#11 In viaggio sulla portacontainer
Lo sciopero di Amazon ha funzionato; i bianchi Usa muoiono assai; un buon click day? Non esiste; il boom degli attacchi Ddos; Renzi viaggia parecchio; tutto sulla fame; anche i divorzisti divorziano
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Prologo
Una mastodontica portacontainer che, tra l’altro, trasporterebbe pecore dalla Cina si è incagliata nel canale di Suez impendendo a centinaia di navi di transitare. Ci vorranno giorni, se non settimane, per toglierla dalle secche e ristabilire la circolazione. Non era mai successo in 150 anni. Dal canale a ovest del Sinai passa circa il 12 per cento del commercio mondiale. Tra cui moltissime petroliere. Le conseguenze sono così serie che il prezzo del greggio, che subirà riduzioni nell’approvvigionamento, è subito salito quasi del 6 per cento. I danni economici si calcolano sui 10 miliardi di dollari al giorno. Fa impressione, no, che da una strada – ancorché marittima – passi oltre un decimo (quanto a volume) delle merci che si muovono nel mondo?
DAL VOSTRO INVIATO SULLA TRIPLA-E
Magari fa particolarmente impressione a me che su uno di quei barconi monumentali sei anni fa avevo fatto un giro (tutto il pezzo è disponibile qui). Volevo proprio fare quel tragitto, dalla Cina all’Olanda passando da Suez ma era troppo lungo e complicato e mi ero accontentato di fare l’ultimo tratto da Algeciras a Rotterdam. Che sembra poco ma, a una media di 30 km all’ora, ci sono voluti quattro giorni. Molto istruttivi su cosa significa la vita in mare su una Tripla-E, le portacontainer più grandi del mondo.
Intanto è sparito l’equipaggio (una ventina di persone, ma ne basterebbero 13):
Niente timone di legno e ottone per il capitano, che sposta questo bestione da 190 mila tonnellate totali con un joystick delle dimensioni di un mignolo scheletrico. Ma soprattutto pochissime persone di equipaggio (se si dividessero il carico, sarebbero circa 5.000 tonnellate pro capite), nell’attesa che i prototipi a cui lavora Rolls Royce non cancellino anche quelli, passando definitivamente la barra all’algoritmo. Da Moby Dick a Minority Report. Eppure, anche al riparo di questo ultra-tecnologico fortino galleggiante, permane una sensazione di umana insignificanza e di pericolo imponderabile. Il più delle volte non succede niente, e il nemico numero uno è la noia a bordo di vascelli pieni di merci quanto vuoti di uomini, ma da un momento all’altro potrebbe succedere tutto. Come quando danno in avvicinamento il tifone Joaquin, che si era già ingollato un vascello a largo delle Bahamas. Oppure, davanti alle bianche scogliere di Dover, allorché basterebbe un traghetto un po’ su di giri per tagliarti tragicamente la strada. Il capitano Jens Jørgen Rasmussen, che tende a parlare per sentenze, riassume da par suo: «Mai cazzeggiare con Madre Natura».
A bordo il fuso, per così dire, è quello di Manila:
Praticamente i marinai europei sono una specie in via di estinzione». Quelli britannici, per dire, sono passati dai 142 mila del ‘61 ai 24 mila attuali. Mentre per i filippini ha ancora un chiaro senso economico (con salari da 1.000 a 2.500 dollari, contro i 3.000-6.000 degli ufficiali). Infatti sono almeno un terzo degli equipaggi mondiali. Un po’ come con gli immigrati, anche chi non li ama fatica a sostenere che non ne abbiamo bisogno.
Costi del trasporto irrisori:
Il 90 per cento di tutto è il titolo del bel libro della britannica Rose George che spiega perché nove merci su dieci viaggino via mare. Il motivo è semplice: costa pochissimo. È comunque conveniente che i pescatori di salmone scozzese lo mandino a sfilettare in Cina e poi se lo facciano rispedire piuttosto che farlo loro. Prima dei container il trasporto incideva per un quarto sul prezzo finale di una merce d’importazione, ora è una quantità trascurabile. Due centesimi e mezzo per far traversare l’oceano a un maglione. Un centesimo per una lattina di birra. Praticamente niente.
Una ragazza in ogni porto? Intanto biglie:
A proposito di sesso, i massacranti turni di carico-scarico rendono sempre più raro poter scendere in porto. Avevo letto di un’usanza piuttosto cruenta, quella delle bolitas, che sembrava confinare con la leggenda metropolitana. Per cui i marittimi filippini, in una specie di rito di iniziazione, si incastonavano piccole biglie o chicchi di caffè sotto la pelle del pene per potenziarne l’attrito, per ben figurare con le prostitute e alimentare il desiderio delle mogli a casa. Così, dopo una serie di manovre di avvicinamento, mi risolvo a chiederlo a Jonny Asafaro, un quarantottenne di Manila che naviga da metà della sua vita. «Certo! Non solo noi, ma anche i tailandesi e altri asiatici lo fanno. È una specie di tradizione, un po’ come i tatuaggi«. Quasi altrettanto irreversibile e, a occhio, anche più doloroso. Mi racconta anche della barzelletta della moglie che, quando il marito torna a casa con la protesi artigianale, prima si offende ma dopo si congratula («Noi asiatici abbiamo il pene piccolo»). Avranno tanti difetti i filippini, ma non quello di ego spropositati.
CLAMOROSO: SCIOPERA AMAZON!
Se i marinai filippini non si lamentano quasi di niente, i magazzinieri e gli autisti di Amazon Italia han detto che ne avevano abbastanza. Da inizio pandemia a oggi Jeff Bezos si è arricchito di 70 miliardi di dollari. C’è chi ha calcolato che, se avesse distribuito un premio da 100 mila dollari l’uno ai suoi 876 mila dipendenti nel mondo, sarebbe rimasto comunque ricco come prima del Covid. Sarebbe bastato, ovviamente, molto meno. Amazon Italia rivendica di aver distribuito due gratifiche volontarie per 800 euro. Ma qui non si tratta di contare sulla benevolenza del capo (è proprio un concetto che, da Bill Gates in giù, non entra nella testa dei miliardari filantropi Usa) quanto di mettersi a un tavolo e negoziare condizioni strutturalmente migliori. Lo sciopero del 22 marzo è stato il primo nazionale e forse anche il primo nel mondo che ha riguardato tutta la filiera della campionessa del commercio elettronico. Solita guerra di cifre, ma l'astensione dal lavoro sembra essere stata importante.
Mi hanno chiesto di commentare a Fahrenheit (da qui, 15:30 a qui, circa le 16) su Radio Tre Rai e in un dibattito coll’ex governatore della Toscana Enrico Rossi.
MORTI DI DISPERAZIONE
A proposito di disuguaglianze insopportabili, mi ero dimenticato di segnalare un pezzo uscito sul Venerdì la settimana scorsa. Ovvero un’intervista a Anne Case e suo marito, il Nobel per l’economia Angus Deaton, autori di Morti per disperazione e il futuro del capitalismo (il Mulino), il poderoso tentativo di due economisti di Princeton di venire a patti con uno smottamento che interpella molte altre scienze sociali. Di che tratta?
Succede in America che, a un certo punto, uomini nel pieno della maturità abbiano cominciato a cadere come mosche. Suicidi, overdose, cirrosi. Ma la notizia, più che i brutti decessi, è che riguardassero la più privilegiata categoria di cittadini: i bianchi, tra i 45 e 54 anni. La loro aspettativa di vita, durante il ventesimo secolo, era schizzata da 49 a 77 anni. Poi, a cavallo del 2000, qualcosa si era rotto, ma cosa?.
L’eccezionalità della loro scoperta sta nel fatto che la mortalità dei bianchi senza laurea è cresciuta mentre quella dei neri (doppia ancora nei primi anni ‘90), diminuiva:
«Tra l’altro impennate simili di mortalità erano già accadute tra i neri negli anni 80. È come se le stesse disfunzioni sociali (meno matrimoni, figli nati fuori dal matrimonio, mancanza di senso di comunità) si ripetessero oggi per i bianchi con bassa istruzione. L’abuso di farmaci oppioidi ha avuto un grosso ruolo tra le morti per disperazione dei bianchi e si è diffusa tra gli afroamericani solo dopo il 2013».
CLICK DAY = FLOP DAY
Passando dalle cose tragiche alle seccature, che spesso però incrociano le vicende sanitarie (come alcuni disastrosi sistemi per prenotare i vaccini), ho provato a capire perché la regola dei click day della Pubblica amministrazione sia il fallimento, con uno sparuto numero di eccezioni. I miei intervistati e un veterano che non ha voluto commentare ma mi ha rimandato a cose che aveva scritto concordano su una cosa: è proprio il format a essere sbagliato, una ricetta per il disastro.
Stefano Quintarelli, decano delle cose internettiane e presidente del governativo comitato di indirizzo dell’Agenzia per l’Italia Digitale, l’ha scritto in un tweet recente, in risposta allo stupore per i disservizi dell’ex presidente di Cassa depositi e prestiti Franco Bassanini: «Siamo ancora a fare i click day... Se metti “in palio” qualcosa di ambìto a partire dall’ora x, tutti coloro che vi ambiscono tenteranno di accedere tra le x:00:00 e le x:00:01. Una delta di Dirac, un auto-attacco Ddos (distributed denial of service) istituzionale». Al di là dei tecnicismi un po’ compiaciuti (il Delta di Dirac è un picco improvviso in una curva di distribuzione) l’immagine del Ddos, ovvero il fatto che un sito va giù quando non riesce a sopportare la concentrata quantità di richieste di un attacco hacker, è efficacissima. Con la differenza che gli inconsapevoli hacker siamo noi quando pretendiamo di iscriverci, come ci hanno detto che si poteva fare, per avere indietro il 10 per cento delle nostre spese.
UN BASTIMENTO CARICO DI DDOS
Attacchi informatici che hanno messo in ginocchio per tre giorni quest’estate Nzx, la borsa neozelandese, e che sono diventati particolarmente frequenti ora che, con la pandemia, un sacco di attività che prima non lo erano sono passate online, magari di fretta, magari con difese un po’ artigianali. Ne ho scritto in Galapagos:
Per sferrare l'attacco gli hacker usano un'armata (botnet) di altri apparecchi connessi alla rete di cui hanno preventivamente preso il controllo, infettandoli. Possono essere computer ma anche telecamere o altri elettrodomestici connessi che formano la cosiddetta internet delle cose. Oltre alla contabilità di NetScout Systems che nel 2020 ne ha censiti 10 milioni, quasi un quarto rispetto all'anno prima, il termine è tornato in conversazioni e letture degli ultimi giorni.
RENZI D’ARABIA
Intanto il tempo passa ma il senatore Matteo Renzi non ha ancora esaurientemente spiegato cosa è andato a fare a Riad in amabile pubblica discussione con il «gran principe» (cit.) Mohamed Bin Salman di cui si è ribadito amico, negando di aver intascato gli 80 mila euro per la discussa performance. Nel frattempo, però, è andato anche a Dubai senza spiegare a far cosa (qualche tempo fa avevo scritto un reportage dal titolo: Il mistero fittissimo di voler vivere a Dubai dove l’unico prodotto locale degno di nota sono i soldi) e in Senegal in un’aereo privato pagato dagli imprenditori bresciani che accompagnava (poi anche a Dakar, ma lì almeno era a un convegno con Tony Blair e altri). Evidentemente il lavoro da senatore, già lautamente pagato coi soldi dei contribuenti, non lo impegna abbastanza.
DA LEGGERE: LA FAME
Una delle principali merci trasportate dalle portacontainer, da dove abbiamo iniziato, è il cibo. Su questo tema il libro più importante degli ultimi anni è senz’altro il potentissimo La fame dell’argentino Martín Caparrós. Qualche frase:
Insicurezza alimentare è uno degli eufemismi piú tristi in un’epoca di eufemismi tristi.
Il 90 per cento delle nostre calorie proviene da 15 specie vegetali; due terzi sono prodotte da tre piante: il riso, il mais, il grano.
Il business del cibo – agricoltura, manifattura alimentare – costituisce soltanto il sei per cento dell’economia mondiale: una minuzia, quantità dieci volte minori rispetto al settore dei servizi. La cosa curiosa è che questa minuzia definisca tutto il resto; senza questa minuzia, non esisterebbe nulla di tutto il resto.
La stessa Banca mondiale avrebbe affermato che i sussidi all’agricoltura servono quattro volte tanto rispetto a ogni altro sussidio nella riduzione della fame. Ma tra il 1980 e il 2010 la proporzione degli aiuti internazionali all’Africa destinati all’agricoltura passò dal 17 al 3 per cento. Gli Stati Uniti e l’Europa, nel frattempo, sovvenzionavano i loro agricoltori con circa 300 miliardi di dollari l’anno.
Ma nel 1990 la Fao ritoccò tutti i calcoli fatti in precedenza. Disse che il metodo statistico usato non andava bene e che nel 1970 gli affamati non erano 460 milioni ma piú del doppio: 941 milioni. La cosa permetteva di affermare che i 786 milioni di quel momento – il 1990 – non significavano un aumento della fame ma una diminuzione: 155 milioni di affamati in meno, un grande risultato.
DA VEDERE: THE SPLIT
Hannah è un’avvocata divorzista figlia di un’avvocata divorzista che si è lasciata malissimo col marito che l’ha abbandonata con tre figlie da crescere. Hannah si è fatta una famiglia che sembra funzionare. Nina colleziona fidanzati. Rose sta per fare il gran passo. Ma niente va esattamente come potrebbe sembrare (quando mai succede?). Ogni lasciamento è un massacro, compresi quelli abortiti. Come si fa, si sbaglia. Bella serie, piena di colpi di scena emotivi. Su Bbc.
DA ASCOLTARE: J’AI VU
A proposito di oceani e spazi infiniti, ecco la storia di uno che ha ormai visto «tanti mari e tante rive», tanto ma non tutto, che sente la vecchiaia che avanza ma non si arrende: «J'ai cru/Être au bout de l'aventure/Mais mon cœur, lui, me murmure/Qu'il y a tant de rêves à vivre encore». Immenso Henry Salvador.
Epilogo
Ai tempi del reportage dalla portacontainer era uscito un articolo di Bloomberg in cui si annunciava un prototipo della Rolls-Royce in cui una speciale telecamera a 360 gradi consentiva di vedere a distanza tutto ciò che si scorgeva dal ponte di comando. Il pezzo immaginava un futuro, entro un decennio da allora, in cui sarebbe bastato un capitano in qualche centro di controllo per monitorare l’andamento di un centinaio di navi. Il capitano non si era scomposto: «Non credo che sarà una cosa che succederà presto. Diciamo pure che potrebbero bastare due ufficiali e due ingegneri per navigare, ma la manutenzione chi la fa?». Parlava dei filippini che spazzano, lavano, puliscono i filtri del potabilizzatore, ritinteggiano in continuazione parti esposte al micidiale salmastro. Alla fine scopriremo che l’aristocrazia dei marinai europei è rimpiazzabile, la plebe sudestasiatica no.