#114 Che tempo farà
Ieri a Reading, la sede del meteo europeo, per capire come si raccolgono i dati e come si modellano; oggi a Bologna per domandare: com'è che, apparentemente, le app ci beccano di meno?
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Prologo
Sono in Svizzera. Versione breve dal trenino panoramico da Montreux a Ginevra.
I METEOROLOGI NON USANO LE APP
Sei anni fa, al culmine della celebrità delle app meteo, ero stato a Reading, in Inghilterra, nel centro meteo più affidabile al mondo, quello che raccoglie i dati e li elabora per gli stati europei. Nel frattempo l’ECMRWF si è allargato e ha traslocato il suo centro di calcolo a Bologna. E sono andato lì per cercare di verificare una spiacevole intuizione: non è che, nonostante il passare del tempo, le app ci beccano un po’ meno di prima? (Accidentalmente ho anche scoperto che, forse unico caso in tutta la Ue, l’Italia non ha ancora un meteo civile nazionale ma tanti meteo regionali che producono sprechi e duplicazioni). Questo è l’inizio del servizio sul Venerdì in edicola:
Bologna. La notizia è che i meteorologi non usano le app meteo. Non quelle italiane, almeno. Matteo Dell’Acqua che, a dispetto del nome, è nato da genitori pugliesi a Rouen, nell’umida Normandia, lo ammette candidamente: «Il motivo è che qui, a differenza del resto d’Europa, non è ancora in funzione un servizio meteo nazionale. E delle app commerciali non mi fido perché non so con quali metodi facciano le previsioni. Consulto giusto Yr, la app del meteo norvegese, mentre quando lavoravo a Tolosa usavo quella di Météo-France, con la sua bellissima funzione che ti dice quante probabilità ci sono che piova entro la prossima ora. E mi consentiva di decidere, al minuto, quando rientrare a casa in motorino senza beccarmi neppure una goccia di pioggia». Quando si dice avere il mondo in tasca. Con il cielo a portata di clic. Un lusso che, pur nell’orgia di applicazioni ormai pubblicizzate anche in tv (o forse proprio per questa superfetazione), ci resta sostanzialmente precluso. Tot app, tot sententiae, parafrasando un vecchio brocardo. Con la netta sensazione, smentita però da Dell’Acqua, che dirige la sede italiana dell’European Centre for Medium-Range Weather Forecast (Ecmrwf), che negli ultimi anni l’affidabilità delle previsioni sia addirittura peggiorata. Circostanza decisamente controintuitiva giacché più aumenta la capacità di calcolo dei computer e la sofisticazione dei modelli, più dovrebbe crescere l’attendibilità del risultato. Eppure il dubbio, appiccicoso, resta.
Dentro l’ex Manifattura
Siamo nella spoglia sala riunioni dell’Ecmrwf, via Stalingrado, 10 minuti a nord della stazione, in quella che una volta era la gigantesca Manifattura tabacchi bolognese. Sei anni fa l’Emilia Romagna ha vinto la gara per accasare qui il centro di calcolo del celebre centro meteo europeo, stracciando la concorrenza di finlandesi, islandesi e britannici (tra i punti forti la presenza nei paraggi di un altro supercomputer Cineca che oggi, assieme a quello del meteo, fornirebbe quasi l’80 per cento della potenza di calcolo nazionale). Dell’Acqua, magro, scamiciato, con un delizioso accento francese che ingentilisce l’eloquio tecnico, non si capacita del fatto che da noi sia tutto un cacciucco di servizi meteo regionali, alcuni dei quali funzionano benissimo (tra tutti Toscana ed Emilia) e altri molto meno. Con un incomprensibile spreco di risorse dovuto a duplicazioni e italico campanilismo su cui torneremo dopo.Nell’attesa che il miracolo dell’unificazione dei meteo si compia, l’attività dell’Ecmrwf procede indisturbata. Mettendo a disposizione di 35 Stati europei che a vario titolo fanno parte del consorzio, il proprio modello previsionale: «Medium range vuol dire da 3 a 15 giorni. Short range da 0 a 3». È il migliore al mondo anche considerando il Gfs 27 americano. In estrema sintesi funziona così. Per prima cosa qui ricevono giornalmente 800 milioni di “osservazioni”, ovvero dati da stazioni meteo sparse per il pianeta, satelliti, aerei e altri sensori dell’atmosfera. Poi li ripuliscono, scartandone con cognizione di causa nove su dieci (per non sovraccaricare il sistema) e li fanno processare dalla batteria di super-computer che sono i veri ospiti di riguardo di questi locali. Per aumentare l’affidabilità delle previsioni il modello matematico ne calcola anche cinquanta versioni diverse, il cosiddetto Ensemble, con alcuni parametri leggermente modificati. Alla fine, tenendo conto delle rilevazioni dirette e dell’insieme delle variazioni, il sistema scodella quattro previsioni al giorno, ogni sei ore, che diventano la base dei meteo pubblici europei e di una serie di clienti commerciali.
IL CIELO DIVISO IN TANTI QUADRATINI
Un estratto della puntata precedente da cui era già chiaro che l’attendibilità dipendeva sopratutto dalla risoluzione della griglia in cui l’atmosfera è divisa a uso dei modelli matematici. Allora il quadrato dell’ECMRWF aveva un lato di 18 km, oggi 9. I meteo regionali intorno ai 2,5 km e per questo possono vedere anche un temporale che altrimenti, a una risoluzione minore, può andare perso. Un estratto:
Tim Hewson, un inglese alto e dinoccolato, è il principal scientist di questo consesso internazionale di 360 intelligenze che, dopo arduo concorso, si sono accasati qui dai 22 Paesi europei che ne finanziano il budget da 80 milioni di euro all’anno. «Se si tratta di rispondere alla domanda secco-soleggiato o piovoso-nuvoloso» esordisce «direi che sulle previsioni fino a 7-8 giorni siamo ormai a un tasso di attendibilità dell’80 per cento». Che cambia però col livello di risoluzione. Perché il cielo, ai loro fini, è una scacchiera di tanti quadrati da 18 chilometri di lato. Beccare che tempo farà al loro interno è una sfida, ma senz’altro inferiore rispetto a stabilire quel che succederà nelle centinaia di metri che ci stanno esattamente sopra la testa. «Se si passa dal livello del quadrato a quello puntuale» dice Hewson «il tasso di probabilità precipita da 80-90 a 40-50 per cento». Quello del lancio di una monetina. Ma le app, in tutto questo?«I loro risultati sono suscettibili a tre ordini di fattori: i dati che usano (i nostri, quelli americani del Global Forecast System o altri ancora); l’elaborazione informatica che ci fanno sopra; la scelta di termini o pittogrammi con cui riassumono il tutto». Perché, alla fine, a un povero cristo serve solo una risposta: ombrello o no? «E se i risultati dicono probabilità di precipitazioni del 40 per cento è il caso di mettere l’icona della pioggia? Il più delle volte mi sembra che la loro risposta sia sì».Lo chiamano wet bias, la preferenza per l’umido, di cui è largamente accusata, ad esempio, la popolarissima app della Bbc rispetto ai vari concorrenti britannici, compreso l’autorevole Met Service. E lì non c’entra la statistica ma la psicologia: perché si dà per scontato che un utente si arrabbi molto di più se si è bagnato perché nessuno l’aveva avvertito rispetto al piccolo fastidio di essersi dovuto portare dietro un k-way invano. A scanso di equivoci, tuttavia, Hewson app non ne usa. Ma per non risultare troppo snob confessa di aver scaricato sullo smartphone (qui sono immuni all’obsolescenza programmata e va ancora l’iPhone 4 e altri modelli tendenti al modernariato) Yr.no, applicazione norvegese «che fa una buona elaborazione propria».
Come avvistare Irma
L’ingrediente principale, la materia prima di ogni previsione, restano le osservazioni. Ovvero la data assimilation, l’acquisizione dei dati dalle fonti più disparate. Tony McNally ne è il responsabile per i satelliti, e, per l’occasione, si è cambiato i bermuda per un paio di pantaloni lunghi (eccezion fatta per la direttrice generale, la francese Florence Rabier, la preoccupazione per l’abbigliamento si piazza undicesima in una classifica di dieci). I sistemi convenzionali sono ancora barche, aerei e palloni aerostatici che registrano temperature, venti e pressione ma ormai «il 98 per cento delle informazioni viene dai satelliti» spiega mostrandomi una simulazione in cui si vede come, senza di quelli, non avrebbero visto il devastante uragano Irma del 2017 se non il giorno prima, quando ormai sarebbe stato troppo tardi per mettere in salvo la popolazione (ci sono stati comunque 134 morti, ma avrebbe potuto essere una carneficina). «Oggi i satelliti sono circa una trentina, perlopiù americani ed europei, ma se continua così in dieci anni la Cina ne avrà messi in orbita altrettanti, diventando la numero 1, anche se per il momento puntano più sulla quantità che sulla qualità». Molte startup promettono di poter lanciare piccoli satelliti a una frazione del costo degli attuali. La californiana Saildrone ha sviluppato imbarcazioni a pilota automatico che riuscirebbero a monitorare le condizioni degli oceani, variabile meteorologica importantissima ma per il momento poco pattugliata. «Sono totalmente laico nei confronti di ogni innovazione, anche privata. A oggi parliamo di tante affermazioni ambiziose ancora da verificare. E noi stessi ne testeremo alcune. Quindi, benvenute le startup».D’altronde quello delle previsioni del tempo è anche un mercato, valutato dalla Wharton School in 6 miliardi di dollari. Le aerolinee, le piattaforme petrolifere, l’agricoltura o i futures sulle materie prime sono solo alcuni dei settori disposti a pagare caro per sapere che tempo farà. L’altro gran salto riguarda l’intelligenza artificiale: «I milioni di dati spediti dai satelliti devono passare un vaglio preliminare, l’equivalente di qualcuno che ci dia un’occhiata e dica se sono affidabili o no. Considerata la mole, quella risposta la dà e sempre più la darà l’Ia».
A pranzo la preparatissima portavoce Hilda Carr, una francese che prima lavorava per il suo governo, mi mette a tavola con tre italiani. Tra una minestrina di verdura e un’insalata, nella migliore tradizione nosocomiale delle mense dei centri di ricerca pubblici, l’abruzzese Francesca Di Giuseppe, il torinese Gianpaolo Balsamo e il romano Massimo Bonavita provano a spiegarmi alcuni concetti chiave. Tipo il geopotenziale, ovvero una misura della pressione sopra il livello del mare, cruciale per le previsioni. O la differenza tra caos deterministico (quello che governa l’atmosfera, che in teoria risponde a leggi fisiche deterministiche come gravità, velocità dei venti, temperatura ma in pratica è difficilissima da predire perché quelle leggi fisiche sono non lineari e un piccolo errore si amplifica in maniera esponenziale nel tempo) e caos quantistico (quello della meccanica omonima, per cui l’incertezza è anche teorica e al più si può calcolare la probabilità di dove si troverà un elettrone). E soprattutto la recente svolta epistemologica del passaggio tra previsione numerica del tempo (Numerical weather prediction), che teneva conto solo dell’atmosfera, all’Earth System Model che invece include anche l’interazione su di essa della superficie della Terra, ovvero la presenza di foreste, campi agricoli o ghiacciai in scioglimento. Perché ciò che dobbiamo immaginare è che, da una parte, c’è la Terra vera, quella che abbiamo sotto i piedi, e, dall’altra, la Terra Modello, ricostruita matematicamente nei calcolatori per emularne il funzionamento. Una volta disegnate le equazioni che la descrivono queste vengono fatte eseguire, a mezzanotte e a mezzogiorno, dagli algoritmi.
Epilogo
Tutto questo per dire che le app semplificano. E, semplificando, possono dare responsi sbagliati. Forniscono utili indicazioni ma non sono oracoli. Nemmeno quella norvegese molto lodata dai professionisti.