#101 C'è chi crede ancora nella carta
Intesa come libri e altri oggetti testuali; la scena editoriale newyorchese di sinistra è in salute; l'editore di Harper's non perde tempo coi tweet
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IL DIO DEI PICCOLI LIBRI
Piccola, tenera storia newyorchese (piuttosto gonfiata dal New Yorker, peraltro) presa dal Venerdì in edicola . Su come, entre autre, le vie per la soddisfazione personale prendano spesso importanti digressioni.
BROOKLYN (New York). L'uomo che vuole riportare le news box, gli iconici parallelepipedi di ferro che per una manciata di monete ti davano un quotidiano, è essenzialmente un poeta delle piccole cose. Piccoli numeri innanzitutto: «Per il momento ne ho messi due a Manhattan e uno a Brooklyn» dice tranquillo nel monolocale che funziona da quartier generale della sua Inpatient Press, la lillipuziana casa editrice che stampa i 6-7 libri all'anno che Mitch Anzuoni distribuisce in poche, complici librerie e gli altri oggetti editoriali (fanzine, manifesti pieghevoli, letteratura erotica fronte-retro e così via) che invece mette in vendita per un quarter, venticinque centesimi di dollaro, negli attuali tre box newyorchesi. «Però a breve ne dovrei mettere uno davanti alla galleria d'arte Canada, me ne ha chiesto uno la libreria di Los Angeles Skylight Books e un altro la casa editrice After 8 Books a Parigi». Più che "impaziente" la sua filosofia editoriale potrebbe essere riassunta dal motto Festina lente, affrettarsi lentamente, dal momento che per il 2023 punta a raggiungere, per amor di simmetria, i dodici titoli all'anno.
Mi ha messo sulle sue tracce un articolo del New Yorker tanto brillante quanto sospettamente attento a non quantificare in alcun modo l'attività del nostro eroe. Più che l'uomo che ri-lastricherà New York con le mini-edicole self-service d'una volta, si scopre incontrandolo, che il titolo più veritiero è forse il nostalgico-in-capo di un mondo di carta che il grande rogo digitale sta decimando. Tutto ha inizio dieci anni fa quando l'allora 22enne studente del celebre Bard College («Il posto dove i figli dei ricchi mandano i figli per diventare squattrinati filosofi») è in visita al museo Whitney con un amico e si rattrista alla vista del grande marciapiedi vuoto e anonimo davanti alla sede di tanta magnifica arte americana: «Volevo animarlo» dice seduto davanti a una console da cui presto vorrebbe lanciare anche una specie di talk radiofonico su libri e cultura «e pensai ai vecchi e colorati news box ormai introvabili in città». Comincia a cercare in rete, trova un anziano commerciante di modernariato del New Jersey che ne ha uno giallo e glielo vende per 400 dollari. Quindi chiede il permesso al comune per sistemarlo sul marciapiedi, lo assicura («Questa è pur sempre la terra dove ognuno fa causa per qualsiasi cosa: metti che un bambino si graffi mettendo dentro la mano») sebbene l'addetto abbia molto da ridire quando sente che parte del contenuto sarà VM18. Tutto bene quindi? Macché. Dopo una settimana, infatti, il box sparisce. E basta una rapida rassegna delle telecamere di sorveglianza per capire che è stato uno zelante dipendente del museo, evidentemente ignaro delle autorizzazioni, ad averne disposto la rimozione. Seguono scuse, risarcimento integrale e ricerca di un nuovo news box da riempire con la produzione casalinga della Inpatient Press. Di cui Anzuoni, una laurea in informatica nonostante gli interessi letterari, è «giudice, giuria, boia» dice ridendo, perché «sarebbe meglio essere giusti e democratici, ma quando non è possibile non resta che l'arbitrio, nel bene e nel male».
Che nel suo caso significa una linea editoriale che va da Universal Hedonics, quaranta pagine di illustrazioni di brevetti (verosimilmente mai realizzati) di apparecchi per potenziare il benessere psicofisico, da caschi cerebrali a vibratori innovativi a Chronological Discoveries sui viaggi nel tempo (entrambi 10 dollari), incluse riflessioni sulla natura cabalistica del tempo e la scienza della radionica, qualsiasi cosa essa sia. Per abbracciare anche i romanzi Rip It Up del giapponese Kou Machida che ha vinto vari premi, incluso l'Akutagawa Prize e che, dall'alto delle sue 2500 copie, è il bestseller di Inpatient, a Almost Zero di Vladislav Surkov, già stretto consigliere di Vladimir Putin e quindi persona non grata qui («Ho pagato la traduttrice ma non ho neppure provato a contattare lui perché dargli soldi per i diritti mi metterebbe nei guai come sostenitore di terroristi»). Al di là delle complicazioni geopolitiche, però, l'editore assicura che è un libro strepitoso e delirante, tra propaganda, operazioni sporche in Cecenia e sangue, parecchio sangue (15 dollari). «Se l'America ha Bret Easton Ellis e la Francia Michel Houellebecq, la Russia ha Vladislav Surkov» ha sentenziato ad adiuvandum la critica russo-americana Anna Khachiyan, conduttrice del podcast Red Scare, terrore rosso. Mentre Barry Yourgrau sul sito della New York Review of Books l'ha così riassunto: «Incentrato su un gangster-editore di libri appassionato di poesia e afflitto da perplessità amletiche per un possibile snuff movie, il film sfodera una satira cupamente assurda, ma causticamente consapevole, sulle corruzioni e le macchinazioni della Russia post-sovietica, con una girandola di rimescolamenti e riferimenti letterari». Ma non sono gli occasionali scandali a interessarlo, giura Anzuoni: «A me importa solo di pubblicare quel che mi piace. E, da dieci anni, incredibilmente ci riesco».
Ancora all'università aveva cominciato con l'amico Rory Hamovit a mandare per posta poesie, illustrazioni e altri scritti. Poi il socio era andato a Yale per diventare fotografo e dal 2016 Mitch è rimasto solo al comando. Il mistero, che il New Yorker si è guardato bene dal dissipare, è: come sta in piedi un'operazione così idiosincratica? «Tra traduzioni e stampa in media un libro mi costa 2/3000 dollari. Generalmente riesco a vendere le 500 copie della prima tiratura e spesso anche di più. Soldi che coprono l'affitto di questo locale e parte dei costi di stampa. Il resto lo metto di tasca mia» ammette con assoluto candore. Soldi che, con una triangolazione esistenziale non infrequente in questa città di banchieri che fanno i dj come dopolavoro (David Salomon, capo di Goldman Sachs), vengono dal suo mestiere redditizio, il programmatore: «Di recente ho aiutato a sviluppare per Cartier un sistema con cui i clienti possono provare virtualmente gli anelli e altri gioielli per decidere se comprarli online. Da cose così vengono i miei veri soldi che, citando l'amico e collega Matvei Yankelevich, fondatore della Ugly Ducking Presse, "sento l'insaziabile urgenza di bruciare" nel pubblicare nuovi titoli. D'altronde sempre meglio avere un buco nelle tasche che nel cervello. Mi piace troppo e, sinceramente, non credo che smetterò mai».
I libri Inpatient non sono su Amazon: «Mi scocciava l'idea, la trafila ma soprattutto esporli allo sfregio di recensioni spesso molto stupide. Ho provato a trovare un vero distributore, ma siamo troppo piccoli. Così ho optato per canali più intimi e personali, facendo amicizia con un sacco di persone splendide». A New York, ad esempio, i suoi titoli li trovi da McNally Jackson, sofisticata libreria indipendente, tra le rare sopravvissute. E le news box, in tutto questo periclitante bilancio? Ride: «Ne ricaverò 60-80 dollari al mese. Dunque quasi niente, ma l'ottima notizia è che prima ci volevano trenta giorni per esaurirne il contenuto mentre adesso le ricarico una volta alla settimana. Non è magnifico?». Rarefacendosi i giornali di carta anche le aziende che facevano i box sono in via di estinzione. A quanto pare su internet avrebbe trovato un'azienda cinese, la China Star, che fa ancora qualcosa del genere («Lì la propaganda ancora fa ancora affidamento sulla carta»). Mentre un tipo in Pennsylvania avrebbe un camion pieno di vecchie news box che restaura e rivende, da duecento a mille dollari l'uno, a «millennial geriatrici» come il trentaduenne Anzuoni si definisce o ad altri che non si arrendono alla scomparsa di un mondo in cui ancora si usciva di casa e, sulla strada per l'ufficio, incontravi queste piccole cattedrali di latta che dispensavano, per monete contanti, i fogli su cui si compiva la "preghiera della mattina".
LA RIVOLUZIONE SARÀ RILEGATA
Qualche anno fa invece ero andato a raccontare l’inedita vitalità della scena editoriale newyorchese di sinistra.
NEW YORK. La rivoluzione sarà rilegata. Alla Barnes&Noble di Union Square, la libreria il cui caffè si trasforma spesso in temporanea base operativa per anarchici e socialisti newyorchesi, il nuovo pantheon siede immobile sullo scaffale delle riviste. I neonati Jacobin e The New Inquiry. L'adolescente n+1. L'anziano ma rinvigorito Dissent. Per citarne solo alcuni, tacendo della collana Pocket Communism della gloriosa Verso, portabandiera della New Left britannica, a pochi metri di distanza tra i libri. La sinistra è morta, viva l'editoria di sinistra. Rianimata da editor ventenni, per un pubblico (mentalmente) giovane, che vuol fare di tutto per smentire la profezia del pur amatissimo Slavoy Žižek su Occupy Wall Street: «I carnevali costano poco. Quello che importa è il giorno dopo». Loro ci sono ancora. Nonostante le varie dichiarazioni di morte presunta, come quella che si desume da un utile rapporto del locale istituto Rosa Luxenburg: «La sinistra (americana) è dura da trovare e ancor più da definire». Soprattutto se sei europeo, abituato all'equivalenza tra politica e partiti. Che qui conduce solo a frustranti aporie.
Tipo credere che Il Communist Party Usa, un martello e una specie di falce stilizzata nel logo, abbia qualcosa a che fare, non dico con la rivoluzione permanente ma almeno con un progressismo radicale. Il suo segretario si chiama Sam Webb, sessantenne laureato in economia nel Connecticut. L'ultima apparizione sulla stampa borghese risale al 2006. Due battute su Forbes: «Cos'è per me il denaro? Ciò di cui la maggior parte di noi dispone troppo poco, nonostante gli sforzi dell'amministrazione Bush». Mi era sembrata un po' moscia come affermazione. Lo contatto via posta elettronica prima di partire. Niente. Riprovo e metto in copia un paio di assistenti. Ancora niente. Chiedo a Nikil Saval, introdottissimo editor del trimestrale n+1, che mi fornisce altri contatti. I comunisti mangiano le email? Mi presento alla loro sede, sulla ventitreesima strada. Un sorridente pensionato alla reception interpella un cinquantenne dell'organizzazione che mi rassicura: «La chiamerà oggi stesso». Sto ancora aspettando. Forse l'indisponibilità, deduco da una serie di altri incontri, deriva dall'imbarazzo ad ammettere un annacquamento, quello sì radicale, rispetto alle origini («Sono diventanti ragazze pon pon di Obama» è la clausola più definitiva sul loro conto, copyright Bhaskar Sunkara, che conosceremo a breve).
Larry Moskowitz era uno di loro. Ci vediamo in un ristorante messicano con menu fisso a 12 dollari e 95. A sessantasei anni un po' sofferti è un uomo dall'espressione mite che ha imparato a tagliare i costi privati prima che diventasse una perniciosa ideologia pubblica. Vive a Inwood, sopra il Bronx, al canone calmierato (600 dollari) di un box auto altrove. Ha una pensione sociale di poco superiore e comunque tale da fargli rubricare un incisivo e un canino mancanti tra i beni di lusso. «Perché li ho lasciati? Perché non c'era margine di dissenso e detestavo il centralismo democratico. E soprattuto perché mancava il legame con i lavoratori». Così, nella migliore tradizione scissionista, cinque anni fa ha dato vita al Left Labor Project. «La nostra principale vittoria? Aver fatto rimettere il Primo maggio tra le festività». Si incontrano una volta al mese («30-40 persone, di più quando abbiamo ospiti famosi») tassativamente dalle 18 alle 20 perché «è un principio di classe: la gente prima lavora e comunque non ha tempo da perdere». Collaborano con i sindacati, con organizzatori locali su campagne specifiche. «In Europa sieta da sempre più a sinistra di noi. Qui è già tanto dedicarci a battaglie più circoscritte, come i diritti dei neri». Se proprio dovesse dire, a Lenin preferisce Bakunin, socialista libertario, che voleva saltare la «dittatura del proletariato» per paura che da fase intermedia diventasse permanente. E che prediligeva le «azioni dirette» del popolo, come la restituzione delle case confiscate ai vecchi proprietari in stile Occupy.
Prima di procedere facciamo due conti: trenta persone a New York è come dire nove persone a Roma. A spanne i membri del Communist Party saranno tre-quattromila. Quelli dei Democratic Socialists of America, il più robusto raggruppamento, circa settemila. Il Socialist Party Usa, che ha sede in uno sgarrupato trilocale del Lower East Side, è frequentato come una bocciofila d'inverno. Anche alcuni successi editoriali di cui va giustamente fiera Audrea Lim, la trentenne editor di Verso che incontro in un bar di Brooklyn, vanno da poche migliaia alle quarantamila di Žižek, che però è una star globale. Dividete almeno per cinque per un confronto con il mercato italiano. Piccoli numeri (crescono). Lo stesso Žižek protagonista all'Ifc Center, il cinema d'essay più ortodosso del Greenwich Village, di A Pervert's Guide to Ideology, un documentario in cui il filosofo marxista disseziona l'immaginario collettivo, dalla fenomenologia degli ovetti Kinder all'ideologia subdola de Lo squalo. Alle 10 di mattina, con fuori un sole incongruo, una ventina di persone sono pronte a immolarsi per due ore e venti davanti alle digressioni del pensatore barbuto che tiene un poster di Stalin sul letto. Ma questa è New York, dove L'insurrezione che viene, libello culto degli indignados globali, si trova nella sofisticatissima libreria del New Museum di Soho. La città più economicamente iniqua del mondo che può vantare una statua di Lenin su un palazzo che si chiama Red Square e che punta il dito ammonitore verso Wall Street.
Dicevamo della nouvelle vague marxista. Bhaskar Sunkara, 23 anni da Trinidad, ne è il campione. Ci incontriamo a Bedford Stuyvesant, la zona di Brooklyn che era sinonimo di paura e dove Spike Lee ha ambientato il suo Fa la cosa giusta, dove ha casa e ufficio. Nel 2010, reinvestendo i soldi presi a prestito per l'università, questo ragazzino con la barba nera e la camicia bianca ha fondato Jacobin, una rivista marxista senza gli ermetismi e l'odore di muffa tipici del genere. Tre anni dopo, con cinquemila abbonati, ha doppiato quelli di Dissent che è su piazza dagli anni 60 e il sito viene visitato ogni mese da 250 mila persone. «Non mi piace il termine comunista. Per la disastrosa incarnazione sovietica che richiama. E anche il dibattito tra rivoluzione e riforma mi sembra superato. Piuttosto "riforma non riformista", alla André Gorz, ovvero che non trascuri i bisogni sociali odierni senza rinunciare a una modifica strutturale. Il socialismo che vorrei estende il welfare, riduce la disoccupazione e introduce un reddito di cittadinanza». In un editoriale recente ha scritto che «il problema della sinistra non è che è troppo austera e seria, ma che non si prende sufficientemente sul serio per fare i cambiamenti necessari». Una piattaforma sanamente social democratica, nonostante le suggestioni iconografiche di cui l'appartamento è pieno. Tipo la foto di Lenin trattata alla Andy Warhol come sfondo del computer. Le antologie dei discorsi di Castro e di Chavez, di scritti zapatisti e una biografia di Trotsky («lui distribuiva i giornali per strada, non aspettava che fosse la gente ad andarlo a cercare»). Interventismo che condivide. «Insieme al sindacato degli insegnanti di Chicago, tra i più attivi del paese, abbiamo realizzato un manualetto che spiega perché l'ideologia neoliberista è sbagliata, da distribuire gratuitamente». Impaginato bene, non penitenziale come certi tomi degli Editori Riuniti anni 70. E la gente se lo legge.
Se vuoi che il messaggio passi non puoi prescindere dal linguaggio. L'hanno capito anche a Dissent, che di recente ha stupito il suo lettorato tradizionale con un pezzo su un artista del rimorchio a Copenaghen. «C'è un tipo che scrive guide su come portarsi a letto le ragazze all'estero. In Danimarca è andato in bianco, e la sconsiglia a tutti» mi spiega Sarah Leonard, trentenne editor della nuova leva, nella stanzetta-redazione vicino alla Columbia University. «Partendo da questo dato abbiamo imbastito un reportage sull'uguaglianza dei sessi, divertente e documentatissimo. Un buon esempio del nostro nuovo stile». L'età media delle quattro persone della redazione è sui 25? anni («Direi che siamo più a sinistra di Michael Walzer», condirettore emerito). Ciò che la rivista si propone è dare un contesto culturale ai lettori. «Se si discute dei costi dell'istruzione è importante, ad esempio, ricordare che Cuny, l'università pubblica, prima era gratuita e ora costa 8000 dollari all'anno. Se hai vent'anni puoi non saperlo. Noi diamo quella prospettiva, indispensabile per fare confronti tra ieri e oggi». La stranezza, rispetto alla scena editoriale cui siamo abituati, è che qui tutti parlano bene dei concorrenti. Non pretendono primigeniture. Addirittura collaborano.
Ne sa qualcosa la fondazione Rosa Luxenburg. Capitolo americano dell'ente legato al partito socialista tedesco Die Linke, ha per missione quella di studiare i processi sociali e produrre convegni e rapporti. Il direttore Albert Scharenberg ha mappato la sinistra americana e se gli chiedi di riassumerla comincia parlando di scioperi di lavoratori dei fast food, di movimenti ambientalisti contro un gasdotto, di organizzatori locali che mobilitano piccole comunità, di singoli giornalisti influenti. Poi, dopo quindici minuti buoni, accenna alla costellazione di partitini tipo i comunisti renitenti alle email che abbiamo incontrato. «La loro influenza all'interno dei Democratici è minima. Ma in generale i partiti sono diversissimi dai nostri, basti ricordare che tutti possono votare alle primarie e nessuno può essere espulso». Più il fattore soldi che li condanna alla marginalità. In un sistema ferocemente bipolare, dove il vincitore prende tutto, non c'è spazio per i piccoli («Una campagna nazionale costa una fortuna»).
Sono i giorni di Bill de Blasio neo-sindaco. Agli occhi di un italiano sembra una gran vittoria per la sinistra. Ma la circostanza che a tanti occhi americani Grillo sembri la prova ontologica della democrazia dal basso mi suggerisce cautela sugli entusiasmi stranieri. Doug Henwood, fondatore della newsletter Left Business Observer e padrino intellettuale di Sunkara e altri giovani radicali, mi dice che anche lui ci sperava, ma che le prime nomine che ha fatto sono di personalità vicine ai palazzinari. Tutto dipende dai punti di partenza, ovvio, ma come Obama sembra più sexy di Letta, anche De Blasio sembrava più carismatico di Marino. Anche al netto dell'esterofilia. La vera buona notizia, per il patchwork che abbiamo chiamato sinistra americana, risale a due anni fa. Nella fascia 18-29 anni, per la prima volta coloro che vedevano positivamente il socialismo superavano quelli negativi (49 contro 43 per cento), sorpassando anche le simpatie per il capitalismo (46 per cento). Succedeva tre mesi dopo Occupy Wall Street, il grande Gerovital del progressismo statunitense. Fino al 2000 chi voleva entrare negli Stati Uniti doveva rispondere a una grottesca domandina: «Hai fatto parte di organizzazioni comuniste?» (che sopravvive nel formulario I-485 per l'immigrazione in pianta stabile). Oggi nelle librerie trovi L'ipotesi comunista di Alain Badiou, un libretto rosso che ricalca graficamente quello di Mao, presentato come Un nuovo programma per la sinistra dopo la morte del neoliberalismo. Qualcosa è cambiato. Quanto al decesso cui allude, fa venire in mente il commento di Mark Twain circa un erroneo necrologio che lo riguardava: «È una notizia largamente esagerata». Le riviste marxiste, giovani talpe, avranno ancora di che scavare.
L’EDITORE DI HARPER’S: NON PERDETE TEMPO COI TWEET
Ho trascorso un piccolo sabbatico da Harper’s, una delle più antiche e gloriose riviste americane (Jack London e Mark Twain tra gli antichi collaboratori). E avevo intervistato il suo direttore-editore.
Harper's Magazine (nessuna parentela col modaiolo Harper's Bazaar) è il più antico mensile generalista d'America. Dal 1850 a oggi ci hanno scritto da Jack London e Mark Twain a Tom Wolfe e David Foster Wallace. Una tradizione di cui il suo editore John R. MacArthur, giornalista a sua volta e nipote del miliardario filantropo John D. MacArthur, va giustamente fiero. E che coltiva e rilancia nella sua versione cartacea. In direzione ostinata e contraria rispetto al consensus dei grandi gruppi editoriali meno di un anno fa ha cancellato la app del giornale. E nel bel mezzo della campagna presidenziale più twittercentrica della storia ha chiesto ai suoi inviati di non distrarsi con i cinguettii giornalistici e di non perdere tempo a scrivere gratis su Facebook. Portavoce autorevole del paper pride giornalistico ci risponde via Skype dall'ufficio newyorchese inondato di luce e di libri.
Partiamo dai tweet: perché caldamente li sconsigliò?
«Perché toglievano energie e attenzione dal vero compito che ci dà un'identità e il reddito per difenderla: scrivere i migliori pezzi possibili per la rivista di carta. E poi c'era il valore simbolico. Ero sconcertato di fronte al candidato Trump che dominava la "conversazione" nella twittersfera e non volevo che scendessimo al suo livello, con la stessa superficialità. Un disagio che avevo già provato durante l'assegnazione del premio Pen/Saul Bellow a Toni Morrison. L'ospite d'onore della serata era l'amministratore delegato di Twitter che disse alcune cose ragionevoli contro la censura. A un certo punto i numerosi scrittori invitati alzarono i loro smartphone in gesto di assenso, come gli uomini primitivi avrebbero fatto con i bastoni. Tante persone il cui talento principale era scrivere frasi complesse che, come lemming suicidi, inneggiavano all'uomo che aveva inventato la comunicazione da 140 caratteri e che stava contribuendo alla distruzione della loro industria».Una sorta di sindrome di Stoccolma, a quanto pare. Cosa non la convince del mantra digital first, prima viene il digitale?
«Quella sensazione di fastidio fu istintuale. Più tardi però ho trovato pezze d'appoggio scientifiche al fatto che le persone capiscono meglio e ricordano di più quando leggono su carta. Penso alla norvegese Anne Mangen che l'ha dimostrato sugli adolescenti. O al francese Jean Luc Velay che ha spiegato che chi scrive a mano da piccolo diventa un miglior lettore da grande. E ciò non riguarda solo il godimento letterario, ma anche i manuali di medici e ingegneri. Se la loro comprensione peggiora è una catastrofe per tutta la società».Era proprio necessario dismettere la app della sua rivista?
«La nostra app non ha mai attratto troppi lettori. Nel chiuderla ne abbiamo tenuto conto e in cambio abbiamo reso il sito più leggibile sui dispositivi mobili. Il passo più radicale sarebbe quello compiuto da Laurent Beccaria editore del francese XXI, ovvero mettere online giusto l'indice e poco più. Eppure va benissimo. Come la rivista fotografica 6 mois. Mentre Ebdo, un nuovo settimanale senza pubblicità e senza web, ha chiuso dopo tre mesi. Non ci sono garanzie».Cosa ha la carta che allo schermo manca?
«Non conosco supporti di lettura più efficienti. Non siamo distratti dai banner. Ci incuriosiamo di articoli che non sapevamo di voler leggere, solo perché si trovano nella stessa pagina. E gli standard di qualità sono molto più alti. Sarà che i collaboratori dell'online sono pagati meno e i deskisti hanno meno tempo ma la differenza è chiara anche ai più tecnoentusiasti».Questo è evidente con i libri, che infatti resistono bene alla carica ormai spuntata degli ebook...
«Sono comproprietario di una nuova libreria indipendente a New York, Book Culture. Una risposta ad Amazon, fieramente pro-carta, e va benissimo. Organizziamo molti eventi, tra cui uno con Bernie Sanders in cui sono stati venduti 2000 libri. La gente aveva pagato un biglietto da trenta dollari per assistere. Credo da sempre nel paywall, sia nei giornali che, in questo caso, per l'accesso agli scrittori».La pubblicità non basta più?
«Facebook e Google ci stanno mangiando vivi. In America i giornali sopravvivono perché esistono i Free standing insert, quelle brochure infilate tra le pagine che, se anche provi a buttare il giornale, cadono per terra e ti capita comunque di vederle. Non solo resistono, ma crescono in popolarità!»Cosa le suggerisce il fatto che Jeff Bezos di Amazon abbia comprato il Washington Post e Laurene Powell Jobs, la moglie di Steve, sia diventata azionista di riferimento dell'Atlantic?
«Che ciò che abbiamo detto sin qui è terribilmente vero. E che anche i più fanatici tecnofili sanno che, se aspirano a un vero riconoscimento, devono misurarsi con la carta. Sente mai citare The Intercept, il giornale online finanziato dal fondatore di Ebay Pierre Omydiar? Anche Chris Hughes, uno dei primi finanziatori di Facebook, ha rilevato The New Republic, ma è un innesto che non ha funzionato. La carta ha logiche che vanno rispettate. È fisica, può essere ritagliata e resistere mesi su una scrivania, mentre ciò che è sullo schermo è per definizione effimero»Come immagina l'industria giornalistica nei prossimi cinque anni?
«Le cose peggioreranno, prima di tornare e migliorare. Ci saranno fusioni. Avevo una rubrica sul Providence Journal, un piccolo giornale di qualità. Il gruppo che l'ha acquisito ha tagliato sui deskisti. Risultato: mi hanno sostituito Nafta con Nato. E ho smesso di collaborare. Ci sono però segni di speranza. Come il Financial Times e il Wall Street Journal che, contrariamente alla religione dei tagli, hanno investito ancor più sui contenuti. Nel nostro piccolo Harper's ha adottato una carta migliore e non riduce la foliazione neppure quando va giù la pubblicità. Alla fine, ne sono sicuro, solo la qualità potrà salvarci».