#127 Impossibile assumere i rider? Falso!
I corrieri del cibo a domicilio, eroi riluttanti della gig economy, come pietra di paragone della caduta libera dei diritti del lavoratori
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Prologo
La prima volta che scrissi dei ragazzi che consegnavano cibo a domicilio, tanti anni fa, era per denunciare il fatto che Foodora aveva cancellato un minimo orario per passare al cottimo pieno. Avevo contestato l’assurdità ai due amministratori italiani che, a dispetto di una laurea in Bocconi e una al Politecnico di Milano, non capivano dove stesse il problema. Mi spiegarono anche che meglio non si poteva fare perché il modello di business non lo consentiva. Era, come di dice in francese, una cazzata colossale già allora. Perché la loro casa madre in Germania i corrieri li assumeva. Certo, più li sfruttavano più margini restavano per loro, ma allora perché non lo schiavismo? Cazzata loo è ancor più oggi, alla luce dell’intervista che segue e che trovate integrale sul Venerdì in edicola. P.S.: Foodora ha abbandonato l’Italia mentre in Germania l’ha rilevata l’azienda del signore nella foto.
RIDER, NON SCHIAVI
Nelle scorse settimane sono stato in Olanda per alcuni pezzi. Uno di questi è l’intervista al fondatore di Just eat che, a differenza di tanti suoi concorrenti, a deciso di assumerli invece che tenerli a cottimo. L’incipit:
AMSTERDAM. Se gli parli di riders Jitse Groen ti corregge. Da Just Eat Takeaway.com, l'azienda di consegna cibo più grande d'Europa che ha fondato vent'anni fa, li chiamano meno romanticamente corrieri o autisti. Ma soprattutto, smentendo la leggenda fondativa del settore per cui sarebbe impraticabile farlo senza fallire, tende ad assumerli. Non perché questo quarantacinquenne che ha studiato informatica è buono, ma perché rispetta la legge in un'industria che tende a fregarsene. Così anche Just Eat negli Stati uniti continua a usare freelance mentre in Italia, e nella maggioranza dei venti Paesi in cui opera, impiega i lavoratori. Anche se la concorrenza non lo fa e quindi gareggia svantaggiato perché evitare le scorciatoie tendenzialmente non paga. Tanto meno in un'industria in cui Travis Kalanick, il fondatore di Uber, rivendicava che «non puoi essere un disrupter, un innovatore radicale, senza essere uno stronzo». In una sala riunioni della nuova sede con vista sul porto di Amsterdam che fino a pochi mesi fa ospitava Booking.com, l'altro campione tecnologico olandese, e dalla cui terrazza hanno testato la prima consegna via drone di un pranzo completo da un ristorante sull'altra sponda del fiume parliamo di come immagina il futuro del food delivery, di come il mercato italiano sia diverso dagli altri e in cosa consista la via europea al successo imprenditoriale.
Come le è venuto in mente, nel lontano 2003, di scommettere sulla consegna a domicilio del cibo?
«Perché avevo fame! (lo dice in italiano, ridendo, perché da studente l'ha studiato durante un periodo a Roma). No, sul serio: perché noi olandesi non siamo molto bravi a cucinare e qui piove molto. Due condizioni ideali per spingere a farselo portare a casa. Praticamente l'opposto di quel che succede da voi, ragione per cui fatichiamo di più».
L'industria in cui opera aveva ed ha una pessima reputazione rispetto alle condizioni dei lavoratori. Poi nel 2020 è arrivata la vostra decisione: voleva smentire i critici?
«Ma no, è più semplice e meno eroico di così. Sono forse vecchia maniera ma tendo a non violare la legge. Fosse per me, io penso che i corrieri debbano avere delle protezioni. Ma in America e Canada, dove la legge lo consente, continuiamo a usare lavoratori autonomi perché altrimenti non potremmo competere. Per lo stesso motivo a marzo siamo tornati sui nostri passi in Gran Bretagna, trasformando 1800 nostri dipendenti in autonomi. In Europa continentale, invece, la legge non lo consente e siamo felici che sia così. Poi certi Paesi sono bravi nel farla rispettare e altri, come l'Italia, no. Quindi si crea un'area grigia in cui i lavoratori devono rivolgersi alla magistratura per far rispettare i loro diritti. E siccome la giustizia è lenta ci mettono un sacco di tempo per ottenere una decisione. I nostri concorrenti se ne approfittano e, finché potranno, non assumeranno».
LOTTE DA ROMANZO
Se non nella vita vera, almeno nella fiction, i rider avevano già vinto parecchie battaglie. Come scrivevo un paio di anni fa. L’inizio:
Ho visto anche dei rider felici, parafrasando il poeta. Soprattutto nei romanzi, sul piccolo schermo e nell’appiccicosa narrazione di sindacati compiacenti. La vocazione cinematografica di chi affronta la notte pandemica per portarci il cibo a domicilio era evidente da tempo. Rispetto alla base sommersa dell’iceberg del precariato i ciclofattorini hanno almeno un triplice vantaggio: sono molto visibili, spesso giovani e anche il gesto atletico li mitizza, moderni Sisifo con il cubo-frigo al posto del macigno, in una fatica senza esito. Era scritto che la finzione li avrebbe adottati. In questo mese, mentre un’indagine monstre della procura di Milano prescrive di assumerli tutti, due libri li vedono protagonisti. Le balene mangiano da sole (Feltrinelli), che troverebbe l’adattamento ideale nelle sapienti mani del Paolo Virzì di Tutta la vita davanti, Rosario Pellecchia racconta dell’improbabile, ma non meno convincente, amicizia tra Genny, ventitreenne che pedala forte per lasciarsi alle spalle un lutto precoce, e un dodicenne che conosce durante una consegna. Genny è un napoletano a Milano, inorridisce di fronte a certe richieste («Pizza Bismarck, con uova e asparagi? Ja’, ma come fai?»), non si arrende al fatto che il suo sia solo un lavoro e prova a intuire mondi dietro ai fugaci scambi con i clienti. Alla fine gli «piace fare il rider» perché è «sempre meglio che stare otto ore chiuso in fabbrica o in un call center. Almeno giri la città ascoltando musica». Candido (La nave di Teseo, dal 12 marzo) di Guido Maria Brera con il collettivo I diavoli è invece una rivisitazione del pamphlet voltairriano dove l’ottimista è proprio il rider che, nonostante spinga come un ossesso sui pedali in una città sfregiata da una disuglianza economica estrema, non dubita della superiore saggezza dell’algoritmo e si beve le sedative banalità ammanite dall’onnipresente ologramma Pangloss. Salvo resipiscenza finale, dopo che «una serie di tragicomici eventi fa maturare in lui il disincanto ed esplode la rabbia di chi si accorge di essere solo una minuscola parte di un ingranaggio di una società al collasso nella quale solo i più ricchi possono sopravvivere». Ovvero, dettaglio biografico non omettibile, quelli come l’autore che è capo degli investimenti del Gruppo Kairos Julius Baer.
CICLOFATTORINI COME SERVIZIO PUBBLICO
Durante la pandemia, peraltro, avevamo assistito al paradosso dei rider, cui veniva riconosciuto lo status di lavoratori essenziali, e il trattamento miserrimo. Ne avevamo scritto in un pezzo che iniziava così:
Contactless, nel lessico famigliare dei riders, assume oggi tutto un'altro significato. Non c'entrano le carte di credito che basta appoggiare sul lettore e che buona parte di loro non ha mai posseduto. Ha invece a che fare con le nuove modalità di consegna ai reclusi. Ce lo spiega Gabriel, ciclofattorino a Bologna in attesa di mettere a frutto una laurea in psicologia: «Appoggiamo l'ordine sul cubo. Ci allontaniamo. Aspettiamo che il cliente esca, lo recuperi e solo dopo possiamo avvicinarci per recuperare la borsa frigo». Due passi avanti. Due passi indietro. Due passi avanti. Un balletto triste, senza contatto. In teoria, almeno, perché poi «c'è la mamma giovane con il bimbo di sei mesi in braccio che ti apre prima ancora che tu abbia suonato al campanello o i ragazzini di quattro-sei anni che ti corrono incontro passando sotto le gambe del papà che, con la mascherina, presidia la porta». Il protocollo fa acqua da tutte le parti. E a Gabriel tocca improvvisare. Bei tempi quelli in cui fare il corriere era solo un problema di salari scandalosi (si coglie l'ironia?). Adesso è anche questione di non contagiare e non ammalarsi. Con i tassisti e gli autisti di bus vuoti i corrieri sono gli unici che vedi sfrecciare per le strade deserte delle nostre strade di notte. Da ultima ruota del carro del diritto del lavoro a servizio pubblico de facto. Quanti paradossi per un pugno di euro. Abbiamo provato a ricostruire com'è cambiata la loro giornata tipo.
"POSSO USCIRE O NO?"
L'incertezza inizia dalla mattina: «Posso uscire o no?». Perché i cerchi concentrici sempre più stretti dei decreti del presidente del consiglio potrebbero aver cambiato le cose. Dunque, mi spiega Gabriel, un po' ascoltando le dirette di Conte, poi spulciando tra le pieghe dei decreti e infine confrontandosi nelle nostra chat interna via WhatsApp, si cerca di capire se il food delivery è stato citato. E come. E se, tra le varie misure di sostegno annunciate per chi perde il lavoro o lo mantiene pesantemente decurtato ci sono anche loro («Per il momento mi sembra proprio di no»). Nel capoluogo emiliano, quartier generale del sindacato sociale Riders Union Bologna, ormai lavorano quasi solo gli immigrati. Gli italiani chiedono un reddito di quarantena perché, dicono, «una pizza non vale il rischio». Gabriel è uno dei pochi superstiti: «Il perché è semplice: non ho alternative e mi servono i 500 euro che, in media, porto a casa al mese». Nella sfortuna lo è però meno di altri perché lavora per MyMenu, un'azienda italiana di consegne che ha sottoscritto la Carta dei diritti dei lavoratori digitali fortemente voluta da Comune e che offre tutele basilari.
CORRIERI ALLA RISCOSSA
I lavoratori del food delivery sono stati anche molto bravi a difendersi da soli. Qui un estratto di uno dei vari pezzi sul tema:
Chiedo a Valerio De Stefano che insegna diritto del lavoro all’università di Lovanio, in Belgio: «L’auto-organizzazione ha pagato ma al tavolo i riders non devono sedersi da soli. Perché non sono gli unici attori dell’economia delle piattaforme e poi l’esperienza negoziale del sindacato è preziosa. La contrattazione, come insegnano agenti e rappresentanti di commercio, può riguardare anche gli autonomi! Così come i salari minimi ai quali, però, il nostro sindacato è storicamente contrario perché teme che da pavimenti diventino tetti». Ricorda il caso della Danimarca, dove un’importante sigla ha firmato il primo contratto collettivo per i lavoratori domestici su piattaforma. Mentre in Spagna, il 4 giugno, un tribunale di Valencia ha condannato Deliveroo per essersi sbarazzata di un lavoratore considerandolo autonomo mentre in realtà l’avrebbe dovuto trattare da dipendente. Un’altra prima nazionale, seguita il 13 giugno dalla decisione storica della Corte suprema britannica di considerare parasubordinato, con ferie e malattia, un idraulico che lavorava per una piattaforma. Per De Stefano sarebbe stupido rifiutare, su basi ideologiche, l’aiuto dei sindacati, anche se riconosce una difficoltà specifica: «Parliamo di lavoratori altamente scolarizzati, con un’autonomia intellettuale assai alta, a cui non si può imporre cosa pensare». Ovvero, nella sintesi di Tommaso Falchi: «Se vengono per ascoltare e poi dare una mano, bene. Noi siamo già partiti e non ci fermeremo». Al Festival dell’economia di Trento ho sentito dire ai manager di Foodora e Deliveroo di non aver firmato la Carta di Bologna perché non possono negoziare città per città. Foodora ha dimenticato di ricordare che in Germania la sua casa madre assume i fattorini mentre in Italia li paga a cottimo. Una differenza che dice più dello spread circa la credibilità dei rispettivi Paesi. Deliveroo ha mostrato slide rasserenanti sulla soddisfazione dei fattorini, guardandosi bene dal menzionare che mentre qui li paga 5,60 euro all’ora più circa 1 euro a consegna, a Parigi sono 5,75 a consegna mentre a Londra gli scala pettorina e borsa frigo dalla paga.
L’allergia delle compagnie tecnologiche verso l’organizzazione dei lavoratori è antica. In un ritratto firmato nell’83 da Tom Wolfe, Robert Noyce, il cofondatore dell’Intel dei microprocessori, ammetteva che «restare non sindacalizzati è essenziale per la sopravvivenza delle nostre aziende». Una convinzione longeva se, a gennaio di quest’anno, dieci giorni dopo che avevano fatto richiesta ufficiale di creare il primo sindacato di ingegneri informatici, 14 programmatori della Lanetix di San Francisco sono stati licenziati, con l’annuncio di delocalizzare in Europa dell’Est. Non ci hanno fatto una bella figura. Come non ce la fanno le piattaforme che hanno snobbato la Carta di Bologna. L’assessore Lombardo, molto a spanne, ha calcolato che aderire agli standard richiesti ridurrebbe di un 2 per cento la commissione di circa il 15 che le piattaforme incassano su ogni ordine. Sono proprio sicuri che sia un prezzo insostenibile per riverginare una reputazione compromessa?
UNA “CATTIVA COSCIENZA” DA POLSO
L’ultima Galapagos:
L'anno nuovo è spesso un momento emotivamente delicato. Suggerisce bilanci, quasi sempre traballanti, inanella propositi e aspirazioni. È bastata quindi la sorpresa che mi ha fatto il mio orologio, un modello base di Apple Watch, per farmi riflettere sul rapporto che da un anno ho sviluppato con questo aggeggio. Che non doveva neanche essere mio, quanto di mia madre (in chiave versione avanzata di salvavita Beghelli che avverte i familiari se c'è una qualche emergenza) salvo scoprire che il suo telefono era troppo vecchio per averci a che fare. L'1 gennaio, tra le notifiche, ce n'era una mai vista prima: «Buon anno, Riccardo!». Che, se ci cliccavi sopra, scatenava una fantasmagoria di fuochi d'artificio sullo schermo da quattro centimetri. Mi ha fatto sorridere (e molto ridere la mia quattrenne di riferimento). Ma dove sta la notizia, dal momento che le compagnie telefoniche da anni ti mandano gli auguri via sms per il compleanno e a nessuno viene mai da rallegrarsene? È che, in un anno, questa specie di braccialetto elettronico ha funzionato egregiamente come "cattiva coscienza". «Alzati in piedi!» ti intima sei stai troppo seduto. Se invece non chiudi i cerchi del minimo sindacale di attività fisica che serve per non morire di infarto domani, te lo ricorda fin quando non ti metti in riga. Sembra niente ma, con questo garbato ma inflessibile nudge, la spinta gentile che ha decretato la fortuna libraria di Cass Sunstein, ho finito per camminare molto di più dell'anno prima. Non solo: tiene traccia delle mie nuotate e mi spinge a fare più vasche. Non so come sia possibile ma, stando bene attento a non scadere nella caricatura dell'adepto del quantified self, funziona. Molto di più di quanto non lo facesse il pedometro sul telefono. Non a caso li chiamano wearables, elettronica indossabile. Un motivo in più per sospendere il giudizio sull'AI Pin, un nuovo minuscolo device senza schermo che, stando alle baldanzose intenzioni, «dovrebbe rimpiazzare gli iPhone». Vai a sapere come va a finire.