#121 L'onda nera si allarga
1) Cosa c'entra la crisi del welfare e la vittoria di Wilders in Olanda 2) i nipoti dei neonazisti in Svezia 3) gli ex-Casapound espugnano Lucca 4) i suprematisti al Campidoglio 5) fine dei resi?
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Prologo
Nel 2004 Repubblica mi mandò ad Amsterdam per scrivere dell’omicidio di Theo Van Gogh, regista e provocatore, assassinato da un marocchino olandese. Terribile fatto di sangue che il giovane Geert Wilders, inquietante vincitore delle elezioni in Olanda in questi giorni, cavalcò con voluttà mettendo a punto la sua piattaforma islamofoba, sovranista e populista. “El Loco” Milei in Argentina. Gli eredi dei neonazisti in Svezia e quelli dei fascisti in Italia. Lo spettro di un Trump bis in America. La sensazione di assedio cresce. Come e quanto può aver sbagliato la sinistra per essere arrivati sino a qui?
LA FINE DEL WELFARE IN OLANDA
Il risultato di Wilders in Olanda capitalizza vari malcontenti. Uno su tutti la riduzione del welfare in un paese che ne aveva fatto, come una volta noi, il suo baluardo di civiltà. Ne avevo scritto nel 2013:
WEESP. Per chi non ha più la forza di vivere la propria, anche le più incespicanti vite degli altri possono diventare uno spettacolo ipnotizzante. A distanza di sicurezza, però, fuori dalla «zona disagio». Per questo i ponti sopraelevati di legno e vetro qui diventano i belvedere prediletti. Da dove una donna magrissima con una giacca a vento leggera e lo sguardo terreo fissa il lento brulicare di pazienti come lei. Che attraversano i giardini disegnati da Niek Roozen, celebrato artista botanico. O rientrano nei ventitré appartamenti arredati secondo uno dei sette stili di vita che accomuna i sei-sette abitanti di ogni lotto. Quello originario, almeno, prima che l’Alzheimer li rendesse pallidi fantasmi di sé stessi. Niente è lasciato al caso a De Hogeweyk, un ospizio fatto a villaggio per l’accoglienza dei malati neurodegenerativi a meno di mezz’ora da Amsterdam, ribattezzato il Truman Show dei dementi senili. Perché anche la cassiera del ristorante, che fa finta di niente per infondere negli ospiti un’illusione di normalità, è un’infermiera in borghese. Non si tratta, per il possibile, di un posto triste. Diciotto dei 19 milioni di euro che è costato sono andati sul conto dello Stato. In Italia i 5000 euro al mese di retta se li potrebbe permettere un milionario. In Olanda tutti, dal momento che paga la previdenza. Almeno sino al discorso del re che ha osato sfidare l’ultimo tabù: l’intoccabilità del welfare.
Per la rituale apertura dell’anno parlamentare il nuovo monarca Willem-Alexander non ha esordito con frasi di circostanza. Leggendo il testo scritto dal primo ministro liberale Mark Rutte ha invece avvertito il suo popolo che «lo stato assistenziale del XX secolo è destinato a sparire» e al suo posto i cittadini dovevano prepararsi all’idea «di prendersi la responsabilità della propria vita e di quella delle persone che li circondano». Goodbye welfare, hello «società partecipativa», qualunque cosa ciò significhi. Che è un po’ come se gli scozzesi annunciassero solennemente di rinunciare al whisky. Ma al di là dell’enorme valore simbolico del cambio di stagione, in pratica che tempo ci si dovrà aspettare nei Paesi Bassi?
«Questa discussione sulla “partecipazione”, oggi ufficializzata al massimo grado, va avanti da anni» mi spiega il sociologo Cok Vrooman, in una stanza finestratissima dell’Istituto olandese per la ricerca sociale che sovrasta la stazione dell’Aia. Una «ricalibrazione del welfare» che ha moventi economici (la crisi) e morali (c’era chi se ne approfittava, magari dimostrandosi troppo schifiltoso, da disoccupato, di fronte a offerte di lavoro non entusiasmanti). Qualche ritocco è già stato apportato: «Gli studenti devono pagare un po’ di più per l’università, e ci sono condizioni più stringenti per le borse di studio. Si è chiesto ai cittadini di chiudere meglio le proprie case, per prevenire furti. E di evitare gli stili di vita nocivi, come il fumo e l’alcol, che oltre al danno personale hanno un prezzo alto per la sanità pubblica». Dopo tanti diritti, un po’ di doveri, chiesti molto gentilmente. «Il welfare diventerà una co-produzione pubblico-privata» dice Vrooman, soddisfatto della definizione. È sempre lui però a mostrarmi un libro bianco in cui risulta chiaramente che gli olandesi sono ancora molto legati all’idea che lo Stato si prenda cura di una serie di fondamentali settori. Conclusione: «Gli effetti del cambiamento li sentiremo tra una decina d’anni».
Il nuovo film non andrà in onda domani, insomma. Però trascurare i sintomi potrebbe essere grave, avverte l’editorialista del quotidiano Nrc Bas Heijne, nel salotto del suo appartamento stipato di dischi di lirica che dà su un centralissimo canale di Amsterdam. «Se un concerto o uno spettacolo teatrale qui costava un quinto che in Italia non era per magia, ma per il fatto che lo Stato sussidiava l’arte. Quando l’anno scorso, in reazione a un debito pubblico cresciuto di un quarto dal 2008, i tagli hanno smantellato il sistema c’è stato un coro di applausi. Di gente che non si accorgeva che era solo l’antipasto di ciò che sarebbe venuto». Come nel pericoloso disinteresse dei tedeschi per l’escalation nazista che sembrava non riguardarli, nella poesiola del Prima vennero. Pur senza drammatizzare, prosegue Heijne, c’è un governicchio di coalizione che sembra abbracciare acriticamente gli ideali neoliberisti. Una specie di ritorno al futuro, quando il futuro era la Thatcher. Con tanto di privatizzazioni dell’elettricità, dei telefoni e delle poste (con l’assurdo di sei diversi corrieri privati, con altrettanti orari di consegne, prezzi ai massimi e qualità ai minimi).
Segare era dunque inevitabile? I costi sono indubitabilmente assai alti. «Di sanità pubblica va via quasi un terzo del Pil (in Italia siamo sul 15 per cento)» ammette il sociologo Paul Schnabel, nella sua bella casetta in una zona residenziale di Utrecht, «di cui il 16 per cento nelle cure e il 14 nell’assistenza, soprattutto agli anziani», che è un po’ la specialità olandese, «e la spesa – per l’invecchiamento della popolazione, la dipendenza da farmaci internazionali e la necessità di manodopera qualificata – aumenta del 4-5 per cento all’anno». Qui, contestualizza il professore, non abbiamo come da voi tre generazioni di famiglie che abitano vicine e «le badanti sarebbero improponibili, gelosi come siamo della nostra autonomia anche dai figli». Quindi ci pensa lo Stato, ma lo Stato – come da noi, come ovunque – ha sempre meno soldi. E quindi sta valutando anche di ridurre le pantagrueliche indennità di disoccupazione da tre anni a uno.
Per il momento, però, più che la motosega è stata sguainata una lima per unghie. Se c’è uno cui non manca questa consapevolezza è lo scrittore Adriaan Van Dis, rientrato in patria dopo otto anni vissuti in Francia. «Vede quella gente che aspetta un prosecco» dice indicando un vociante muro umano davanti al bancone dello scintillante Cafe de Jaren, «non è l’immagine di un Paese che soffre. A Parigi per strada non c’era neppure un decimo dei deambulatori che abbiamo qui, perché da noi li passa lo Stato. In comune con loro invece abbiamo l’incattivimento. Abbiamo tagliato con gusto i sussidi alla cultura, vista incomprensibilmente come uno spreco, in una sorta di odio verso noi stessi. L’incertezza genera paura, che a sua volta genera nemici. Tipo l’Europa. O gli stranieri. Chi vive nelle banlieues, per il 40 per cento disoccupato, ha un vocabolario di circa la metà di quelli che vivono in centro. Anche noi, dietro l’alibi della tolleranza, ci siamo disinteressati ai nostri immigrati. Spianando la strada a xenofobi come Geert Wilders il cui Partito della libertà sarebbe il primo se si votasse domani». Lo stesso, populista ma nient’affatto scemo, che – assieme a socialisti e pensionati – è saltato alla giugulare del premier all’indomani dell’annuncio, definendolo «Un racconto dell’orrore».
Anche qui c’è un governo di larghe intese, con i socialdemocratici cloroformizzati nell’abbraccio neoliberista. Anche qui, dice il commentatore Heijne che frequenta l’Italia, il panorama politico si è spostato a destra. E la sinistra si fa togliere di bocca le parole d’ordine da formazioni impresentabili. Il generoso stato assistenziale sino a oggi ha retto per un motivo semplice: qui chi guadagna sui 70 mila euro l’anno ne versa oltre metà in tasse. E pagano tutti. Perché sanno che l’amministrazione ha accesso ai conti correnti e comunque si consolano con la certezza che quei soldi blinderanno la loro vecchiaia, assistita dalle cure professionalmente affettuose di infermiere ben pasciute dallo Stato. Il professor Schnabel, per dire, ha una mamma di 96 anni con l’Alzheimer che sta in uno di questi ospizi. Anche quella di Heijne ci ha passato gli ultimi anni della sua vita. Nessun welfare potrà ridare loro la salute, ma garantirne il decoro sì. Si può discutere se sia un lusso o piuttosto uno degli indici più eloquenti del grado di civiltà di un Paese. Che, nel decidere dove risparmiare, due anni fa ha sforbiciato senza tentennamenti un quinto del budget della difesa. Sono scelte.
Esistono dieci criteri clinici per l’ammissione nelle case di cura. «Secondo le nuove disposizioni» mi spiega GertJan Waterink, che lavora per una società convenzionata che ne gestisce due nei suburbi di Amsterdam, «a breve accetteremo solo quelli dal livello 5 in su. Gli altri li assisteremo a casa loro». Si dispiace soprattutto che, con pazienti più gravi, gli ospizi diventeranno inevitabilmente più tristi. Per gli assistiti domiciliari non si preoccupa. A oggi era prevista addirittura una quota per chi dava una mano nelle pulizie domestiche. Forse sarà rivista. «Se avevo i soldi per pagarmela da sano» dissente Van Dis «non si capisce perché non dovrei farlo da malato. È un aiuto che dovrebbe valere solo per i poveri». Questo non è un Paese per falsi invalidi. E quasi nessuno traduce assistenza con assistenzialismo. Tuttavia del margine di correzione c’è. Heijne l’ha scritto in elzeviri e lo conferma: «Criticare è lecito, ma è molto diverso da abolire. Sento montare una retorica per cui lo Stato dovrebbe stare il più possibile fuori dai piedi, per permettere il rinascere di chissà quale nuova empatia all’interno della comunità. Un delirio». Il rapporto commissionato dal governo che il ricercatore Vrooman mi ha mostrato all’Aia si intitola «Responsabilizzare i cittadini sotto la guida del governo». Suona molto «Stato morale», il sociologo lo sa e mi garantisce che non è quella l’intenzione: «Potrebbe venire fuori una nostra “terza via” tra pubblico e privato. Vogliamo solo spingere i cittadini a darsi più da fare, senza considerare scontato il tanto che ricevono». Il contributo degli ottuagenari, in media sui duecento euro quando la pensione di vecchiaia da sola è intorno ai mille, potrà essere aumentato. Giusto una limatina, per il momento.
SVEZIA, GLI EREDI DEI NEONAZISTI IN PARLAMENTO
Tre anni prima, nel 2010 ero andato a raccontare l’ingresso in Parlamento, nella civilissima Svezia, di una formazione sovranista e xenofoba. Anche lì c’entrava la crisi dello stato sociale: quando la gente sta bene non cerca improbabili difensori.
STOCCOLMA. Se siamo la stoffa dei nostri sogni, come sostiene Prospero nella Tempesta, allora quello svedese si è parecchio infeltrito. Dopo quasi un secolo in vetrina sotto il sol dell’avvenire, stropicciato come un santino dai progressisti di tutto il mondo, alla fine si è ristretto. La socialdemocrazia resta, giurano a Stoccolma, ma non è più monopolio dei socialdemocratici. Che escono dalle elezioni di settembre con un triplo disastro. Al 30 per cento e spiccioli toccano il minimo storico dal 1914. Il centrodestra, che li ha quasi superati, per la prima volta resta al governo per due mandati consecutivi. E gli xenofobi SverigeDemokraterna, nel Paese che ha fatto della correttezza politica una religione, entrano in parlamento dalla porta principale. «Siamo semplicemente diventati più europei, più normali» sintetizza Hakan Begtsson, direttore del think tank progressista Arena. Il che significa anche sussidi di disoccupazione più scarsi. Permessi di malattia meno generosi. Sconti fiscali per i ricchi. È la fine di un’èra?
La novità delle novità si chiama quindi Democratici svedesi (Sd). Bel nome, pessime intenzioni. Ossessionati dall’Islam, dalla sua «intrinseca violenza», a sentir parlare di società multiculturale mettono mano alla pistola. Il trentenne Jimmie Akesson, faccia da bimbo, pochette colorata e argomenti feroci, è il leader che ha ripulito l’immagine del partito. Messa a tacere l’anima neonazi, raddoppia il risultato del 2006 e col sei per cento si aggiudica 20 seggi. Kent Ekeroth, stesso volto rassicurante al netto di occhi glaciali, è il suo luogotenente per i rapporti internazionali che incontro al Riksdag. Snocciola, dividendo ogni ragionamento in tre sottocategorie, i motivi economici, sociali e culturali del perché non ne possono più degli stranieri. Dice che se non ci fosse più questo 15 per cento della popolazione (in percentuale il doppio che da noi), i lavori umili li farebbero i disoccupati locali. E che comunque il grosso sono rifugiati e ricongiungimenti familiari, «inutili all’economia» e anzi zavorre per il welfare. «Abbiamo fatto i conti e, se intervenissimo nei loro Paesi, ne potremmo aiutare infinitamente di più. Anzi, proporremo di triplicare i nostri contributi per la cooperazione internazionale».
Nell’attesa della furba generosità, si procede con i cingolati dell’egoismo. Obiettivo: «Ridurre del 90 per cento quelli che arrivano qui». Perché è impossibile integrare «i mediorientali e gli africani: troppe aggressioni e stupri». D’altronde nella sua equazione tendenziosa l’Islam è violenza, come dimostrerebbero le 27 battaglie in cui combatté Maometto, le sure 9.5 e 9.29 che incitano a uccidere gli infedeli e il progetto finale di dominio sulle altre civiltà. «Insomma, le famiglie svedesi scappano dalle città perché sono circondate. Sino a oggi siamo stati molto ingenui: prima abbiamo concesso la cittadinanza e poi, con tutta calma, gli immigrati hanno cercato lavoro. Dobbiamo invertire i fattori». E se la leggendaria Scandinavia vuole ispirarsi alla Bossi-Fini, quasi ripudiata ormai anche da uno dei suoi padri, vuol dire proprio che le cose hanno preso una brutta piega.
A tirare a destra il Paese ha cominciato, quattro anni fa, il primo governo di Fredrik Reinfeldt, leader dei Moderati, la principale forza dell’Alleanza di centro-destra. «Come? Inaugurando una specie di socialdemocrazia light» spiega Per Olav Enqvist, scrittore e coscienza critica della nazione: «Qui nessuno potrebbe mai vincere dicendo di voler abbattere il welfare, ma alleggerendolo sì. E così è andata». Che è più o meno come la racconta anche Leif Pagrotsky, barbuto ministro di quattro governi socialdemocratici: «Hanno rubato tutte le nostre parole d’ordine. Portando il partito verso il centro. E chiedendo ai militanti di mimetizzarsi per assomigliare a noi: “via cravatte e collane di perle”, li istruivano in campagna elettorale». Al punto da proporsi come il partito dei «veri lavoratori», in netta polemica con i socialdemocratici raffigurati invece come i difensori degli scansafatiche a spese della collettività. In quattro anni hanno quindi ridotto il massimo del sussidio di disoccupazione dal 90 all’80 per cento dello stipendio. Messo un limite di 18 mesi al periodo di malattia totalmente a carico dello Stato (poi ci si deve presentare a un centro per l’impiego e cercare un’occupazione compatibile con il proprio stato di salute, cancro incluso). E con questi risparmi hanno finanziato tagli fiscali per 100 miliardi di corone, ovvero il 3-4 per cento del Pil.
Chi si aspettava macelleria sociale ovviamente sarà deluso: siamo pur sempre nella fantastica Scandinavia. «La verità è che la distanza tra i due blocchi è sempre più piccola» spiega Eric Gandini, il regista di Videocracy che vive qui da quasi vent’anni, «e anche nel mio mondo, tradizionalmente di sinistra, c’è gente che ora vota a destra. Le divergenze tra partiti a volte si riducono a fissare in 5 o 7 giorni il termine da cui far partire l’indennità malattia». L’impianto solidale resta intatto, si è solo tagliato via un po’ di grasso. Almeno così la pensa Martin Adahl, capo-economista di Fores, un pensatoio liberale. «Parlerei più di evoluzione che di rivoluzione. In un Paese dove, su 9,5 milioni di persone, circa un milione e mezzo riceve una qualche forma di sussidio, era inevitabile che prima o poi qualcuno tirasse il freno». Tantopiù in tempi di crisi economica globale. Una consequenzialità che Pagrotsky respinge. «L’Ocse ha appena previsto per noi la crescita più alta per il 2011. Il motivo della nostra migliore resilienza sta nella formazione continua dei nostri cittadini: chi veniva licenziato veniva riqualificato gratis. Corsi che la scure del centrodestra ha cancellato. Le differenze tra noi restano ampie. È solo che non siamo stati bravi a spiegarle». Vecchio handicap che tanto familiare risuona da noi. Dunque: «Dobbiamo ascoltare di più. Svecchiare la leadership. Inventarci una nuova narrazione». E anche Enqvist, che lo fa di mestiere, ammette che non saprebbe da dove cominciare.
Verrebbe da dire: Pd di tutto il mondo unitevi, cercate insieme una via d’uscita. Alla Abf Huset, la casa della cultura sulla centrale Sveavagen, c’è un incontro pubblico di analisi del voto. I presenti, una sessantina di persone di ogni età, sperano che Stig-Bjorn Ljunggren li illumini. Più come potrebbe fare un terapeuta, forse, che un politologo. Quando nel 2006 presero il 35 per cento, i dirigenti socialdemocratici parlarono di «catastrofe». Ora sono cinque punti più in basso. Anche per Ljunggren la chiave della vittoria conservatrice è l’aver incorporato la retorica di sinistra. Ma la domanda resta intatta: perché i titolari si sono lasciati portar via l’argenteria? Dice: «Il crollo nei sondaggi, sin lì positivi per Mona Sahlin (segretaria socialdemocratica), ha coinciso con la crisi greca. Gli svedesi si sono spaventati e hanno creduto fosse meglio lasciare il timone nelle mani di Andreas Borg, stimato ministro dell’economia». Poi c’è stato l’errore nella scelta dei compagni di coalizione: «Il capo degli ex comunisti è percepito come radicale fuori dal tempo. I verdi come inflessibili, ad esempio sul nucleare, in una fase economica delicata». E così, di sbaglio in sbaglio, il modello svedese ha perso pezzi. «Soprattutto il sindacato. Ora che i ridotti sussidi di disoccupazione possono gestirli anche assicurazioni private, ha visto fuggire quasi un milione di iscritti».
Era un sistema troppo generoso, sostengono alcuni, non poteva durare. «In media i rifugiati impiegano sette anni prima di trovare un lavoro» fa notare Adahl, «nel frattempo vivendo di sussidi». Una delle statistiche preferite dall’Sd, questa, che ha declinato il tema in uno spot censurato dalle tv nazionali. Mostrava una fragile vecchietta superata e quasi schiacciata da un’orda di donne in burqa nel tentativo di raggiungere uno sportello pubblico che eroga aiuti economici. Pagrotsky non ci sta. Rivendica: «Era generoso, ma non troppo. Eravamo meglio degli altri, ora invece siamo nella media». Non sottovaluta le forze xenofobe: «Temo che non siano un fenomeno temporaneo: cresceranno ancora». Diagnosi condivisa anche dal sociologo Bengtsson: «Sono più intelligenti e subdoli che in passato». E Lars Linder, critico culturale del Dagens Nyheter, il principale quotidiano nazionale, propone un’analogia: «Sono ripuliti, sì, ma restano fascisti. Un po’ come Fini da voi». Reinfeldt, la cui Alleanza non ha una vera maggioranza per governare, ha assicurato che non cercherà il loro aiuto. Oltre che razzisti, nella capitale della parità sessuale, hanno solo due deputate. L’ariano Ekeroth non se ne cura: «La gente è stanca. La prossima volta prenderemo ancora più voti». È la nuova sindrome di Stoccolma, ma non c’è angolo d’Europa al riparo dal contagio.
LA MARCIA SU LUCCA
Anche noi non ci facciamo mancare niente. Come dimostra l’affermazione alle ultime comunali a Lucca di una lista di ex-Casapound. L’incipit:
LUCCA. A domanda di Aldo Grandi, autore di una biografia di Almirante, di una fatwa contro la salute della Boldrini e direttore di La gazzetta di Lucca, il neo-assessore Fabio Barsanti risponde di essere stato con Casapound a Milano per festeggiare i fasci di combattimento fondati da Benito Mussolini cento anni prima. «Allora hanno ragione quando dicono che lei è, fondamentalmente, fascista?»: «Non l'ho mai negato». «Legislazione razziale?»: «Un errore». «La Repubblica di Salò?»: «Un onore». E via amabilmente conversando di quando ci vollero venti di sinistra per picchiare lui da solo. L'intervista, impeccabilmente titolata «Fabio Barsanti, fascista senza se e senza ma» è dell'8 aprile 2019 ma non si trova più sul sito che la ospitava, per un repulisti generalizzato degli archivi. Un disservizio che non sarà dispiaciuto per ambizioni istituzionali del fondatore di Casapound nella cittadina toscana una volta famosa per essere la mosca bianca democristiana in terra di comunisti. E che oggi ha aggiornato l'anomalia virando decisamente sul nero.
Al secondo turno del 26 giugno scorso i pochi votanti andati alle urne (4 su 10) hanno mandato con una maggioranza risicata (51 per cento) al governo della città Mario Pardini, ex presidente di Lucca Comics, con il cospicuo supporto (la sue liste hanno preso il 9,5%, solo un punto in meno di quella del sindaco) del neofascista Barsanti. Che, per rendere possibile l'exploit, a differenza di cinque anni fa non si è presentato sotto le insegne di Casapound (che pure, con l'8 per cento, fece segnare il record nazionale) ma con quelle della neonata Difendere Lucca. Da chi Barsanti non me l'ha voluto dire. Né ha voluto rispondere a qualche domanda in più sulla sua visione del mondo. Un'occasione persa per provare a capire com'è stato possibile che pezzi di società civile di sinistra, un sindaco in quota Pd e consiglieri cinquestelle abbiano tranquillamente appoggiato un fan del Ventennio. E, soprattutto, se il risultato è frutto di un peculiarissimo cortocircuito locale o si tratti invece di un esperimento di sdoganamento estremo – l'ultima volta che ho controllato avevamo pur sempre una Costituzione antifascista – che potrebbe fare scuola su scala nazionale. (Prosegue qui).
RITRATTO DI UN TERRORISTA AMERICANO DA GIOVANE
E poi è arrivato l’assalto a Capitol Hill, ispirato da Trump che ciononostante è il favorito alle prossime elezioni. L’incipit del profilo di uno dei leader dell’insurrezione (il pezzo integrale qui):
Eureka (Montana). Era iniziato tutto con un cha cha cha a Las Vegas, piedi allineati e poi il destro in fuori, un-due-tre, per finire con un tragico passo dell'oca a Washington, con gli ultras di Trump all'assalto del Campidoglio, teleguidati dall'aspirante ballerino di trent'anni prima.
Parliamo di Stewart Rhodes, fondatore degli Oath Keepers, "I Custodi del Giuramento" costituzionale, che è stato giudicato colpevole di "cospirazione sediziosa" per il tentato golpe del 6 gennaio 2021 (no, non è quello con le corna, è quello con la benda nera sull'occhio) e ora in carcere rischia di restarci sessant'anni. E parliamo di Tasha Adams, l'ex moglie con cui ha avuto sei figli che lui terrorizzava con la pistola quando non provava a strangolarli.
Ora lei siede a un tavolo della sala sul retro del North Point, "Bar, Grill & Casino", ambiziosa dizione per quello che di fatto è l'unico locale di Eureka, 1.400 abitanti a un passo dal confine col Canada, "Una piccola città con un cuore grande" come rivendica il sito del Comune. Anche questa donna, quanto a dimensioni cardiache, non è messa male. E, oltre a farci da guida nel labirinto delle ossessioni di quello che per tanti anni, a dispetto di ogni ragionevolezza, è stato il suo uomo, ci racconta anche la resistibile ascesa e l'inevitabile declino di un terrorista americano.
FINE DELL'ERA DEI RESI GRATIS?
L’ultima Galapagos:
Ho restituito un robottino lavapavimenti. La batteria durava pochissimo, non faceva la mappa della casa, un mezzo disastro. Per una serie di complicazioni, l'ho restituito l'ultimo giorno utile, a quasi un mese dall'acquisto. Ovviamente dopo averlo usato per accorgermi che non andava bene. L'addetta Amazon non ha fatto una piega e, con la consueta gentilezza extraterrestre, mi ha riaccreditato la spesa. Ora, mi chiedo (ne avevo già scritto qui), per quanto tempo ancora potremo abusare della loro pazienza? Un articolo di Fortune calcola in 816 miliardi di vendite perse nel 2022 il costo delle merci restituite da tutti i negozi online, negli Stati uniti. È una cifra spaventosa che, tra trasporto e imballaggio, ha peraltro generato circa 24 milioni di tonnellate metriche di emissioni di CO2. Tra le contromisure i rivenditori stanno cercando di accorciare il periodo di reso, limitare i resi frequenti (quorum ego) e far pagare le spese di spedizione. Ma soprattutto evitarli alla radice utilizzando camerini di prova virtuali, potenziando le guide alle taglie e le descrizioni dei prodotti. In Europa siamo già di manica meno larga. Da noi il 74 per cento degli ecommerce di abbigliamento li addebita già (costo medio è di 3,40€ per il consumatore finale) mentre il cambio con altri articoli è gratuito nella maggior parte dei negozi (78 per cento), stando all'ultimo rapporto di iF Returns, una piattaforma specializzata a monitorare questo tema. Anche in America la percentuale di chi ha cominciato a far pagare almeno la spedizione è passata dal 33 al 41 per cento nel 2022. L'èra dei resi gratis potrebbe avere gli anni contati.