#161 Gli archivi del mondo
1) Alle Isole Svalbard in cerca della memoria indistruttibile 2) In Texas dove riposano gli scritti di David Foster Wallace (e di tanti altri scrittori) 3) In California, all'Internet Archive
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I FILE PERENNI DELLE SVALBARD
Si è scritto molto dell’archivio dei semi della Isole Svalbard. Un luogo che conserva, nel permafrost del luogo abitato più a nord del mondo, la biodiversità del pianeta, nel caso in cui qualcosa dovesse andare storto. Poi ho scoperto che, a un tiro di schioppo, c’era un altro archivio. E sono andato a vedere ed è diventato il servizio di copertina del Venerdì in edicola. Inizia così:
LONGYEARBYEN (Isole Svalbard). Tutto qui grida "resistere al peggio". A partire dai piumini per quando fuori fanno -40 gradi, nel negozio che noleggia fucili di precisione per difendersi dagli orsi polari (è caldamente raccomandato di averne uno con sé quando si lascia il centro abitato). Senza però rinunciare alla tenerezza, dal momento che vendono anche flute di plastica smontabili per uno champagnino nella tormenta. Per proseguire con lo Svalbard Museum in cui si racconta anche di quando i pomors, irriducibili immigrati russi, costruirono dei rifugi nell'isola per cacciare la balena tutto l'anno e non solo durante la bella - si fa per dire - stagione. Quest'anno, a fine settembre, il clima è ancora tiepido, solo cinque gradi sotto lo zero, per il riscaldamento climatico che qui alza le temperature quattro volte di più della media globale. Rune Bjerkestrand, fondatore di Piql, specialisti di "preservazione digitale" nonché padrone di casa, ne approfitta per tener fede a una promessa prevista nel programma, alla voce "bagno nell'Artico". Si mette in boxer e si tuffa, seguito solo dall'intrepida archivista della Fondazione Jaguar, un'inglese coi capelli fucsia-verdi-azzurri, forse omaggio all'aurora boreale che non riusciremo a vedere. Mentre il cronista, insieme a una trentina di persone venute da mezzo mondo per assistere all'annuale deposito di dati nell'Arctic World Archive (Awa), pudicamente battono i piedi per scongiurare la necrosi degli alluci. Per il rituale dell'indomani ci sarà da scendere in una miniera dismessa. Scavata nel permafrost, i ghiacci perenni che garantiscono una temperatura sottozero. Che dovrebbero assicurare, assieme ad altri ingredienti che vedremo, di mantenere intatte le informazioni qui fisicamente conservate dai 500 ai 2000 anni. Le Biblioteche Vaticane, che con l'eternità hanno un rapporto preferenziale, sono già venute qui due volte per mettere in salvo la loro copia della Divina commedia e molto altro ancora. Ma sono venuti anche i governi messicani e del Brasile per preservare i manoscritti delle loro costituzioni. Cliente - perché si paga, sebbene sia difficile capire quanto - anche GitHub, col suo immenso catalogo di software libero acquisito da Microsoft. E poi Yale, l'agenzia spaziale europea, l'Unicef. Insomma, tutta gente sveglia che non butta via i soldi. Ma davvero, con tutto il cloud a disposizione, c'era bisogno di arrampicarsi al parallelo abitato più a nord del globo per stare ragionevolmente sicuri di non perdere documenti preziosi? Oppure è una domanda mal posta e quella vera, ultima, esistenziale è che quest'ascensione all'estremo settentrione ha decisamente più a che fare con riaffermare la sacralità della memoria in un mondo effimero come una storia di Instagram?
DOVE LA LETTERATURA NON VA A MORIRE
Nel pezzo cito un altro tipo di archivio che ho visitato qualche anno fa. Si trova in Texas ed è diventato uno dei fortini delle letteratura globale. Ecco l’articolo:
Austin (Texas). Una parte cospicua di quello che fu il disco fisso esistenziale di David Foster Wallace è stata salvata in un bunker di calcare e vetro. L’Harry Ransom Center dell’università del Texas a Austin sta diventando il Fort Knox della letteratura contemporanea. L’ultima acquisizione è quella dell’archivio, compresi 17 anni di email personali, di Ian McEwan (due milioni di dollari). Prima era stata la volta di Joyce, Salinger, Coetzee. Ma anche di molti manoscritti di Borges, la copia autografa di Pound della Terra desolata e un ciuffo dei capelli castani di Byron. L’attrattiva più antica ed ecumenica è una delle 23 copie complete della Bibbia di Gutenberg, comprata nel ‘78 (per 2,4 milioni) come tributo postumo a quel Ransom eponimo del centro che fu bravissimo nel convincere i petrolieri che la filantropia culturale smacchiava benissimo certe reputazioni annerite. Oggi il conto da 200 milioni dell’archivio fotografico Magnum l’hanno pagato l’ex primatista mondiale della produzione di computer Michael Dell e i finanzieri Glenn Fuhrman e John Phelan che, sfogliando l’album fotografico internettiano, si segnala per un gessato degno di Goodfellas con la variante di una camicia rosa che esonda dalla cintura, avvinghiato alla consorte Amy una spanna più alta con indosso un vestito optical e tanto botox. Non è dato sapere se i loro patrimoni siano serviti a far arrivare in questa opulenta periferia dell’impero letterario anche i quarantaquattro scatoloni e otto faldoni (più 321 libri che gli appartenevano) pieni di appunti e ritagli dell’autore di Infinite Jest morto suicida nel 2008. Resta che il fondo DFW è, tra i tanti conservati qui, quello più magnetico («L’anno scorso circa 600 ricercatori da tutto il mondo sono venuti a consultarlo» dice la curatrice Megan Bernard che evade con un sorriso Teflon ogni volgare quesito pecuniario), secondo solo al ben più classico epistolario dell’editore Alfred Knopf. Nonché un microcosmo per entrare, anche da porte secondarie come l’insegnamento che amava ricambiato, nel sistema operativo del labirintico, massimalista, depresso e divertentissimo scrittore del New England.
Prima di poter consultare devi guardare un video di istruzioni. Ti mettono a disposizione fogli gialli e matite. Foto ok, ma senza flash. Certi testi antichi vanno appoggiati su un trespolo foderato di velluto rosso. Si raccomandano di non strusciare col gomito sopra gli incunaboli. Un bibliotecario ti insegna come scegliere i contenitori da un computer. A quel punto in 10-15 minuti qualcuno ti porta (massimo cinque alla volta) questi parallelepipedi di cartone grigio topo rinforzati agli angoli e li appoggia su un tavolinetto da cui attingere un faldone alla volta. L’errore più banale, in cui il cronista come un bimbo in pasticceria incorre, è di cliccare su troppi contenitori diversi facendo lievitare drammaticamente i tempi.
La cosa meno nota è la collezione di sillaby, i programmi dei corsi che Wallace ha insegnato in varie epoche e università. Lo scopo dell’Introduzione tenuto all’Illinois State University nella primavera del ‘92, è «sviluppare opinioni intelligenti su cosa è la letteratura, sul perché potrebbe essere roba importante da conoscere da parte di altri esseri umani». Quanto allo svolgimento «il corso deve essere più lo show degli studenti che quello del professore» quindi i voti dipenderanno largamente dalla quantità e dalla qualità della partecipazione. Per essere più chiari: «Con qualità intendo che roba tipo “non so, pensavo che la poesia fosse, cioè, ok” non vi porterà molto lontano. Invece qualsiasi cosa sincera, ogni prodotto di una reale attività neurologica va bene. NON ESISTONO DOMANDE STUPIDE SULLA LETTERATURA. E vi dico in anticipo che a volte mi sbaglierò, o non sarò abbastanza chiaro, o solo (...) denso in certi giorni e allora dovrete sentirvi liberi di fare domande, chiedere chiarimenti, anche litigare (educatamente) quando non siamo d’accordo. Il che succederà».
Le avesse pronunciate un altro, si potrebbero liquidare come le furbe dichiarazioni programmatiche di un prof ruffianamente in vena di democrazia. Ma, come testimonia un altro contenitore, questo era lo stesso uomo capace di ingaggiare il suo editor più fidato, Michael Pietsch, in tenzoni interminabili sull’opportunità di una virgola («Ma perché ha messo questa virgola!!!» scrive a lato di un passaggio di Underworld di Don DeLillo, con cui intratterrà una vasta corrispondenza contenuta in un altro box). «Caro Michael, grazie per le correzioni. Sono sconcertato che tu abbia trovato così tanti refusi dopo che questa cosa è passata dal filtro mio, di Rolling Stone e mio di nuovo. Temo che a 38 anni non potrò più definirmi neppure un quasi-grande correttore di bozze». Giura di aver accolto il 96 per cento delle correzioni. Però puntualizza: «È una sciocchezza ma l’American Heritage Dictionary elenca to welch (rimangiarsi) come una variante accettabile di to welsh. L’ho corretto in deferenza a tutti gli insidiosi strafalcioni che hai beccato, ma il pedante che è in me non resiste dal farti notare che quindi non sarebbe veramente un errore». È questo tipo di attitudine che lo fa avvertire gli studenti: «Sappiate in anticipo che sono un nazista quanto a scrittura attenta, refusi, punteggiatura e rispetto del lettore». O, in un altro corso, li invita caldamente a rileggere, con un dizionario, da soli o davanti a un compagno fidato, per «evitare tragiche perdite di punti». Ci sono pagine e pagine a interlinea singola piene soltanto del corrispettivo linguistico di fare le flessioni: dictionary building, il potenziamento del vocabolario. Si va da capezziera (la stoffa che protegge la parte della poltrona dove si appoggia la testa) a catamite (efebo), da epiclesi (il momento della messa in cui viene invocato lo Spirito santo) a orgone (l’energia cosmica primordiale, la libido degli umani). Un catalogo incrementale dell’esattezza, in nome della sua parossistica sensibilità linguistica (Sprachgefühl è il termine tedesco che mette in una lista del ‘97). Ecco, per dire che non era uno che predicava bene e razzolava male. Quello che pretendeva dagli allievi era solo una frazione di ciò che chiedeva a se stesso.
Però poi, come un genitore orgoglioso, conservava anche dei campionari di frasi divertenti concepite da loro. «Ho preso una multa per eccesso di velocità, disse precipitosamente». «Mi piacerebbe un altro Martini, disse seccamente». «Accendete la lavatrice, disse la mamma con riflesso automatico». Non lesinava consigli: «È un dato di fatto: gli studenti che vengono a ricevimento finiscono col fare un lavoro migliore. Ci sono 3 ore alla settimana, uno specialista altamente addestrato, altamente pagato, che si fissa l’ombelico e non fa altro che aspettare che qualcuno si presenti con domande o problemi. Farò del mio meglio per fissare un appuntamento anche fuori dagli orari ufficiali se non doveste farcela». Era il prof che avremmo tutti voluto. E in più era DFW.
Agli allievi di Analisi letteraria dell’autunno ‘94 chiede di spiegare quale, tra Black sunday o Il silenzio degli innocenti di Thomas Harris, sia il libro migliore. E poi di «convincere il lettore del perché avete ragione. Ma ricordatevi che è piuttosto dura dare una valutazione convincente di un romanzo senza fornire un’idea chiara di quale sia il tema centrale e perché risulta così interessante». Insomma, niente fuffa. Opinioni sì, ma sui fatti. E nessun snobismo da parte sua perché la letteratura è prima di tutto quella materia viva che la gente consuma e che magari diventa anche cinema di enorme successo. Basta guardare la sua copia tascabile sulle gesta di Hannibal Lecter, glossata in più colori, come una Torah pop.
La lista dei reperti inattesi potrebbe proseguire per giorni. Da una sua edizione dell’Idiota di Dostoevskij salta fuori un volantino intitolato Formula per la pace della mente. Si riferisce a un vecchio studio della Duke University, snocciolato in pillole. 1. Rifuggite il sospetto e il risentimento. Tenere rancore dimezza il livello di felicità. 2. Vivete nel presente e nel futuro. La maggior parte dell’infelicità deriva da un’indiscriminata preoccupazione circa errori e fallimenti del passato. E via così. Spunta un post-it entusiasta sul titolo (effettivamente notevole) della poetessa Matthea Harvey: Commiserate la vasca da bagno, il suo abbraccio forzato con le forme umane. Da un’antologia di scritti sull’idealismo sbuca un appunto sull’importanza di abolire la revolving door, pratica per cui ex-dirigenti pubblici si riciclano nel privato per lucrare. C’è follia in questo metodo?
Uno degli ultimi pacchi che mi portano contiene una decina di diverse versioni del discorso alle matricole del Kenyon College del 2005. Quello sul pesce anziano che mette in crisi due pesci giovani chiedendo loro come sia l’acqua. Verso la fine, nel climax ormai celebre in cui spiega che ciò che sta cercando di dire «non ha niente a che fare con la moralità o la religione o i dogmi o i grossi bizzarri interrogativi sulla vita dopo la morte. La Verità con la v maiuscola ha a che fare con la vita prima della morte», il foglio diventa un campo di battaglia. Un pennarello rosso fa fuori i riferimenti a «Lao Tzu e Platone e Cristo e tutti i veri maestri», taglia, sposta, asciuga ancora. Elimina anche tutto un paragrafo su un koan zen piuttosto famoso sulle apparenti sventure che finiscono per nascondere inaspettate opportunità. L’unica certezza wallaciana che emerge da questa messe texana di marginalia e paratesti è che solo fare bene il proprio lavoro, con tutto l’amore e la cura umanamente possibili, è la zattera cui aggrapparsi. Non ha salvato lui, come tragicamente noto, ma è un raro appiglio saldo tra le insensate e furenti onde della vita.
QUEI FORMIDABILI ARCHIVISTI DELL’INTERNET
Parlando di archivi della conoscenza non si può non parlare dell’Internet Archive. Si trova in una buffa ex-chiesa a San Francisco. Qualche anno fa ero andato a intervistare i suoi fondatori. Qui sotto l’articolo:
SAN FRANCISCO. L'aspettativa di vita di una pagina web è di cento giorni. Poco più di una stagione e poi rischi di non trovarla più, giura chi compila queste statistiche. Chi l'ha creata può averla cancellata o, più semplicemente, averle cambiato posto. Il risultato non cambia: Error 404, page not found che è come il sito che avrebbe dovuto ospitarla si scusa per il disagio. Si diceva una volta: internet è per sempre, una volta che c'hai scritto qualcosa ci resta. Soprattutto certe figuracce epiche. In realtà dipende. Perché la memoria della rete, per dirla in romanesco, po' esse piuma e po' esse fero. Graziarti con l'oblio o inchiodarti al ricordo perenne. Brewster Kahle, l'uomo con la prima camicia impossibile di questa storia (con mandala stilizzati verde bottiglia, verde salvia, nero e blu navy) che si è tolto le scarpe e siede comodamente davanti a me, è quello che da oltre vent'anni fa di tutto perché sia sempre fero. Per una convinzione civica per cui chi dimentica la storia è condannato a ripeterla. All'inizio il suo Internet Archive voleva archiviare solo il web, poi l'ambizione è cresciuta in maniera vertiginosa e oggi, candidamente, la missione è «fornire accesso universale a tutta la conoscenza».
Magniloquenza a parte, in pratica cosa significa? A ieri, ma sono numeri che crescono di giorno in giorno, parliamo di 330 miliardi di pagine web salvate, oltre 20 milioni tra libri e testi vari, 4,5 milioni di audio (compresi 180 mila concerti dal vivo), 4 milioni di video (inclusi 1,6 milioni di programmi televisivi, 3 milioni di immagini, 300 mila programmi software. Tutta roba a cui si può aver accesso, gratuitamente, da ogni parte del mondo, registrandosi all'indirizzo archive.org. C'è n'è più che abbastanza per andarne fieri. In confronto la mitica biblioteca del congresso di Washington, con i suoi 150 mila titoli in prestito digitale, fa la figura di una micragnosa emeroteca di quartiere. Ma intanto capiamo chi è questo privato che, tendenzialmente di tasca sua, ha messo su un servizio pubblico planetario. Newyorchese cinquantottenne, dopo la laurea in informatica al M.I.T., si inventa prima il Wais, un protocollo per pubblicare online e poi Alexa (da Alessandria d'Egitto, in ossequio alla preesistente ossessione bibliofila), un software che in automatico valutava se un sito era attendibile, famoso e quanto. Vende Wais ad America OnLine per 15 milioni di dollari e Alexa ad Amazon, che poi mutuerà il nome per battezzare la sua intelligenza artificiale, per 250. L'uno-due lo emancipa definitivamente dal bisogno che è ancora trentenne e a quel punto decide di sdebitarsi con la società. Come? Lavorando a correggere una distrazione di Tim Berners-Lee, il fisico del Cern che ha dato i natali al web, architettura straordinariamente elegante ma che non prevedeva di tener traccia delle varie versioni delle pagine pubblicate. Il nuovo cancellava il vecchio e tanti saluti. «Wikipedia, ad esempio, non si comporta così» dice nel suo ufficio a pretenziosità zero, così lontano dall'estetica finto-casuale ma ormai standard della vicina Silicon Valley, «e puoi sempre risalire alle versioni precedenti, per vedere tutti i cambiamenti che sono stati fatti e non perderti niente». Sembrerebbe una vicenda tecnica, da smanettoni incalliti, ma le conseguenze hanno ricadute che tutti possiamo apprezzare. Sappiamo che un separatista ucraino di nome Strelkov ha reclamato su VKontacte, un social media russo, la paternità dell'abbattimento di un aereo poco dopo lo schianto del Boeing 777 della Malaysian Airline e la morte di tutti i suoi 290 passeggeri. Lo sappiamo solo perché, nonostante che Strelkov avesse rapidamente cancellato l'annuncio, questo era stato salvato dalla Wayback Machine, l'applicazione più celebre dell'Archivio, quella che a intervalli regolari setaccia a strascico la rete e fa copie di un miliardo di pagine alla settimana.
Sebbene il grosso di questa catalogazione avvenga in automatico, grazie a piccoli e infaticabili software chiamati crawler, nel caso di Strelkov era stato uno specialista di faccende ex-sovietiche a segnalare all'Archivio di tenere un occhio su quanto pubblicava quel tipo. È un esempio tra mille. I bot, un altro modo per chiamare i software cha vanno in giro a fare copie a intervalli variabili (una volta ogni paio di mesi per siti che cambiano poco, più volte al giorno per quelli di notizie), faticano solo davanti ai paywall («Ma anche lì basta pagare un abbonamento per entrare») e davanti a aggregatori come Apple News, particolarmente ostili all'indicizzazione. Tramandare ai posteri una pagina altrimenti deperibile può avvenire anche per iniziativa popolare: basta copiare l'indirizzo dentro il servizio SaveYourPage e una copia sarà preservata, in una sorta di formaldeide elettronica, fin quando l'Archivio avrà soldi per pagare la corrente che fa funzionare i super-computer ospitati al 300 di Funston Avenue. Già che ci siamo arrivati, due parole sulla sede. Bianca come l'Altare della Patria e addirittura più pacchiana, era una chiesa che la Fourth Church of Christ, Scientist, aveva messo in vendita nel 2009. Lui vide le colonne ioniche del propileo ed ebbe come un'illuminazione: «Sono uguali al nostro logo!». A militare per la predestinazione aggiungete il fatto che era stata costruita nel 1923, ovvero l'anno spartiacque del copyright in America: tutto quello che è stato pubblicato prima non ha più diritti. E dunque al pianterreno c'è un grosso spazio comune con una dozzina di scrivanie intorno al quale si aprono varie insenature che corrispondono ad altrettante stanze, tra cui quella di Kahle. Per non dire di una saletta con un paio di sofisticatissimi scanner che possono acquisire un libro in un paio d'ore. Poi altri computer per registrare i video. E altri ancora per gli altri media, compresa una collezione vertiginosa di dischi a 78 giri. Salendo si arriva nella sala principale, che ha ancora le panche originarie e, al posto dei fedeli, statue colorate che assomigliano a nani da giardino ipertrofici e raffigurano i dipendenti presenti e passati (oggi sono 140, con due ingegneri italiani qui nella sede centrale), che abbiano almeno tre anni di anzianità. Sulla parete dalla parte opposta al pulpito svettano le vere divinità residenziali: tre totem composti ognuno da dieci computer montati uno sull'altro, il vero cervello dell'Archivio. «Ogni lucina che si accende» spiega estasiato «corrisponde a un essere umano che, da qualche parte nel mondo, ha scaricato un libro o un altro file». Tenere in piedi tutto questo costa 18 milioni di dollari all'anno, che provengono per un terzo dalle biblioteche che pagano il servizio di scannerizzazione in cui l'Archivio è maestro (solo Google fa meglio di loro: 25 milioni contro 4 milioni di titoli), un terzo da collections/web pages e un terzo da donatori privati. «Quest'ultima parte è fortunatamente in crescita» chiosa soddisfatto Kahle «e in ogni caso ho disposto delle mie risorse per assicurare che la baracca continui anche dopo di me».
C'è una nuova urgenza nel meritorio lavoro che fanno. Il prima e il dopo si chiama Trump. «All'indomani dei risultati elettorali ho convocato una riunione d'emergenza e ci siamo chiesti come dovevamo/potevamo rispondere a quell'incredibile cambio di scenario» dice facendosi serissimo «e la riposta che mi sono dato è: facendo ciò che facciamo, i bibliotecari, ma ancora meglio». In pratica, con tre mosse. Costruendo un Trump Archive che conservi tutti i discorsi del presidente, tutti i suoi tweet, la stragrande maggioranza delle sue apparizioni televisive a futura memoria (e contro eventuali ritrattazioni). Aumentando considerevolmente il livello di cybersicurezza che proteggeva l'Archivio. Infine facendo una copia di tutto in un altro stato, il Canada, nel caso in cui il governo decidesse di immischiarsi. A sentirlo parlare quest'ultima contromisura sembra una cosa banale. Ma non è affatto come copiare una serie tv piratata su una chiavetta. Una volta, per dare l'idea plastica di quanta roba fosse internet, riempì di dischi fissi un container. Tanto pesava. Confesso che non mi immagino come scorrano le sue giornate: esattamente, cosa fa? Nel 2002 aveva proposto che I.A. diventasse capofila, in collaborazione con varie biblioteche nazionali, di un consorzio di archivi del web. L'auto-candidatura non ebbe seguito ma l'idea germinò l'anno successivo nella creazione dell'International Internet Preservation Consortium, diretto dalla Bibliothèque Nationale de France. All'epoca erano 12 membri, oggi 49. In America succede ogni giorno che un milionario ben disposto faccia le veci di uno Stato minimo. In Europa è così esotico che i sospetti hanno la meglio. Quanto a differenze culturali, ce l'ha con l'Unione europea che ha fatto passare la direttiva sul copyright in chiave anti-piattaforme e pro-giornali (sto semplificando per brevità: cari troll, tirate un bel respirone o andate al mare). Al che, quando alludo al fatto che a forza di mettere a disposizione tutto quel ben di Dio gli editori resteranno in braghe di tela, ci tiene a chiarire un punto cruciale: «No, non è così. Perché noi ci comportiamo come una biblioteca: abbiamo un libro, regolarmente comprato, e quello prestiamo. Hai due settimane per leggerlo e poi torna disponibile per il prossimo. Non danneggiamo nessuno». Il che è assolutamente vero, ma non toglie che per loro natura i file digitali (anche quelli protetti che usano loro) possono essere con poco sforzo sprotetti, manipolati e moltiplicati più dei pani e dei pesci. Con inevitabile danno per i titolari della proprietà intellettuale. Ma questo è un discorso lungo, complesso e fatalmente impopolare dal momento che ci sono mille utenti contenti di aver scaricato gratis per ogni autore triste per essere stato letto gratis. In ogni caso una parte del budget andrà per esaudire, comprandola, una «lista dei desideri lunga ben un milione e mezzo di titoli».
Un progetto enorme a cui stanno lavorando è aggiustare tutte le note a pie' di pagina di Wikipedia. Sembra un'ambizione circoscritta, ma non lo è. La veridicità delle voci dell'enciclopedia online riposa infatti sulle fonti. Peccato che, come spiegava già un citatissimo studio del 2013, quasi metà dei link negli articoli scientifici non è più buono in capo a sei anni. Che la chiamiamo reference rot o link rot, la parola più importante è la seconda: marcio. Il link è andato a male, scaduto, non porta più da nessuna parte. «L'idea è di sostituirli tutti» si impegna Kahle «con un colossale e impegnativo trova e sostituisci, con link che puntino a pagine conservate dall'Archivio, che mai cambieranno indirizzo e quindi non daranno problemi». E non solo questo. Come già intuiva quasi vent'anni fa il direttore del Media Lab Walter Bender, all'epoca dell'inflazione da informazione l'unico vero lusso resta il contesto. Quindi, rilancia, «se una nota rimanda a un libro il link non sarà genericamente al libro ma direttamente alla pagina in cui l'affermazione è contenuta». Mi mostra un esempio di quelli che chiama live link ed è uno spettacolo. Ora c'è solo da replicarlo qualche miliardo di volte e il gioco è fatto. Trattasi di rivoluzione. Immaginate che mondo sarebbe se ogni affermazione fosse ancorata alla sua fonte, con una verifica a un clic di distanza. E pensate l'impatto devastante su un personaggio che vanta, secondo il vaglio di PolitiFact, una percentuale di menzogna intorno al 70 per cento (sì, parliamo del primatista, Lier-in-Chief 2017, che risiede alla Casa Bianca). A tremare, ovviamente, non sarebbe solo lui.
E finalmente arrivato il momento di far entrare in scena la seconda camicia impossibile, a macchie rosse, bianche e turchesi con dei polsini multicolori a quadretti, ovvero quella del capo della Wayback Machine, il principale motore mmemonico dell'archivio. Un cinquantenne con le guance paffute che informaticamente parlando ha le mostrine di un generale, avendo praticamente fondato Peace.net, una piattaforma elettronica per l'attivismo, poi lavorato a The Well, una delle più note comunità online e infine diventato dirigente di Nbc News. Il grande limite della Wayback, non c'è bisogno che glielo ricordi io, è quello dell'usabilità. Non puoi cercare con parola chiave quale homepage di Repubblica.it ti serve in una certa data ma devi sfogliare indietro nel tempo per cercare se quel tal giorno il bot l'abbia immortalata. Infatti stanno lavorando a una versione beta di una nuova interfaccia che renderà la consultazione meno penitenziale. «Per ora facciamo copie di molte pagine di circa 4000 siti di informazione da oltre 40 nazioni, ma puntiamo ad assestarci a 20 mila, cinque volte tanto. È tanto più importante in un momento come adesso in cui populisti con tendenze autoritarie impazzano un po' dappertutto». Di Twitter, il terreno di gioco dove molte schermaglie politiche hanno luogo, per il momento archiviano solo l'1 per cento ma va detto che la piattaforma si è impegnata dalla fondazione a cedere alla Library of Congress una copia integrale di tutta la propria produzione («Il museo del pattume» come ebbe a dire un commentatore). Il livello di entusiasmo di Graham non è da meno di quello di Kahle, ma si estrinseca con una tendenza maggiore alla tecnicalità. Mi accenna a un articolo, dal titolo Locking the Web Open: a Call for a Decentralized Web che, ben prima di Cambridge Analytica e altri molto pubblicizzati scandali che ci hanno definitivamente aperto gli occhi sulla fine dell'èra dell'innocenza internettiana, che quattro anni fa Kahle aveva presentato alla Ford Foundation come contributo per riscrivere l'architettura fondamentale della rete. In pratica, sostiene, il web ha due grossi problemi: non è affidabile né rispetta la privacy. Per risolverli entrambi bisognerebbe decentralizzarlo, facendo ospitare le sue pagine non da server singoli ma dall'infinità dei computer degli utenti, secondo lo schema peer-to-peer che rese famoso Napster e tanti suoi emuli. A quel punto sarebbe impossibile, o almeno infinitamente più difficile, tanto per la Cina quanto per la Nsa americana, spiare i cittadini. E poi, ovviamente, il web rinnovato dovrebbe avere incorporata una memoria, tener traccia di tutte le versioni di ogni pagina. A quell'incontro partecipava anche Tim Berners-Lee che da qualche anno lavora a un sostanziale aggiornamento della sua creatura. Il progetto, affiliato al M.I.T., si chiama Solid. Kahle, biografia e camicia lo dimostrano, non sembra eccessivamente intossicato dalla competizione. Dice: «Dobbiamo incorporare il Primo emendamento nel codice del web di prossima generazione. Dobbiamo spalancarlo a tutti. E rendere irrevocabile quell'apertura». Sui principi ha già vinto.
IL FUTURO DELLE TASSE? UN SISTEMA REGRESSIVO
L’ultima Galapagos:
Questa è una rubrica che si occupa di futuro. Prevalentemente di come la tecnologia aiuta a plasmarlo, in una direzione o nell'altra. Eccezionalmente, però, parlerò di una tecnologia molto antica per ridistribuire la ricchezza che si chiama "tasse". Perché uno studio recente di ricercatori del Sant'Anna di Pisa e dell'università Bicocca di Milano, riprendendo un altro paper di un annetto fa, ha scoperto cose che hanno molto a che fare col nostro futuro collettivo. Ovvero che, ormai, il 7% più ricco della popolazione paga meno tasse dell'ampio ceto medio che sta sotto quella soglia. E che quindi, in barba all'articolo 53 della Costituzione secondo il quale chi ha di più deve dare di più (questa è la progressività), al vertice il nostro sistema fiscale è diventato regressivo. Aiuta i ricchi a danno di tutti gli altri. Com'è stato possibile? Semplice. La tassazione è modellata ancora sul mondo di ieri dove uno era ricco se guadagnava tanto. Ora i ricchi veri sono tali per le rendite (tassate al 21%) e soprattutto per le azioni (tassate al 26%). Quindi decisamente meno di quello (ne parlo nel mio libro) che un qualsiasi dipendente benestante si vede tolto alla fonte dal proprio datore di lavoro. Se vogliamo, nel mondo di oggi e ancor più in quello di domani, continuare a godere di un briciolo di prosperità condivisa bisognerà cambiare quella vecchia tecnologia per aggiornarla allo scenario cambiato. Che prevede di tassare la ricchezza, da qualunque parte venga, allo stesso modo.
Epilogo
Un nuovo giorno, un nuovo massacro a Gaza. Centocinquanta tra morti e feriti sotto i bombardamenti israeliani di un campo profughi. E qui la telefonata disperata di un medico di uno dei pochissimi ospedali sopravvissuti che dice “ci stanno bombardando, moriremo tutti”.