#100 Come si gestiscono i matti pericolosi?
Viaggio in una Rems, le strutture che han preso il posto degli Opg; i no vax durante il Covid e la donna che cerca di dissuaderli; gigacapitalisti-show al Salone di Torino
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Prologo
Barbara Capovani, psichiatra pisana, era la migliore amica della mia fidanzata dei tempi dell’università. Com’era prevedibile era poi diventata una donna e una psichiatra piuttosto formidabile. Negli anni ho avuto bisogno dei suoi consigli che ha sempre dispensato con una generosità e una competenza rare. È stata uccisa brutalmente, con ogni probabilità, da uno che era stato brevemente suo paziente (nel senso che le avevano chiesto di valutare la sua presunta infermità mentale). Ho quindi cercato di trarre, da questa immane tragedia, almeno l’occasione per capire dove sarebbe dovuto stare il suo presunto assassino (era ai domiciliari, evidentemente molto laschi). E per parlare di una sua importante eredità professionale.
LE REMS, QUESTE SCONOSCIUTE
Per farlo mi sono fatto portare da Alfredo Sbrana, uno psichiatra che l’aveva preceduta come capo della psichiatria territoriale pisana, in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), le strutture che hanno preso il posto degli Opg. La cosa che Sbrana ha chiarito è che l’assassino NON sarebbe comunque dovuto stare in una Rems perché il suo è un chiaro disturbo della personalità che è cosa diversa da una malattia mentale. I dettagli nel pezzo sul Venerdì in edicola. Intanto un estratto su questi luoghi sconosciuti:
Troppi pochi posti? «Non necessariamente» spiega Sbrana: «Se dai 650 attuali si arrivasse a 8-900 non mi dispiacerebbe, ma il problema è che spesso qui finiscono persone che dovrebbero stare altrove». La legge istitutiva del 2014, che puntava a superare l’orrore di certi Opg, «bolge infernali con camere da 2-3 persone dove ne finivano tranquillamente anche 7-8», le aveva previste come “extrema ratio” per pazienti infermi di mente, quindi non imputabili. Ma dal momento che una sentenza della Cassazione nel 2005 aveva ritenuto tali anche i casi gravi di disturbo della personalità ora ci possono finire anche loro (il Dsm, la bibbia diagnostica, invece distingue chiaramente tra malattie, asse 1, e disturbi, asse 2). Spesso si è desunta, sbagliando, la presunta infermità dall’efferatezza di certi crimini. Patrizia Orcamo, la dirigente della Regione con cui ho negoziato i termini della visita, è ancora più netta: «Se ci mandassero solo le persone giuste i posti attuali sarebbero più che sufficienti». Lo dice sventolando l’ultima lista ricevuta del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (questa Rems è l’unica che prende internati esclusivamente dalle carceri, di tutta Italia, una specie di refugium peccatorum di ultima istanza) che indica una quarantina di potenziali candidati di cui «solo una decina risponderebbero ai requisiti originari di malattia». Mentre se il rapporto tra patologia e reato è debole avrebbe molto più senso cercare sistemazioni diverse, tipo comunità residenziali, senza sbarre.
30 OPERATORI PER 20 OSPITI
Questa conversazione avviene nella sala riunioni della struttura, una bella palazzina ocra, circondata da due anelli di recinzioni di circa tre metri, con vista sul giardino dove 4-5 dei quindici internati sui 20 posti totali chiacchierano vicino a due palloni di cuoio. È qui che, via Teams, il giudice di sorveglianza si collega con loro per ri-valutarne la pericolosità sociale. Lo staff prevede una trentina di persone tra infermieri, oss, educatori, assistenti sociali, psicologi e 4 psichiatri, tra cui il direttore Sbrana e la coordinatrice Elisabetta Olivieri che, per conto della Asl proprietaria dello stabile (il personale è invece assunto da una cooperativa privata) sovrintende ai rapporti con l’esterno. Simona Rombola, un’educatrice dagli occhi vispissimi ma uno scricciolo rispetto agli internati, tutti maschi, sui trent’anni di media, massicci, piuttosto imprevedibili, snocciola una serie di attività, dal calcetto alla musica, dall’insegnamento dell’italiano per i sei extracomunitari presenti, con sproporzione simil-carceraria, fino alla pet therapy con i cani e il Chi Gong, una specie di Tai Chi rilassante, in attesa di attivare corsi di teatro. Attività incastonate in una griglia che, nel riassunto del coordinatore infermieristico Alessio Tedesco, prevede sveglia alle 8 con colazione a seguire, spuntino alle 10.30, pranzo alle 12.30, merenda alle 16.30 e cena alle 19.30 e tre turni di somministrazione di farmaci «obbligatori, perché questo è un luogo di cura, con otto occhi per assicurarsi che li prendano davvero». Interviene Sbrana: «Le loro sono malattie da cui non si guarisce ma che vanno curate, per stabilizzarli. Con risultati a volte stupefacenti, tipo quando uno entrato col Tso, così agitato da arrampicarsi sui muri, è poi uscito salutando gli operatori». Sì perché oltre al clima interno, con tanta riabilitazione oltre al contenimento, l’altra fondamentale differenza rispetto a prima è che, se tutto va bene, non si è condannati a restare. «In questo primo anno sono entrate 23 persone e ne sono uscite 8, verso altre residenze e una addirittura a casa» calcola Olivieri: «E tutti sanno che potrebbe capitare anche a loro». Magari non a quel paziente che Sbrana aveva conosciuto prima all’Opg di Montelupo e poi ritrovato nella Rems a Volterra che, con tre ammazzamenti datati 1990, è sempre dentro. Né ai due qui per omicidio, che invano cercherò di individuare, ma la semplice possibilità è la fiammella che illumina occhi altrimenti piuttosto spenti.
TRA COVID E NO VAX
Durante il Covid il mio capo mi aveva detto: “L’unica buona notizia è che, adesso, i no vax si daranno una bella calmata”. Ingenuo. Questo l’attacco del pezzo che provava a verificare quell’ipotesi:
Tra le pochissime certezze circa il tanto vagheggiato quanto elusivo «ritorno alla normalità» c'è la prospettiva del vaccino. Solo allora, ripetono in coro virologi per il resto spesso in disaccordo, potremo ricominciare a fare più o meno quello che facevamo prima. Tempi duri per i no-vax, si pensava, dal momento che il loro nemico è oggi universalmente atteso come il Messia. Poveri illusi. La vasta nebulosa che dietro a ogni punturina per immunizzare qualcuno da qualcosa vede soprattutto l'ennesima iniezione nelle casse di Big Pharma non è mai stata più pimpante. La Grande Cospirazione, ai loro occhi, è diventata gigantesca. Prima hanno minimizzato i pericoli del Covid19. Poi hanno criticato la quarantena. Infine si sono concentrati sulla loro ragione sociale, al grido di «preferisco morire per la malattia che per il vaccino». Ingigantendone i rischi e delegittimandolo preventivamente con fanta-argomenti. Li siamo andati a cercare.
Vaccini basta è un gruppo Facebook dal titolo autoesplicativo. Ha oltre 28 mila follower. Il piatto forte, quando lo visito, è un post che smaschererebbe la presunta («presunto» è un totem linguistico nell'universo complottista) letalità del virus. Citando molto liberamente un'intervista al presidente dell'Istat Gian Carlo Blangiardo Stefano Scoglio, titolare di un'azienda nutraceutica specializzata in «microalghe ciano-batteriche del lago Klamat», rivela: «La verità è che qui c'è un fenomeno limitato a Bergamo e Brescia, che non ha nulla a che fare col virus cinese, e probabilmente ha a che fare con quello che emerge anche dall'intervista dell'Avvenire che allego: i malati erano tutti vaccinati!!!». Ah, ecco. Non sono morti di coronavirus ma di vaccino. A scanso di equivoci nell'articolo menzionato di vaccini non si parla affatto. Scrivo agli amministratori del gruppo. Il primo risponde subito, gentile. Quindi: aspettate anche voi il vaccino per la pandemia? «Ma che domanda è», obietta, dopo lungo pensamento, «è proprio sicuro che tutto il mondo lo attenda con ansia?». Contro-obietto che l'antico e rodato format delle interviste prevede che uno faccia le domande e l'altro dia le risposte.
Segue inutile confronto metodologico sin quando nella messaggistica non irrompe un secondo attivista: «Egregio provocatore, ha sbagliato indirizzo! Ne usciremo come il mondo è sempre uscito da altre epidemie in cui non esisteva e non esiste un vaccino immondizia!! Ignora forse un furbone come lei che x la Sars non si ebbe e non si è mai potuto fare un vaccino e che la peste nera non si fa quasi più vedere nonostante l'inesistenza di vaccini?? Finto giornalista studentello??». Chiedo sommessamente quale sia la sua formazione per avere idee così chiare al riguardo. La risposta (va detto che lo scambio si è fatto più frizzante che con il primo letargico interlocutore) arriva in un baleno: «Certamente, mi chiamano il castigadementi». E poi vai di «lacché», «fenomeno foraggiato» e consigli di rivolgermi al «somaro massone» (Roberto Burioni, il loro nemico giurato). Il primo amministratore, eclissato dall'irruenza del secondo, riprende la parola rispondendo al come torneremo a uscire di casa: «In qualche modo si troverà una soluzione, ma un vaccino per un virus mutageno la vedo dura, se non impossibile, da realizzare». In qualche modo tipo? (Mutageno, per inciso, vuol dire che trasforma le cellule attaccate in tumorali, e non è il caso del Sars-COV2). «Non ho risposte a questa domanda. Però potrei consigliarle di girarla a Giulio Tarro, dell'università di Stanford».
HEIDI, LA DONNA CHE SPEGNE LE FAKE NEWS
Qualche tempo dopo scoprì che c’era una persona che, di mestiere, cercava proprio di spegnere i focolai di disinformazione sanitaria nel mondo. L’avevo intervistata (qui l’inizio):
C'è una frase di Teddy Roosevelt, presidente degli Stati Uniti e premio Nobel per la pace, che Heidi Larson cita spesso: «Alle persone non importa quel che sai, a meno che sappiano che ti importa di loro». Le piace perché contiene molta della filosofia che l'ha spinta, undici anni fa, a fondare il Vaccine Confidence Project, il centro di ricerca che dirige all'interno della London School of Hygiene&Tropical Medicine. Ovvero: servono i dati, ma anche le emozioni per convincere la gente a fare qualcosa di innaturale come bucarsi un braccio per evitare una malattia che ancora non hanno. Ciò di cui quest'antropologa e una dozzina di ricercatori dalle estrazioni più diverse si occupano è di intercettare, nel loro stato nascente, focolai di sfiducia nei confronti delle immunizzazioni. Monitorando i social media, gli articoli sui giornali, le allerte dei sanitari locali. E provare, se non a spegnerli, almeno a gestirli, riducendone l'impatto negativo. Immersi come siamo in questa guerra (termine che disapprova) a intensità crescente tra no-vax e paladini del green pass, le sue competenze non sono mai state così preziose. Le parlo via Zoom da Bruxelles, dove vive col marito Peter Piot, un celebre esperto di Aids che ha preso il Covid oltre un anno fa. Questo per rimarcare l'attitudine molto dialogante che l'autrice di Stuck: How Vaccine Rumors Start and Why They Don't Go Away, dove racconta di come siamo tutti "incastrati" nelle nostre convinzioni, ha sviluppato nei confronti dei suoi negazionisti.
Fino a qualche tempo fa guardavamo ai no-vax come a un gruppo monolitico, tendenzialmente di destra, ideologizzato, che tende al reclutamento. Oggi ci accorgiamo che ci sono molte più sfumature. Una mia amica, molto sensata, non si è ancora vaccinata perché "si senton dire così tante cose". Ecco, come si fa a contrastare queste paure?
«Questa è la domanda da cento milioni di dollari. Nel caso specifico avrei chiesto "quali cose?". Sul versante della sicurezza parliamo di vaccini iniettati a oltre un miliardo di persone con una percentuale microscopica di effetti collaterali gravi. Ma se anche fosse un caso solo, è più che abbastanza se riguarda tuo figlio. Quindi bisogna ascoltare e prendere sul serio quelle paure. Più difficile è con gli ideologizzati, quelli che pensano che i governi vogliono controllarci. Anche con loro però si possono sempre trovare dei terreni comuni, che non hanno niente a che fare con il Covid, dal tifo calcistico al cibo. Una volta guadagnato un punto di accesso si può provare a suggerire prospettive diverse anche su come guardare al Covid. Perché non sono i vaccini a salvare le vite, ma le vaccinazioni».
LA MAMMA DEL COSPIRATORE È SEMPRE INCINTA
Ovviamente quella dei no vax è solo una provincia, mediaticamente assai esposta, delle terre emerse del complottismo mondiale. Qualche tempo fa avevo sentito un giornalista che si era incaricato di cartografarle. L’incipit:
La scena più bella, per quanto mi riguarda, è quella della missione vendicatrice di Edgar Maddison Welch. Armato di pistola, coltello e fucile semi-automatico questo magazziniere ventottenne si era messo in testa di schiacciare il verminaio satanico che si sarebbe nascosto nello scantinato di una pizzeria che aveva galvanizzato la fantasia dei complottisti di Pizzagate, un sottoinsieme di QAnon ossessionato dagli abusi sui bambini. Trova la porta chiusa. Spara sul lucchetto. Gli si spalanca una banale dispensa. Esce a mani alzate. Con i poliziotti ammette che le sue informazioni «non erano accurate al 100 per cento», premio eufemismo 2016. Seguono quattro anni di galera. Chissà se, con così tanto tempo per riflettere, ammetterebbe oggi di aver preso un granchio colossale oppure cincischierebbe ancora con le percentuali di errore? I teorici della cospirazione non frequentano il dubbio. O meglio, lo innalzano a mito fondativo che finisce per rovesciarsi nel suo contrario. Ogni evento, nella loro testa, deve connettersi con ogni altro. È l'interruzione della catena che li manda ai pazzi. Quindi se Anthony Wiener candidato democratico fidanzato con una collaboratrice di Hillary Clinton manda in giro foto con le sue parti intime a minorenni, ergo anche la candidata alle presidenziali deve avere un debole per le ragazzine. Basta un tale Q che ne annuncia su internet l'imminente arresto per dare il via alla saga di cui Trump diverrà ardente sostenitore, fino all'ignominia dell'assalto a Capitol Hill. Ma siccome l'horror vacui complottardo non si ferma di fronte a niente, una teoria interseca l'altra fino a dar vita alla «singolarità complottista» dove i rettiliani (saremmo prigionieri di rettili alieni, dediti alla pedofilia, che occupano il potere) incrociano i Protocolli dei savi di Sion (stavolta a governare il mondo è una teocrazia ebraica), Bill Gates, la pandemia o il 5G. Di questa moltiplicazione per impollinazione digitale di ghirlande di credulità popolare si occupa Complotti! (Minimum fax, pag. 330, e. 18) di Leonardo Bianchi, giornalista di Vice Italia convinto che «occuparsi dei margini della società sia, soprattutto negli ultimi due decenni, diventato essenziali per capirne il centro». Trump docet.
Per chi sabato (domani) è al Salone del Libro di Torino: mio spettacolo alle ore 19.00 Padiglione 3 Stand Q05 P06 Alkadia - Isola del Futuro
Epilogo
Per tutta una serie di circostanze autobiografiche ho incrociato, in più fasi della mia vita, la terra incognita della malattia mentale. A partire dal servizio civile al Polo Pini, l’ex manicomio di Milano. Tra i tanti pazienti me ne ricordo uno, il più distinto e pacifico. Era tra i pochi, a quanto pare, che non aveva familiarità col disturbo che poi l’aveva portato lì. lavorava in banca. Poi, un giorno, andò in filiale in pigiama. Non se n’era accorto. Questo per dire che, come gli oggetti negli specchietti retrovisori, anche la follia è più vicina di quel che sembra.