occupa magistralmente Giuseppe Mazza, già direttore creativo di Saatchi & Saatchi Italia e da anni in proprio con l’agenzia Tita (nonché collaboratore del Venerdì), nel ponderoso Campagne di guerra. 150 anni di comunicazione, pubblicità, propaganda (Prospero editore). Lettura altamente raccomandata per diradare la fog of war, la costitutiva incertezza sulle dinamiche belliche di cui parlava il segretario alla difesa Robert McNamara a proposito del Vietnam.
Lei scrive che la guerra è forse il prodotto culturale più resistente della storia. Perché, con Freud, solo una minoranza è intimamente pacifista?
«Freud dice che la maggior parte delle persone sono avvinte dal mito della guerra ma a me non risulta. I comunicatori si pongono il problema del pubblico, ne cercano il consenso. Che nella guerra non c’è mai, perché è calata dall’alto. Lo dimostra l’insuccesso delle campagne “I want you”, una delle mistificazioni più straordinarie. Nonostante gli appelli al fronte non ci voleva andare nessuno. Neppure pagati, talvolta neppure costretti».
Tra i vari capitoli ce n’è uno sull’atomica di cui, citando McLuhan, lei dice che è stata insieme medium e messaggio. In che senso?
«Perché in un colpo solo ha arrecato il massimo danno con il massimo valore simbolico. A dispetto delle dichiarazioni di Truman sulla scelta di Hiroshima che sarebbe stata fatta per minimizzare le vittime civili, in città i civili erano 290 mila contro 43 mila militari. Si voleva terrorizzare e si è terrorizzato. Noto anche che nel film Oppenheimer l’oggetto bomba entra a far parte del repertorio dell’intrattenimento. Mentre Steven Spielberg, in Schindler’s List, non fa vedere gli ebrei nelle camere a gas perché evidentemente lo considera al di là della soglia di rappresentabilità. E non sono solo io, spero, ad aver sentito parlare di recente di armi nucleari “leggere”, come se fosse una cosa normale».
GIORNI PERFETTI, PROTETTI DALL’ABITUDINE
Hirayama è un uomo pacificato. Si sveglia di buon'ora. Guarda il cielo e sorride. Ascolta vecchie musicassette nel tragitto verso un lavoro che svolge con acribia esemplare. Mangia un panino nel parco, dove scatta foto alle luce che filtra tra le foglie degli alberi, tentativo di immortalare la caducità che in Giappone si dice con una parola sola: komorebi. Nella taverna in cui cena lo accolgono sempre con la stessa formula. Ogni settimana compra un libro che leggerà prima di addormentarsi sul tatami. Questa, all'osso, è la sua vita, i Perfect Days del magnifico film di Wim Wenders. Il dettaglio omesso è che il suo lavoro è pulire i cessi di Tokyo. Ma, come il Libertino Faussone ne La chiave a stella di Primo Levi, lui sa che è la cura che nobilita il lavoro, qualsiasi lavoro. La corazza di abitudinarietà che difende le sue giornate felicemente uguali si ammacca solo in un paio di occasioni. Per tornare subito a splendere.
Capolavoro.
L’INVINCIBILE BUROCRAZIA ITALICA
L’ultima Galapagos:
Sono andato a recuperare, per un'amica avvocata che non abita nella Capitale, la "copia conforme del decreto di citazione con fissazione dell'udienza di trattazione", qualsiasi cosa ciò significhi. Nelle sue particelle elementari sono dei fogli di carta, spillati, vidimati e custoditi al Commissariato per la liquidazione degli usi civici, un ufficio del ministero della giustizia in zona quartiere Trieste, a Roma. Ci sono voluti venti minuti per andare e altri quindici per aspettare il rientro dalla pausa caffè giustamente sincronizzata di tutti e quattro gli addetti all'ufficio. Una signora molto gentile ha spulciato un contenitore ad anelli e mi ha chiesto di aiutarla a cercare tra faldoni riposti troppo in alto per la sua altezza. Dopo qualche minuto abbiamo trovato l'incartamento che consta di una cinquantina di pagine. Quindi sono tornato a casa, le ho scannerizzate alla bell'e meglio e le ho spedite all'amica. Che giustamente ha detto che sarebbe stato meglio averle in una qualità migliore. Ma non sarebbe stato invece immensamente più facile, visto che dalla carta si doveva passare al digitale, riceverle direttamente sotto forma di file dall'ufficio competente? L'ho fatto presente ma, abbassando lo sguardo, la signora mi ha detto che «si stanno attrezzando». In effetti è solo il 2024 e sono passati poco più di trent'anni dalla nascita del web. La scarsa produttività è uno dei grandi problemi italiani, di cui ci si lamenta molto a destra come a sinistra. Ma se perdi un'ora per un pezzo di carta che poi deve essere trasformato in immagine digitale il calo di produttività è il meno che ti possa accadere. Presto che è tardi!