#162 I monopoli fanno male. A tutti
1) Vestager, la commissaria europea, lascia e fa un bilancio 2) Sei anni fa l'avevo già intervistata e mi aveva detto... 3) Intanto, in America, ci prova Lina Khan 4) Speechify
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Prologo
Hanno vinto i ricchi è alla terza ristampa in un mese. Viva! Non mi era mai successo e ne sono felicissimo. In certi momenti della giornata – le classifiche sono volatili e capricciose – mi trovo poco sopra o poco sotto a Haruki Murakami o Georges Simenon. Se lo regalate un po’ in giro qualcuno magari stacco anche Fabio Volo ;-)
LA ZARINA DANESE LASCIA
Margrethe Vestager, influente commissaria alla concorrenza Ue, lascia dopo due mandati. L’ho incontrata a Roma. L’intervista inizia così (il resto sul Venerdì, in edicola e online):
ROMA. Dopo due mandati, dieci anni tondi, lascia la titolare dell’unico divano su cui si narra che anche lo zen Steve Jobs si sentisse scomodo. La danese Margrethe Vestager, tosta commissaria Ue alla concorrenza, non è stata confermata per un terzo giro. Festeggia Big tech, di cui Vestager era diventata bestia nera, e anche Trump che le aveva dato della «dark lady». Si preoccupa la parte dell’opinione pubblica più avvertita che le grandi aziende tecnologiche hanno un potere pari, se non superiore, a quello delle nazioni. Con Musk che, coi suoi satelliti, fa e disfa le sorti della guerra in Ucraina. E, pagando gli elettori, magari anche quelle delle elezioni in America. Dove, fortunatamente, all’antitrust c’è Lina Khan che ha fatto recuperare molto tempo perduto e di recente ha osato anche più dell’Europa.
A sei anni da un’intervista nel suo colorato ufficio di Bruxelles incontriamo Vestager nella ben più tristanzuola rappresentanza romana della Commissione. Sempre elegantissima, in un completo beige molto accollato, perfettamente intonato allo stile delle risposte. Sul “licenziamento”: «Sono già estremamente felice di aver potuto fare il mestiere più bello del mondo per così tanto tempo». Sul piano Draghi sulla competitività, che sembra invocare più laissez faire: «Complessivamente buono». Sul testacoda della Von der Leyen sul clima: «La conosco bene. Sa bene che è una priorità e lavorerà per dimostrarlo». Speriamo. Competition is competition, certo, ma senza dimenticare mai che diplomacy is diplomacy.
Tempo di bilanci. Di quali cose, tra quelle che è riuscita a fare, è più orgogliosa?
«Se devo sceglierne una, il fatto che Apple pagherà, come avevamo chiesto, 14,8 miliardi di euro a Dublino di tasse non versate. Ma, più in generale, di aver affermato un principio fondamentale: per quanto grandi, anche le aziende tecnologiche devono rispondere delle loro azioni. Detta altrimenti: il potere comporta responsabilità. A lungo non è stato scontato: ora sì. E anche l’America, adesso, l’ha capito: ha visto della proposta di spezzettare Google? È una buona notizia».
Ci spieghi perché?
«Perché le piccole aziende con buone idee devono avere l’opportunità di sfidare quelle grandi: è così che il mondo va avanti e migliora e realizzare questa situazione è la spinta che mi ha buttato fuori dal letto in tutti questi anni. Ma se quelli che sfidi si approfittano della loro posizione dominante in un settore per avere vantaggi in un altro allora la competizione non è equa. Il nostro Digital Markets Act (DMA) serve a livellare il terreno di gioco».
Prevede anche sanzioni del 10 per cento del fatturato per chi sgarra, ma non mi sembra che siano ancora state applicate, no?
«La parte dell’enforcement deve ancora venire. Così come la possibilità, per chi ha un iPhone, di scaricare applicazioni anche da negozi online diversi dall’Apple Store o di non avere come browser preferenziale quello di chi produce il sistema operativo del tuo telefonino. Ma ci stiamo arrivando. E l’opinione pubblica è cambiata, diventando più scettica nei confronti di Big Tech».
“I DATI VALGONO DI PIÙ DELLA QUOTA DI MERCATO”
Sei anni fa, nel suo ufficio di Bruxelles, Vestager mi aveva detto parecchie cose. Tra cui:
Tra le ultime “attenzionate” Amazon: cos’ha fatto di male?
«Per il momento stiamo solo indagando. Il fatto è che Amazon ha due ruoli: ospita venditori ma vende anche direttamente. La domanda è: avere accesso a tutti i dati delle vendite e ai comportamenti sugli acquirenti la avvantaggia illegittimamente? Lo capiremo».
Si può dire ormai che la quota di dati è più importante di quella di mercato nel valutare il potenziale abuso di posizione dominante?
«Di certo lo è sempre di più. Un altro caso recente di cui ci siamo occupati è l’acquisizione di Shazam, la app per riconoscere le canzoni, da parte di Apple. I soldi in ballo non erano troppi ma anche lì in gioco c’era una messe di dati sui comportamenti musicali degli utenti. Alla fine abbiamo però stabilito che Apple non aveva colpe».
Il tema dei temi, però, mi sembra ancora quello delle tasse. Perché è così difficile farle pagare ai giganti del web?
«È un tema centrale perché, come ha calcolato l’ufficio del mio collega Pierre Moscovici (commissario agli affari economici), in media – ma sappiamo di aliquote ben inferiori – pagano il 9 per cento contro il 23 per cento delle altre aziende. È una differenza enorme e senza alcuna giustificazione. Frutto del fatto che le leggi fiscali sono antiche e vanno aggiornate. A cominciare dal quesito: come si crea il valore oggi?»
Ce lo spieghi…
«Nel caso di Google, ad esempio, il valore viene fuori dall’incontro tra la ricerca che digita l’utente e la risposta che gli fornisce l’algoritmo. Ma senza l’utente che chiede non esiste valore. E quindi se lui digita da Roma, il valore è originato lì. Bisogna aggiornare molti concetti, a partire da cosa vuol dire “presenza tassabile”. E questo aggiornamento culturale è urgente perché tutto si sta digitalizzando. Anche l’agricoltura, che sembra l’attività più terragna che si possa immaginare, ormai ha sempre più a che fare con i dati relativi al meteo, al territorio, ai pesticidi usati. Quantità digitali essenziali per l’esito di quelle fisiche».
Ma come spera di convincere Paesi come Olanda, Irlanda e Lussemburgo, che fanno del fisco vantaggioso uno dei loro export maggiori, a convenire su qualche forma di web tax?
«Nessuna trattativa sulle tasse è facile. Ricordo un collega che, quando ero ministro dell’economia in Danimarca, mi disse che sarei dovuta passare sul suo cadavere per far passare una modifica fiscale. È sempre vivo, ed è passata. C’è ovviamente bisogno di tutto il sostegno degli altri stati membri e a questo proposito l’Italia, dopo titubanze iniziali, dà il suo contributo. E si deve soprattutto capire che una frammentazione legislativa in questa materia è un lusso che l’Europa non può permettersi».
INTANTO IN AMERICA CI PROVA LA SECCHIONA KHAN
Due anni fa il Venerdì aveva pubblicato un’anticipazione del mio penultimo libro. Gigacapitalisti. Era un ritratto della capa dell’antitrust della Federal Trade Commission, Lina Khan. Eccolo:
Ecco, alla Ftc, la Federal trade commission, adesso è arrivata una studiosa di 33 anni, la più giovane e (probabilmente) più aggressiva che l’impolverata istituzione avesse mai conosciuto. Lina Khan, enfant prodige del diritto della concorrenza che insegnava alla Columbia di New York, la scelta più di sinistra che il presidente Biden abbia sin qui compiuto.
A lei si deve un contributo seminale nell’inquadrare almeno la difficoltà di mettere un freno ai nuovi leviatani digitali. Ovvero il paper Amazon Antitrust’s Paradox uscito sul Yale Law Journal nel gennaio del 2017 in cui spiegava che, nel caso del primatista del commercio elettronico, «è come se Bezos avesse immaginato la crescita dell’azienda disegnando prima le leggi sulla concorrenza e poi si fosse inventato strade per bypassarle senza sforzo». Perché il sintomo classico della patologia monopolistica è di far alzare i prezzi, mentre Amazon li abbassa. Quindi va tutto bene, il sistema è sano? Niente affatto, spiega Khan. Vuol dire piuttosto che il termometro del consumer welfare, ovvero l’impatto immediato sul loro portafogli, non è più adeguato ai nostri tempi digitali. Perché prediligere la crescita ai profitti, vendendo talvolta sottocosto, nel breve periodo può addirittura beneficiare i consumatori mentre nel medio, facendo fuori la concorrenza che non può sostenere quel dumping prolungato, nuoce loro senz’altro perché il cripto-monopolista lo diventa sempre di più.
Prezzi bassi? Ahi ahi ahi
Spiega Khan che la nuova dottrina deve piuttosto guardare ai “prezzi predatori” (apparentemente troppo bassi ma strumentali ad acquistare clientela e in quanto tali ricompensati dagli investitori quindi, alla fine, perfettamente razionali) e al fatto che «controllando l’infrastruttura essenziale su cui i propri rivali dipendono» le piattaforme online come Amazon possono «sfruttare le informazioni raccolte dalle aziende che la usano per vendere i propri prodotti per indebolirle come concorrenti». Detto altrimenti, Bezos può utilizzare le “terze parti” (che generano i due terzi delle vendite sul marketplace) come cavie. Intanto si fa pagare per la vetrina che offre loro sul negozio virtuale ed eventualmente anche la sua rodatissima logistica. Nel frattempo però li osserva e capisce chi va bene e chi no, e per quali prodotti. A quel punto, forte di questa conoscenza, entra sul mercato con merci in grado di far loro concorrenza. Nelle parole di Khan: «Sono le terze parti che si accollano i costi iniziali e le incertezze legate all’introduzione di nuovi prodotti. Mentre, dal solo tenerli d’occhio, Amazon arriva a vendere quando il loro successo è stato adeguatamente testato». Facile fare gli imprenditori col rischio d’impresa degli altri.
Amore bipartisan
La singola novità più rivoluzionaria della new economy è stata quella di aver sdoganato il gratis. Dai fornitori di posta elettronica ai produttori di browser oltre che di innumerevoli altri servizi digitali, c’è tutta una schiatta di aziende diventate celebri, quando non ricche, regalando i prodotti e puntando su una ricompensa successiva.
Agli inizi ci si era illusi che l’industria si sarebbe autoregolata. La circostanza che vecchie glorie come Yahoo! avessero ceduto il passo a Google e Myspace a Facebook sembrava la prova ontologica che la concorrenza in ambito tecnologico fosse intensa anche senza intervento statale. Nessuno ci crede più. Per questo Khan ha ragione e Big tech fa bene a temerla. Come dimostra l’immediata richiesta congiunta di ricusazione dall’incarico da parte di Facebook e Amazon dal momento che era sempre stata molto critica e non sarebbe potuta essere una «valutatrice imparziale». Uguale (quanto a unanimismo) e contraria (per direzione) è stata la reazione della politica. La senatrice di sinistra-sinistra Elizabeth Warren ha parlato di «enorme opportunità per un grande, strutturale cambiamento». Così come il destro-destro Ted Cruz si è precipitato a dire che «non vedeva l’ora» di lavorare con lei. D’altronde, oltre alla belligeranza contro la Cina, la fine della pazienza con Big tech è uno dei pochi aspetti che mette d’accordo Donald Trump e Joe Biden. Poco dopo averla nominata, il presidente ha firmato un decreto esecutivo con cui ordina agli organismi regolatori di promuovere la competizione nell’economia americana. «Voglio essere molto chiaro: il capitalismo senza concorrenza non è capitalismo. È sfruttamento» ha detto licenziando il testo che contiene 72 misure per limitare lo strapotere delle grandi aziende.
Le piattaforme discriminano
In teoria, sostiene Kahn, ci sono due strade per regolare i nuovi potenziali monopoli digitali. La prima è provare a impedire che diventino tali per integrazioni verticali. La seconda, arrendendosi all’evidenza di una naturale tendenza se non al monopolio almeno all’oligopolio, di limitare il potere che da ciò deriva. Da qui si biforcano due ulteriori stradine. La prima è quella delle public utility (che ha riguardato acqua, elettricità, ma anche ferrovie e operatori telefonici): accetta i benefici insiti al monopolio e si accontenta di limitare il potere che deriva da questa condizione. È stata la soluzione, a trazione progressista, usata per piegare i privati (tipo gli operatori telefonici) verso fini sociali (fornire un servizio universale). Una classica misura è pretendere di non discriminare sui prezzi. Nel caso di Amazon significherebbe proibirle di privilegiare le sue merci a danno degli altri venditori. E non sarebbe poco. Alla non discriminazione si potrebbero aggiungere gli obblighi del common carrier, ovvero di assicurare un accesso aperto ed equo ai concorrenti.
La seconda stradina è quella delle essential facilities. Un approccio più leggero che impone alcuni oneri di condivisione a chi ne è soggetto. Tipo: non potrai negare l’accesso alla tua piattaforma ai concorrenti. «Tale dottrina è stata tradizionalmente applicata a infrastrutture come ponti, autostrade, porti, reti elettriche e telefoniche» scrive Kahn «ma dato che Amazon controlla infrastrutture chiave per il commercio elettronico, imporre un simile dovere di concedere accesso su base non discriminatoria ha senso». Questa soluzione avrebbe il vantaggio di mantenere i «benefici di scala ma al contempo evitare che attori in posizione dominante abusino del loro potere». Nel 2019, per dire, Amazon consegnava circa metà dei suo pacchi. Erano il 15 per cento solo due anni prima. E sarà senz’altro più alta adesso. Il dominio nel commercio elettronico, come da manuale bezosiano, è stato usato per aprire strade in altri settori a partire da quello della logistica, con lo scopo finale di mettere fuori gioco FedEx, Ups e tutti gli altri corrieri che si troverà davanti.
SENTI CHI LEGGE, IL TELEFONO!
L’ultima Galapagos:
Ho una formidabile amica neo-novantenne. Con la testa di una ragazza ma la maculopatia secca, una forma degenerativa che le ha già tolto quasi tutta la vista da un'occhio. Per fortuna ne abbiamo due, ma insomma c'è poco da stare allegri perché una vera cura non c'è. Siccome è una gran lettrice, abbiamo cercato una soluzione tecnologica. Il suo iPhone ne offre alcune. Già usare la funzione "lente d'ingrandimento" ti salva al supermercato per leggere le scritte sui prodotti. Poi, nelle impostazioni di "accessibilità" si può attivare la funzione "contenuto letto ad alta voce". A quel punto basterà trascinare due dita dall'alto al basso per leggere tutto quel che c'è sullo schermo o solo una sezione. Certo, la voce è abbastanza robotica e soprattutto legge veramente tutto, compresi gli orari di quando una mail ti è stata mandata: complessivamente l'esperienza è piuttosto frustrante. Quanto ai messaggi, la voce legge bene quelli del sistema Apple ma si rifiuta di farlo con quelli di Whatsapp (la concorrenza è concorrenza, ma forse Cupertino poteva essere più generosa).Alla fine però ho scoperto dell’esistenza di Speechify, un'app che legge, bene, tutto quello che vede. Pagine di libri di carta, pdf, siti: praticamente ogni cosa che sia scritta. Con varie voci sintetiche ma aggraziate, con una loro convincente prosodia. Siccome la mia amica legge correntemente in tedesco, francese, inglese e ovviamente italiano, l’unica scocciatura è cambiare la voce per le diverse lingue. Ma è comunque un bel passo avanti. Costa 149 euro all’anno, se ricordo bene, ma non credo che li abbia mai considerati meglio spesi.
Epilogo
Biden ha fatto più di una cosa buona in politica interna, tipo aver messo in posti di potere gente come Lina Khan. In politica estera è stato catastrofico. Ha contenuto a bisbigliare “cessate il fuoco” sapendo benissimo che se avesse tolto i finanziamenti militari a Israele il massacro sarebbe finito il giorno dopo. È una responsabilità storica enorme.