#122 L'IA (e altre cose) spiegate benissimo
1) ChatGpt non avrà più segreti per voi 2) neppure la storia degli anni 60, grazie al libro di Enrico Deaglio 3) e anche il Captcha, questo sconosciuto, non sarà più tale
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Prologo
Si tende, mi sembra, a dare meno i numeri delle morti a Gaza. L’ultimo dato di un paio di giorni fa era 15 mila. Tutto è iniziato con un massacro, il 7 ottobre, e sta procedendo con un massacro decuplicato.
UN MINI CORSO CON UN MAXI-PROF
Qualche mese fa ho trascorso tre giorni a Barcellona per farmi spiegare l’intelligenza artificiale da un tipo piuttosto fenomenale che si chiama Marco Del Tredici. Il pezzo è sul Venerdì di oggi, e qui trovate l’attacco:
BARCELLONA. L'intelligenza artificiale fa miracoli. In questa storia almeno due. Il primo è quello con cui ChatGPT e i suoi fratelli (o le sue sorelle?) ci stupiscono ogni giorno, rispondendo a domande terribilmente complesse con una scioltezza preternaturale. Il secondo riguarda un trentottenne di Gallarate, laureato in scienze della comunicazione con una tesi sui romanzi ambientati nel mondo del lavoro, che per un po' ha fatto il giornalista in Liguria, poi il barista a Dublino e ancora a Madrid prima di rimettersi a studiare, imparare da solo a programmare e diventare, in una decina d'anni, un pluripubblicato e stimatissimo computer scientist prima ad Amazon e ora alla canadese Cohere che, con una valutazione di oltre 2 miliardi di dollari, è tra le più promettenti startup al mondo sull'IA generativa. Un'azienda che, per semplificare, sta tentando di superare il limite più imbarazzante di questo tipo di macchine, ovvero l'inaffidabilità fattuale. Cercando di fornire, assieme alle risposte, delle specie di note a pie' di pagina che permettano di verificarne la provenienza. Benvenuti quindi nel sorprendente mondo di Marco Del Tredici che, in una conversazione intermittente lunga tre giorni ci spiegherà, tra le altre cose, come l'algoritmo smonti e rimonti la lingua, come lui e altri come lui stiano provando a ridurre la quantità di sfondoni prodotti dai modelli linguistici e come, nonostante l'effervescenza internazionale di iniziative e leggi per regolamentarla, quella dell'IA fine-del-mondo sia la classica notizia largamente esagerata.
UN CV MOLTO POCO ITALIANO
Per rendere il tutto ancora meno convenzionale Del Tredici ha scelto di lavorare da Barcellona, in modalità fully remote, la versione estrema dello smart working per cui non solo non sei tenuto a mettere piede in ufficio ma neppure a vivere nello stesso continente. Il motivo per cui indugio sul curriculum è che si tratta del percorso di studi meno tipicamente italiano in cui mi sia mai imbattuto. In America, basta leggere qualche romanzo o guardare serie tv per farsene un'idea, niente è più normale di aver studiato poesia all'università e finire a lavorare nella finanza. Da noi no. Per questo risplende il caso di questo umanista convinto, arrivato a Milano Bicocca grazie a una borsa di studio (il padre è imbianchino, la madre segretaria, il fratello e la sorella lavorano nel sociale a Sanremo, dov'è cresciuto anche lui) che dopo una pausa di qualche anno si iscrive a un master di linguistica a Bologna. Lì si appassiona alla semantica computazionale, per cui il significato delle parole è esprimibile (anche) per via matematica, insegnata da Malvina Nissim e decide che vuol fare proprio quella cosa lì. Si mette a imparare il linguaggio di programmazione Python frequentando corsi gratuiti sulla piattaforma Coursera. Fa una tesi su un metodo più efficiente di classificare i testi che poi viene presentata al Lrec, una delle più importanti conferenze internazionali di linguistica. Fa domanda per un dottorato ma nessuno gli risponde e considera di lasciar perdere e dedicarsi alla fotografia quando, in extremis, lo accettano in quattro università diverse e decide per Barcellona. Lavora per Expert Systems, un'azienda modenese specializzata sulla ricerca semantica, utile tra l'altro per capire il sentiment, ciò che le persone in rete pensano di certe aziende. Da stagista ad Amazon lavora ad estrarre dalle recensioni dei prodotti, attraverso modelli linguistici molto più rudimentali di quelli dei chatbot odierni, informazioni utili («Se decine di utenti lodano la durata della batteria e magari nelle specifiche è una caratteristica non valorizzata, è importante segnalarla»). Completato il dottorato ad Amsterdam, nell'estate 2020 Amazon lo assume a Berlino nella divisione Alexa. Deve occuparsi delle risposte time sensitive, in cui il fattore tempo è decisivo («Alla domanda "cosa ha fatto l'Inter" Alexa deve capire che ciò che interessa è il risultato dell'ultima partita») e gestire le domande anaforiche, quelle concatenate in cui il parlante non ripete necessariamente il soggetto («"Chi è Biden? E quanti anni ha?" Per noi è chiaro chi sia sottinteso, per la macchina no»). Ci resta un paio di anni e arriviamo a oggi.
LA STORIA RACCONTATA DA UN FUORICLASSE
Enrico Deaglio si sta cimentando in una contro-storia d’Italia. Bellissima. L’ho intervistato nello Speciale libri del Venerdì:
Si va dalla A di Arendt, intesa come Hannah cronista al processo di Norimberga, alla V di Vigna, come Giovanni in arte John, «che il muscolo insegna» come nella canzone di Gipo Farassino. Dalla cultura al culturismo, e tutto quel che ci sta in mezzo. Non in ordine alfabetico ma cronologico, come si addice ai libri di storia. Perché di quello parliamo quando parliamo di C’era una volta in Italia - Gli anni 60, primo volume di un opus magnum che arriverà ai giorni nostri con cui Enrico Deaglio, dopo i felici esperimenti di Patria, prova a rimettere in fila gli eventi che ci hanno fatto diventare il Paese che siamo. Una «storia sociale pop» la definisce. Dove i singoli anni sono aperti da chi ha vinto il campionato, il Premio Strega, il festival di Sanremo e altre pietre miliari schifate dai manuali. Poi c’è anche tutto il resto. La politica interna, spesso orrenda ma talvolta anche buona (per tutti il misconosciuto Fiorentino Sullo, ministro dei lavori pubblici dc che voleva rivoluzionare il ruolo pubblico nell’edilizia). Quella estera con, una per tutte, la crisi della Baia dei porci e lo strepitoso malinteso di Castro, appena insediato, che chiede ai suoi «Qualcuno di voi è economista?» e il medico Guevara alza la mano avendo capito (male) «comunista» e diventa governatore della banca centrale. Fino al ‘68 («Con più radici cattoliche che marxiste») e il finale con la bomba di piazza Fontana. E ovviamente la mafia, il pièce de résistance del talentuosissimo autore, e i misteri italiani. Tanti. Irrisolti. Forse irrisolvibili. Ma finché c’è giornalismo c’è speranza e Deaglio lo esprime in purezza.
Partiamo da qui. Com’è che, a un certo punto, da Biagi a Mauro, tanti dei migliori si cimentano con la storia: il presente non vi basta più?
«Forse, col passare del tempo, si fa più acuta e netta la percezione di cosa siamo e cosa siamo stati. Nel mio caso, partendo dal ‘60 quando ero tredicenne, ho scelto gli anni di cui sono stato testimone, di cui ho ricordi strutturati. Il tutto raccontato al presente, come una cronaca. Per non dire che quell’anno clamoroso, della Dolce vita, delle Olimpiadi di Roma, è lo stesso da cui parte la memoria dei viventi del nostro Paese, oggi».
Libro ponderoso, con tante bellissime immagini. Ma qual è il modus operandi per decidere quali eventi trattare e quali no? Da dove parti?
«Essenzialmente dalla mia memoria. D’altronde, se non proprio dal 1960 ma da pochi anni dopo, ho anche appunti. Sono cose che ho masticato per tutta la vita in qualità di cronista. Ed erano anni esaltanti, nel bene e nel male: non ci si annoiava mai! E poi mi son fatto aiutare da Ivan Carozzi, giornalista, autore televisivo, di famiglia anarchica massese, grande archeologo del presente con un gusto particolare nel ricercare le cose e i cambiamenti sociali».
In bibliografia metti molto cinema, Youtube e saggistica assai recente: è un modo per evitare l’effetto paludato?
«La rivoluzione digitale ha tolto il monopolio agli storici di professione facilitando noi dilettanti. Quanto al cinema – ad esempio Salvatore Giuliano di Francesco Rosi – ha saputo spesso anticipare la comprensione degli eventi. Più in generale mi appoggio più ai contributi del popolo, intendendo le tante persone che han continuato a studiare e a indagare, rispetto a quelli delle istituzioni, con una politica spesso omertosa e una magistratura talvolta pessima».
Definisci il “canone Deaglio”. Una delle sue caratteristiche mi sembra una voluttuosa rivalutazione dei sottovalutati, dall’attivista Giovanni Ardizzone, falciato da una camionetta dei carabinieri, al giornalista-faccendiere Mike Stern che premierà Berlusconi. Dal «ripugnante» Generoso Pope, burattinaio del Piano Marshall per l’Italia all’anarchico Carlo Tresca. Sbaglio?
«Forse. I miei gusti si sentono, ma ho provato a rispecchiare al meglio lo spirito dei tempi che racconto. Quanto a Tresca è un mio mito. Collaborava con Roosevelt poi, quando diventa chiaro che gli americani attaccheranno i nazisti a partire dalla Sicilia, qualcuno lo uccide. Chi? Mussolini? La mafia? Addirittura il Pci? Mi piace immaginare degli what if, cosa sarebbe cambiato se. Se non avessero ucciso Enrico Mattei, ora finalmente si può dire, perché aveva trovato il petrolio in Sicilia forse la storia d’Italia sarebbe stata diversa. Con il Sud che, oltre che con gli operai sottopagati emigrati al Nord, avrebbe fatto il miracolo con le risorse del suo sottosuolo. Ogni tanto butto lì qualche spunto controfattuale sperando che qualcuno mi venga dietro».
C’è anche molta Torino, la tua città…
«Sì, forse sovrarappresentata. Ma era la città che aveva richiamato 300 mila operai meridionali che vivevano in condizioni di segregazione, quelli raccontati sulla Rai da Brando Giordani e Ugo Zatterin in Meridionali a Torino, un inconsueto e terribile documentario reperibile online. La stessa città in cui spopolava John Vigna da Collegno, con le sue palestre popolari, e il suo Muscoli e bellezza che vendette un milione di copie».
Deaglio, come non stupisce, consiglia il suo libro come Strenna di Natale. La storia che si legge come un romanzo, o come un giornale scritto preternaturalmente bene. Il vostro scriba, per parte sua, gli augura di vendere almeno quanto Vigna.
LA VERITÀ, VI PREGO, SUL CAPTCHA
L’ultima Galapagos:
C'era una volta il Captcha, che sta per Completely Automated Public Turing test to tell Computers and Humans Apart, quel test che molti siti usano per capire se davanti allo schermo c'è un essere umano o un bot. Funzionava mostrando delle lettere storpiate in una maniera che era difficile da interpretare per un software. Funzionava perché il riconoscimento visivo dei bot è migliorato così tanto che non bastava più. E allora è arrivato il reCaptcha in cui bisogna semplicemente cliccare in una casella che dice "non sono un robot". Una sorta di autodichiarazione che a molti sembra sin troppo facile: se un robot poteva riconoscere lettere orrendamente deformate non può capire questo? Il fatto è che reCaptcha analizza il movimento del vostro cursore per arrivare a cliccare sulla casella. Se fosse un robot andrebbe dritto al punto, mentre un umano ha la mano che trema, fa giri meno precisi. Non solo. ReCaptcha analizza anche la vostra navigazione precedente e da quella capisce se siete umani (tipo avete cercato come dimagrire o come ridurre le rughe) mentre un bot se ne impippa. La costante tra le due versioni è che prima chi ha sviluppato i test pagava 0,30 dollari ogni 1000 Captcha collaudati da esseri umani in qualche Paese del terzo mondo, ora paga 1 dollaro intero. Spiega tutto molto bene questo video di una giornalista della tv australiana.