#112 Di golf, woke capitalism, ricchi e altre storie
La Ryder Cup, sconosciuta di successo; così il capitalismo prova a rifarsi una verginità; tassate i ricchi chiede una multimilionaria; una sfavillante neo-normalista
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Prologo
Per quanto mi riguarda il più rilevante, incommensurabile accadimento di oggi è che la mia figlioccia Bianca ha superato gli esami per entrare in Normale, dove studierà storia. In un diluvio di cattive notizie, eccone una incontrovertibilmente buona. Per lei, per i suoi (dietro ogni grande giovane donna c’è una grande famiglia, anche se spesso non basta) e per lo scriba qui presente. Ma anche per gli altri che non hanno (ancora: la ragazza farà strada) la fortuna di conoscerla. Perché una tipa così giovane e insieme così sveglia io non l’ho mai incontrata. Tutta cervello, ma anche tutta passione (soprattutto politica), che la rendono uno sfolgorante e irresistibile unicum umano. Una carriera scolastica esclusivamente e orgogliosamente pubblica. Un ascensore sociale tutto azionato da lei (no figlia di, nipote di, cugina di normalisti o altri ottimati accademici pisani). Una maturità andata ovviamente molto bene ma non perfetta come tutti ci aspettavamo seguita da una remuntada fenomenale al test di ingresso dove, verosimilmente, ha annichilito la commissione. Bella storia per me ma di cui possiamo rallegrarci tutti. Viva!
METTERE A REDDITO LE BUCHE DI ROMA
Tra meno di due settimane si disputerà a Roma la Ryder Cup di golf, venduto come “il terzo evento sportivo più seguito al mondo”. Com’è che a Roma nessuno ne sa niente? Abbiamo indagato in un pezzo oggi sul Venerdì. Un estratto:
Il movente di questo pezzo però non è quello di verificare il cronoprogramma di un manager che, da sei anni, non fa altro da mattina a sera e, con ogni probabilità, porterà a casa il risultato. Il quesito di fondo è decisamente più terra terra: com'è che di questo mega evento, a trenta giorni esatti dall'inizio, in città non c'è praticamente traccia? Roma, si sa, è metropoli non facilmente suggestionabile. Ma anche per gli standard dell'Urbe-struzzo che ogni cosa digerisce è sorprendente come la kermesse del golf mondiale dentro al Gra sia essenzialmente non pervenuta. Voglio dire: per l'ePrix, la corsa di auto elettriche che per un giorno a luglio ha bloccato l'Eur, gli avvisi sui pannelli elettronici c'erano da settimane, forse mesi prima. Mentre qui parliamo di una manifestazione con un indotto calcolato dalla società di consulenza Kpmg tra i 500 milioni e il miliardo di euro per la città e non vola una mosca? Nel suo ufficio al Coni dove si svolge la prima parte della nostra conversazione Montali contestualizza: «È la quarta volta nella sua storia quasi centenaria che la Ryder Cup (da Samuel, il britannico divenuto ricco vendendo semi da giardino, che nel 1927 donò la coppa, ndr) viene disputata fuori da Stati Uniti o Regno unito. Come siamo riusciti a convincere gli organizzatori inglesi di Ryder Cup Europe, battendo concorrenti come Germania, Turchia o Austria che ha 130 mila tesserati contro i nostri 86 mila? Con un progetto ambizioso, che durerà dodici anni (dal 2015 al 2027) e che, attraverso tutta una serie di attività, 12 Open, 100 tornei, accordi con 200 scuole e così via punta a far crescere il golf, cambiandone la percezione da sport elitario a popolare, per famiglie, donne e bambini inclusi». Vasto programma, di cui la Ryder Cup è solo il gioiello della corona, da realizzarsi grazie a un budget di quasi 160 milioni di euro, originariamente sottoscritto con entusiasmo dal governo Renzi (con 60 milioni a fondo perduto e 100 di garanzie) ma poi confermato dai quattro esecutivi successivi, sino all'ultimo ministro dello sport Andrea Abodi («Un interlocutore affidabilissimo») che sarà quello che taglierà il nastro. Soldi pubblici spesi bene o un indebito sussidio a uno sport per ricchi, per di più con ammodernamenti milionari per una struttura privata che poi li capitalizzerà?
SE IL CAPITALISMO SI RIVESTE DI BONTÀ
Sempre sul Venerdì in edicola un secondo pezzo che decostruisce il cosidetto “capitalismo woke” a partire dal libro omonimo di Carl Rhodes (Fazi Editore). L0incipit:
Aridatece Gordon Gekko. Almeno, quando nel film Wall Street arringava l'uditorio rivendicando che «l'avidità è buona», era brutale ma sincero. Oggi siamo decisamente in un'altra fase. Come le spalline imbottite dei completi anni '80 ora non si porta più nemmeno l'impenitente orgoglio capitalistico. Con le aziende storicamente più inquinanti in prima fila nel denunciare, in uno spericolato greenwashing, l'urgenza climatica. O la platea di Davos, a un'occhiata molto superficiale, straziata dalla piaga della disuguaglianza economica. Benvenuti quindi nell'èra del "capitalismo woke", ovvero consapevole, socialmente avvertito, come da titolo del bel libro dell'australiano Carl Rhodes, che finge di essere più buono cavalcando cause che fanno tanto rumore e non costano niente. Tipo i diritti dei gay, la mascolinità tossica, il razzismo. Le quali, tranne una sparuta minoranza trogloditica, mettono d'accordo sia destra che sinistra. Mai, fa notare l'autore, che una qualsiasi di queste aziende il cui cuoricino sanguina per ogni diritto civile denegato osi citare un diritto economico, tipo pagare meglio i propri dipendenti, lasciare che si organizzino in sindacati o, tabù dei tabù, fare fino in fondo la propria parte pagando le tasse. Con Rhodes parliamo via Zoom da Sydney, dove è preside della Business School alla University of Technology.
Quando nasce il termine woke, nella sua accezione attuale?
«Significa essere svegli, all'erta rispetto a ciò che succede nella società intorno a noi. Nasce nel lessico afro-americano degli anni 60, rispetto al razzismo sistemico denunciato dal movimento dei diritti civili. Fa capolino nel titolo di un importante discorso di Martin Luther King. La pluripremiata musicista Erykah Badu nel 2008 inserisce "I stay woke" in un suo album. Ma il termine diventa mainstream nel 2013, all'indomani dell'uccisione di Trayvon Martin e della nascita del movimento Black Lives Matter. È in quel momento che appare l'hashtag #staywoke, l'invito a non assopirsi durante quella rivoluzione».
È COSÌ DIFFICILE DIRE: TASSARE I RICCHI?
Incredibilmente la settimana scorsa mi sono dimenticato di rilanciare la copertina del Venerdì con uno dei pezzi cui tengo di più: l’intervista ad Abigail Disney. Qui l’attacco:
NEW YORK. Ecco una milionaria che capisce al volo il concetto più ermetico per i suoi compagni di ricchezza: filantropia non è sinonimo di tasse. Ovvero, per essere più chiari, non è che Jeff Bezos può compensare la ridicola aliquota reale dell'1 per cento, da calcoli di Propublica, con qualche occasionale donazione miliardaria, stabilita in totale autonomia. «La filantropia» spiega in maniera cristallina Abigail Disney, nipote di Roy che con Walt ha fondato l'impero di Topolino, «è la cosa in più che puoi fare una volta che hai pagato le tasse. La prima è volontaria, le seconde obbligatorie». Non dovrebbe servire una laurea a Stanford e un dottorato in filosofia alla Columbia come quelli che ha questa sessantatreenne regista e produttrice per afferrare la scomoda verità. Eppure, appena un anno fa, Elon Musk (che ancora nel 2018 pagava zero dollari di tasse sul reddito) insorgeva contro una proposta di legge che puntava ad alzare lievemente le tasse sui miliardari sostenendo che «prima vengono per me, poi per tutti voi», lasciando oscenamente credere che quelli come lui che hanno duecento e rotti miliardi di dollari in banca e la famiglia americana media che ha 5300 dollari sul conto fossero, più o meno, sulla stessa barca.
I «Patriotic millionaires», il gruppo di ultra-ricchi di cui l'erede Disney fa parte, chiedono invece una cosa semplice: tassateci di più. Non perché sono autolesionisti ma perché sanno benissimo che, anche se li ascoltassero, continuerebbero a dormire tra quattro cuscini mentre, se fossero meglio distribuiti, i soldi ottenuti toglierebbero dal letto di Procuste milioni di americani impegnati in un incessante corpo a corpo di conti che ogni mese non quadrano. Ed è proprio a questo rimpicciolimento di aspettative e al drammatico allargamento del fossato tra i più ricchi e i più poveri, ai massimi in America ma peggiorato anche in Italia, col 5 per cento di più fortunati che detiene più ricchezza dell'80 per cento dei meno fortunati, che ha dedicato il documentario «The American Dream and other fairy tales». Che inizia quando alcuni addetti di Disneyland, il parco a tema originario ad Anheim, California, che da piccola lei considerava una specie di giardino privato, la invitano ad andare a trovarli per capire in quali condizioni siano ormai costretti a lavorare. Così prima compare una veterana che racconta con orgoglio i suoi 45 anni nell'azienda, con le spillette-fedeltà accumulate nei lustri. Poi Ralph Blair, sposato a sua volta con un'altra hostess del parco, arrivato a dormire due ore per notte a causa di turni massacranti dovuti a ripetuti tagli del personale. «Una volta, qualsiasi nostro dipendente poteva permettersi una vita dignitosa, con l'assicurazione sanitaria e tutto il resto» spiega Abigail «e sapeva che se lavorava duro nessuna carriera gli era preclusa. Ma ora non è più così». In verità quella promessa implicita comincia a sfaldarsi quarant'anni fa. «Più esattamente quando Reagan diventa presidente e, oltre a tagliare le tasse a chi non ne aveva bisogno, ingaggia una guerra vittoriosa contro i sindacati. Era il 1981 e tre anni dopo, alla guida di Disney, arriva Michael Eisner e, con lui, il primo sciopero nella storia dell'azienda. Di gente, badate bene, che non chiedeva di essere pagata di più ma solo di non avere il salario decurtato. D'altronde il neoliberalismo di Milton Friedman, entusiasticamente abbracciato da Reagan, prescriveva che i lavoratori da risorse erano diventati costi fissi. Meno ce n'era, o peggio li si trattava, meglio era per le quotazioni in borsa. Ed è stato l'inizio della fine».
DE MASI, L'ANTI-ITALIANO CHE SCENDEVA DAL CARRO
L’ultima Galapagos:
Domenico De Masi, decano dei sociologi del lavoro, è morto nei giorni scorsi all’età di 85 anni. Era un uomo notevolissimo. Studioso appassionato, aveva un di più di ottimismo sulle sorti comunque progressive del futuro del lavoro. Semplificando brutalmente, quando i robot ci avessero rubato il posto, ci saremmo potuti (come immaginava John Maynard Keynes in un celebre saggio di quasi cento anni fa) all’”ozio creativo”, forse il suo conio più celebre. Su questo non eravamo d’accordo. Ciò non gli ha impedito di coinvolgermi in vari dei moltissimi progetti di studio che partoriva a getto continuo fino a pochi giorni dall’improvvisa scomparsa. Oltre al robusto contributo intellettuale, però, il tratto della sua figura che mi ha impressionato di più e non mi sembra sia stato adeguatamente ricordato è un altro, rivelatore della sua essenziale libertà. Era stato una specie di ideologo del Movimento cinque stelle quando il ribellismo grillino, ancora fermo alla fase del Vaffa, ne aveva particolarmente bisogno. Aveva dato consigli, il “reddito di cittadinanza” su tutti, ascoltato. Ma quando poi i suoi allievi erano andati al governo, e sarebbe stato per lui il momento di incassare con un ministero o altro, aveva preferito denunciare contraddizioni, criticare varie mosse e altrettanti potentati 5S. Che sublime esempio di anti-italiano quello che salta giù dal carro del vincitore. Kudos, prof!
Epilogo
La candidata sale le scale della Normale di piazza dei Miracoli, a Pisa, per il fatidico orale.