#104 A Mazara il solito dilemma: lavoro o ambiente?
La Ue chiede nuovi limiti alla pesca a strascico, dalla Sicilia rispondono picche; una flotta storicamente tunisina; a Grimsby dove i pescatori eran tutti per la Brexit; grandezza e miserie di ChatPdf
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STRASCICARE O NON STRASCICARE?
Sono andato a Mazara del Vallo per raccontare lo scontro tra Ue e pescatori a strascico. Lo raccontiamo sul Venerdì in edicola. Qui l’attacco:
Mazara del Vallo (Trapani). Se non vuoi incrinare l’impareggiabile ospitalità dei mazaresi basta evitare di dire Ue. Da quando ha raccomandato di smettere di pescare a strascico, nelle aree protette, entro il 2030 (quindi non “stop alla pesca”, com’è passata), l’Unione europea è divenuta istituzione non grata. Bruxelles scrive che darsi una regolata è l’unico modo per salvare i mari. Mazara, prima marineria d’Italia, invece legge: ci vogliono morti. È l’ennesimo episodio della serie “ambiente contro economia”? O una specie di una variazione della lamentela dei balneari, che han lucrato per decenni su concessioni mignon, contro la direttiva Bolkestein che vuole rinegoziarle? Non mi sarei troppo appassionato al tema se non avessi letto una spaventevole recensione di Rewilding the Sea dell’inglese Charles Clover che snocciola i numeri di una carneficina: 90 per cento dei grandi pesci scomparsi; solo 1 tartaruga marina su 300 sopravvive; 7 per cento in meno all’anno di praterie di posidonie. Carneficina compiuta con Fishing aggregating devices, reti industriali che potrebbero ingoiare un Boeing 747 e che rilasciano tanto CO2 quanto l’intera aviazione. Anche se queste negli oceani sono tecniche diverse e su altra scala, forse è lecito discutere se ridurre pratiche non selettive anche nello Stretto di Sicilia, no?
Durante i preparativi, fase in cui si prendono gli appuntamenti con gli intervistandi, la storia era diventata ancora più interessante. Al telefono ricercatori e attivisti, da cui mi aspettavo un grido di giubilo rispetto all’annuncio europeo, segnalavano subito le ragioni della pesca. Se per il Wwf nazionale la misura è «il minimo indispensabile», per il suo ex responsabile siciliano punta il bersaglio sbagliato. Ha ragione lui e torto la Dg Pesca o l’ecumenismo ha a che fare con la circostanza che in città sono tutti a un grado di separazione da un pescatore?
+++SU MAZARA C’È ANCHE UN VIDEO
QUANDO I MARINAI TUNISINI ERANO AMICI
Anni fa avevo uno scritto su quanto gli immigrati ci fossero indispensabili. C’era anche un capitolo su Mazara. E questa è la versione breve apparsa su Repubblica.
«Mancu lu bagnu je fazzu fari a li figghi me. Mancu lu pisci manciari. Piscaturi iddri? Vò babbiari?». Vuoi scherzare? Facciano qualsiasi cosa i miei figli, tranne che andar per mare. Hai l'impressione nettissima, osservando la smorfia rabbiosa che gli mette fuori squadra il volto, che se un giorno venissero a dirgli di esser diventati rapinatori sarebbe più comprensivo. È l'unica fatwa indiscutibile, per i tunisini di Mazara del Vallo, quella che la prole non segua le loro orme. Benur, 53 anni scavati dal sole e piallati dal salmastro, ha un motivo stringente per ribadirla: «Sono sei mesi che l'armatore non mi paga. L'ho denunciato ma sin qui non è successo nulla». Tranne che, a stagione iniziata, non aveva trovato ancora un imbarco. Anche Bazine, che invece ha smesso da qualche anno e va avanti da allora con una pensione di invalidità, non è meno perentorio: «Questo è un lavoro che, se l'hai fatto, non lo auguri neppure al tuo peggiore nemico. Figuriamoci alla carne della tua carne». Non dimentica l'ergastolo di quelle ore infinite, il giorno uguale alla notte, in un ciclo continuo di «cala la rete, ritira la rete», «cala la rete, ritira la rete». Gli italiani l'hanno capito prima e hanno lasciato che i maghrebini li sostituissero. Cinque per cento in città, oltre il cinquanta in mare. «Senza di loro» ammette candidamente l'assessore provinciale alla pesca Nicola Lisma, una testa di capelli rossi e occhi azzurri di qualche antenato normanno, «i motopescherecci non potrebbero salpare. Si fermerebbe tutto. Sarebbe la fine».
Forse non basteranno a scongiurarla, di certo sono serviti a posticiparla questi ultimi mohicani della pesca d'altura. Una specie molto più a rischio di estinzione della tracina, delle spigole, dell'«uvaro», come qui chiamano il pagello fragolino. Perché i conti che a un certo punto non tornavano più ai siciliani ora non convincono neanche loro. Sino a novanta giorni al largo, senza toccar terra, per mille euro al mese: è ancora lavoro o già pena alternativa? Senza considerare che dormire è spesso un optional, un po' come a Guantanamo. E che lo strazio non finisce nemmeno una volta sbarcati, perché due volte su tre c'è da prendersi a brutte parole col padrone che dichiara sempre pesche meno fortunate di quelle testimoniate dai lavoratori. Nella guerra tra poveri che si è combattuta per anni nel canale di Sicilia e che ora ha allargato il campo di battaglia al resto del Mediterraneo, l'ultima trincea sembra oggi quella dei ghanesi. Da qualche tempo hanno cominciato a imbarcarsi, a imparare il mestiere. Ma quando si stancheranno anche loro su chi si potrà puntare?
Non si tratta di un problema circoscritto. Sicilia vuol dire metà dell'industria ittica italiana, Mazara metà di quella siciliana. Questo borgo marino a poche ore di scafista dall'Africa è, soprattutto, l'epicentro della pesca d'altura. Da nessuna altra parte, come qui, ci si spingeva - e sempre più ci si spinge - a largo per gettare le reti. In cerca del pregiatissimo gambero rosso, ad esempio, esportato in mezzo mondo. «Negli anni '70 si stava in mare una settimana, poi sono diventate due, e negli anni '90 le cose hanno cominciato a peggiorare ancora e ad allungarsi le bordate. Oggi si devono fare anche quattro-cinque giorni di navigazione, arrivare sino a Cipro o in Grecia, prima di gettare le reti. Perciò, per ammortizzare i costi di gestione, si deve stare fuori più a lungo» ammette l'assessore Lisma. Anche la sua famiglia, armatori da sempre, ha dovuto vendere tutto. «Il costo del gasolio, negli ultimi anni, è più che raddoppiato. Negli anni '90 poi si è diffusa l'acquacoltura che ha introdotto sul mercato pesci low cost. Per non dire della globalizzazione, del pescato che arriva dall'estero».
Per proteggersi da tutti questi marosi e far quadrare la sempre più fragile equazione economica gli imprenditori hanno agito sull'unica variabile indipendente a disposizione: la forza lavoro, contando sul fatto che i tunisini avrebbero masticato amaro ma non si sarebbero sottratti. Anche perché sapevano meglio di tutti che la nuova competizione delle flotte maghrebine limitrofe era terribile e che la miseria che prendevano in Italia era comunque quintupla di quella che avrebbero racimolato in patria. A rendere la partita ancora più difficile ci si è messa anche la Libia. Pur non avendo ancora una vera industria ittica la Jamairiya ha preteso la «tutela biologica» delle proprie acque per sessanta miglia oltre le dodici regolamentari. Una mossa che, di fatto, ha reso off limits ai pescherecci mazaresi tutto il pescoso golfo della Sirte, da punta a punta. Il «deserto», come ormai lo chiamano.
A GRIMSBY TRA I PESCATORI CHE HAN DECISO LA BREXIT
Qualche anno fa sono andato nel posto più favorevole alla Brexit di tutto il Regno unito. L’incipit:
GRIMSBY. Alla fine il sessantenne Andrew, tuta arancione con bande catarifrangenti e capelli biondi spettinati alla moda di Trump, snocciola la sua ricetta dalla bagnarola all'ormeggio: «Una volta, alle elementari, chiacchieravo con un compagno. La maestra se ne accorse e ci fece mettere in ginocchio, uno davanti all'altro. Poi ci disse: ora abbaiate! Tutto intorno gli amici ridevano. Imparammo la lezione. Oggi non sarebbe più possibile, in compenso viviamo nell'anarchia». Si stava meglio quando si stava peggio. E, che sia troppo lasca o eccessivamente severa, la colpa è sempre di Bruxelles. Perché una volta qui c'erano seicento pescherecci e oggi ne sono rimasti sei. Nel mezzo c'è stata l'Europa e le sue regole che hanno stabilito dove, come e quanto gettare le reti. Però Brexit, sperano, cambierà tutto di nuovo. «Dopo la prima guerra mondiale ci siamo ricompattati, abbiamo ricostruito il Paese tra l'invidia di tante nazioni. All'indomani della seconda guerra mondiale ci siamo arrotolati le maniche e abbiamo reso la Gran Bretagna ancora più grande, tra l'invidia del mondo. Adesso è arrivato il momento di rifarlo, lasciando da parte le divisioni e le pugnalate alla schiena, perché se è davvero unito il nostro Regno non lo ferma nessuno». Così parlò mister Nostalgia Canaglia.
Il declino dell'industria ittica di Grimsby, tre ore d'auto a nord est di Londra, sembra un classico caso di fallacia post hoc, propter hoc. Ma non basta che una cosa succeda dopo un'altra perché la prima ne sia la causa. Prato, con il tessile, insegna. Prima era la quinta provincia più ricca d'Italia, poi sono arrivati i cinesi e le fabbriche hanno cominciato a chiudere. Il problema però non sono gli orientali immigrati in Toscana, che si occupano solo di confezioni, ma le esportazioni di filati dalla Cina che hanno tramortito il business locale. Analogamente i pescatori inglesi ricordano le ricche battute di un tempo, vedono quelle magrissime di oggi e puntano il dito contro gli euroburocrati. «Le statistiche non fanno un pranzo nutriente per una famiglia affamata» spiega bene James Meek sulla London Review of Books, «ma la verità è che il crollo più drastico nel numero di pescatori è avvenuto tra il '48 e il '60, quando passarono da 26 a 13 mila». Dieci anni prima dell'inizio della cosiddetta «guerra del merluzzo» e addirittura ventitré dalla Common fisheries policy imposta dall'Unione europea. Se però ti fai un giro al Fishing Heritage Center, il museo della tradizione marinara, con le prime pagine dei giornali degli anni 50 che titolavano con orgoglio sul «porto ittico più grande del mondo», con tanto di foto di montagne di eglefino sulle banchine e poi fai un salto tra i docks il confronto stringe il cuore. «Un tempo, non troppo tempo fa» mi dice Andrew Allard indicando dalla finestra della sua Jubilee Fishing che possiede l'ultima piccola flotta rimasta «si poteva camminare da una parte all'altra degli attracchi passando di nave in nave». Adesso si vede solo uno specchio d'acqua. Il mercato del pesce è rimasto al suo posto, un enorme stanzone con tante entrate laterali da dove ieri conferivano i pescherecci locali e oggi i container refrigerati che vengono dalla Norvegia o dall'Islanda. È sempre Allard a parlare: «Non peschiamo più, ma lavoriamo ancora il pescato altrui. Un'industria dimezzata. Mentre, ogni anno, i 28 rappresentanti dei paesi Ue vanno in visita a Oslo per rinegoziare i loro diritti di pesca. Tutta un'altra cosa, no?». Alla fine il discorso casca sempre lì: essere (o meno) padroni in casa propria.
CHATPDF, l'IA CHE DETESTA DOMANDE GENERICHE
L’ultima Galapagos:
A un certo punto quella vecchia lenza di Kevin Kelly, uno cui la qualifica di guru tecnologico calza a pennello, ha consigliato ChatPdf nella sua bella newsletter Recomendo. Trattasi di un'applicazione di intelligenza artificiale che dovrebbe fare solo una cosa: riassumere i vostri testi, a patto che siano in formato pdf. Per prima cosa vanno caricati online e qui potete incontrare il primo ostacolo: accetta solo documenti da 120 pagine, quindi se il libro è più lungo potete spezzarlo con vari altri servizi gratuiti online tipo Pdf2Go o Ilovepdf. A questo punto il servizio vi propone un primo riassunto molto generico, con eventuali suggerimenti di punti da approfondire. E qui casca l'asino. Perché la prima sintesi è molto superficiale e a uno verrebbe la voglia di abbandonare tutto. Il trucco però è continuare a fare domande più circoscritte. Se sapete, per dire, che quel tal libro sull'intelligenza artificiale cita Ada Lovelace, chiedete "cosa dice su Ada Lovelace" e lì ChatPdf comincia a dare risposte interessanti. È una specie di variazione della vecchia regola dell'informatica: "garbage in, garbage out", se gli dai pattume te lo restituisce. Siate specifici e vi sorprenderà! C'è ancora molta strada da fare, evidentemente, ma vale la pena provare.