#156 Il contrario del sovraturismo
1) C'è gente che spende 20 mila euro in un giorno per vedere Roma con guide extra 2) A zonzo con facoltosi turisti cinesi alla Cappella Sistina 2) Il migliore giornalista economico ha perso lucidità?
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LA ROMA PER L’1%
Ce l’abbiamo tutti con l’overtourism – io c’ho anche scritto un libro – ma esiste anche, se mi passate il conio, l’undertourism. Dove dieci turisti ricchissimi spendono come cento normali. Ho passato una mezza giornata con loro. L’attacco del reportage sul Venerdì in edicola:
Roma. Davanti a un’iscrizione funeraria in greco nelle catacombe di San Sebastiano, III secolo dopo Cristo, il capofamiglia della South Carolina ha un’illuminazione: «Presto, grazie all’intelligenza artificiale, sarà sufficiente puntare la fotocamera per capire cosa c’è scritto». Donato, la sapientissima guida che ha tradotto sin lì, prova a celare una smorfia di dolore. Fulvio De Bonis, lo spigliato amministratore delegato di Imago Artis Travel, invece conviene col cliente: «Stiamo infatti lavorando a una app che…». «E fate bene» lo interrompe l’ultrasessantenne brillantinato col fisico palestrato che probabilmente ha fatto i soldi col tech, «altrimenti finirete fuori mercato». Il primogenito di questa comitiva familiare di sette persone, comprese le fidanzate dei due ragazzi grandi, sorseggiando una RedBull aveva già interrogato la guida: «Dodici chilometri di cunicoli? Li ha percorsi davvero tutti?». Per poi bissare con una domanda «forse sciocca» ma alla fine legittima: «Ma se le chiese appartengono al Vaticano significa che, dal punto di vista della legge, ora non siamo in Italia?». Se solo ci fosse stato campo sarebbe bastato consultare l’invocata ChatGPT per scoprire che no, nelle chiese vale la giurisdizione italiana. Il senso dei cimiteri paleocristiani per i luxury travelers.
Son riuscito a farmi aggiungere a questo gruppo ristrettissimo che paga una cifra segreta, ma senz’altro superiore ai tremila euro («è il minimo per un pacchetto» concede, dopo notevole insistenza, la cofondatrice Chiara Di Muoio), per un tour iniziato nel pomeriggio del giorno prima che finisce con le catacombe e una «sorpresa» in zona via Giulia. Strana reticenza dal momento che, con la rivista BusinessWeek, senza specificare troppo avevano candidamente ammesso «oltre 15 mila dollari per esperienze esclusive per quattro persone». E che una loro concorrente, più laica sul tariffario, confesserà senza sforzo che una giornata intensa e speciale a un ricco maltese è costata 20 mila euro. Colosseo e Cappella Sistina non possono mancare ma, come nei videogiochi, vissuti a un livello superiore al quale solo pochi hanno accesso. Roma per l’1 per cento, parafrasando lo slogan coniato dal Nobel Stiglitz.
COME SI DICE COLOSSEO IN CINESE?
Dieci anni fa sono stato un giorno in giro per Roma con dei ricchi turisti cinesi. Questa è la cronaca di quell’esperienza:
Roma. Davanti a un Colosseo imbracato per restauro i turisti fanno la fila per lasciarsi fregare. Il conducente, con bermuda, cappellino da baseball e tatuaggi postribolari, chiede centottanta euro: «Famo Piazza Venezia, via del Corso, Palazzo Chigi e arivamo a Trinità dei Monti». La guida traduce in cinese e Sophia, che sembra appena uscita da Pitti Donna, ne offre 150 che ovviamente l’altro accetta (sdegnato, farà il viaggio al trotto rallentando, ma non fermandosi mai, per le photo-op promesse). Huan ying lai dao yi da li, benvenuti in Italia, portatori sani di valuta in tempi di vacche magre! Apprezziamo la vostra visita al punto da farvi sudare per il visto, negandovi in stanza il bollitore (da 10 euro) per l’acqua calda che vi piace tanto e proponendovi mappe e guide spesso in giapponese, quel popolo con cui notoriamente avete una secolare, splendida intesa.
Quello dell’accoglienza dei cinesi nel nostro Paese è un frattale perfetto dello stato di salute del turismo italico. Che a sua volta sembra ricalcare le nostre sorti calcistiche: talenti incalcolabili che si fanno battere da chi si applica di più, uruguaiani inclusi. Nonostante questo, nonostante tutto, i cinesi vengono sempre più numerosi. Circa 300 mila all’anno, desumendo il dato dai visti che chiedono nei nostri consolati in Cina. E spendono sempre di più. «Nel 2013 hanno fatto registrare una crescita del 20 per cento per i rimborsi dell’Iva sugli acquisti e da soli valgono poco meno di un quarto del mercato italiano del Tax Free Shopping. Secondi solo ai russi» dichiara Global Blue, azienda specializzata in servizi ai turisti. Uno scontrino medio per 4-5 giorni di visita è di poco superiore ai mille euro. Che diventano 6200 se ci si limita all’epicentro del lusso, tipo via Condotti a Roma. Di loro possiamo dire tutto, tranne che abbiano il braccino corto. Ma, apparentemente, non ci facciamo impressionare.
Torniamo da Sophia, al suo piccolo gruppo, autonomo ma assistito. Viaggia con Julie, pubblicitaria come lei, entrambe di Pechino. E con Mao, che ha studiato e vissuto a Parigi e ora lavora in una finanziaria a Shenzen, assieme a Lou, il suo compagno ingegnere. Sono amici, trentenni del ceto medio-alto, tra la terza e la quarta visita in Italia. Non volevano intrupparsi nei bus organizzati e hanno optato per una formula su misura. Dunque hanno contattato gli uffici cinesi di Voglia di Italia Tour che li hanno mandati da Steven Lai, che vive qui da tredici anni. «Volevano guidare. Ho affittato un’Audi Q5 e gli ho tradotto il codice della strada. Poi, se si stancano, li sostituisco al volante» dice questo ragazzone di Canton, con una padronanza linguistica incredibile per essere emigrato già adulto. Li incontro alle nove al Bernini Bristol, il cinque stelle all’imbocco della sfiorita via Veneto. E salgo sul Suv nero, con Julie alla guida, fiera dei Rayban rivestiti di velluto blu che ha comprato il giorno prima. Sono già stati ad Alberobello, Matera, Costiera amalfitana e Pompei. Oggi Roma, domani Tivoli. Poi Venezia e Milano, gran finale mercantile. Mentre loro vengono scorazzati sui sanpietrini dei Fori imperiali, Steven scarica sul computer centinaia di foto che hanno scattato e ora esondavano dalle memorie digitali («Ho anche rimediato un caricatore per iPhone. Cerco di risolvere ogni tipo di problema»). Un pacchetto che costa sui 18 mila euro a testa. Due settimane. Voli esclusi. La comodità ha un prezzo. Tipo quello di non doversi più preoccupare di niente, men che meno di tirar fuori il portafogli quando andiamo a pranzo sul roof garden del modaiolo Hotel Orange vicino ai Musei vaticani, tappa del pomeriggio. Sophia viviseziona un’insalata mista, espellendo le cipolle («Non voglio alito cattivo»). Julie apprezza gli gnocchi ai calamari («Solo patate e farina? O anche uova?»). La pausa pranzo dura mezz’ora, prima dell’appuntamento con il professor Wei, autore di libri su Roma antica, che sarà la nostra guida.
Sorprendentemente Steven non ha prenotato. Ha un conto aperto con i Musei («Abbiamo depositato 5000 euro per poter prenotare anche centinaia di biglietti») ma sperava che a quell’ora non ci sarebbe stato nessuno. Bagarini di ogni razza propongono biglietti salta la fila a 33 euro, contro i 16 normali o i 20 con prenotazione («E come il Frecciarossa contro un regionale» ci sfotte uno, vedendoci procedere a rilento). Fa un caldo assassino, illudendomi di conoscere il pragmatismo cinese scommetto che accetteranno. Invece Byu, l’assistente di Steven laureata in economia a Roma Tre, che si fa chiamare Gioia per facilitarci il compito, mi spiazza: «Forse si ricorderanno di questa attesa più che di altre cose. Come quando scoppia un acquazzone improvviso. Ci lamentiamo, ma si sta più vicini, per ripararsi, e magari scattano amori». Una saggezza che ricorda terribilmente il koan zen del contadino il cui figlio si rompe una gamba, che sembra una sfiga, ma alla fine si rivela una fortuna perché non andrà a morire in guerra. Una volta entrati, la temperatura non è troppo migliore di quella esterna perché stanno rifacendo i condizionatori. Però la quantità d’arte è così sovrastante che fa dimenticare tutto il resto. Il prof Wei dovrebbero assumerlo al ministero della cultura: «Conosciamo i vini francesi, ma la vitificazione gliel’hanno insegnata i romani. Conosciamo Londra, ma la città fu fondata dai romani. Possiamo andare a Parigi da qui con una strada che fu costruita…». Il finale è noto. Spiega Adriano, l’imperatore gay; Laocoonte ed Elena, e il ruolo che ebbe nella guerra di Troia. Le cinesi vorrebbero che non smettesse più di parlare.
E allora perché vanno più in Francia e in Spagna? «Forse più volentieri anche in Germania e Svizzera, se è per quello» puntualizza Maria Salvati, con la sua Jilitour decana del turismo cinese in Italia, «perché i tedeschi sanno fare promozione e quando vanno alle fiere in Cina offrono un “sistema paese” che comprende foreste, l’Oktoberfest e altre cose allettanti». Non le sfugge che, rispetto alla nostra dotazione naturale, sono quisquilie, però dice che è finito il tempo in cui i turisti cadevano dal cielo. Tocca impegnarsi. Saper vendere. E noi non sappiamo. «Dodici anni fa gli albergatori francesi mi invitavano per mostrarmi come si preparavano ai cinesi. Noi questi discorsi li abbiamo iniziati ora». Antonella Decandia, dopo una laurea in lingue orientali a Venezia, nell’85 viveva in Cina e ha messo a frutto quella conoscenza offrendo da tempo preziose consulenze turistiche con la sua Orientalia Lab. «Partiamo male ancor prima che arrivino. Per fare il visto c’è chi deve fare ore di treno per arrivare a un consolato, per poi scoprire che non ha tutti i documenti necessari. Gli altri stati consentono verifiche online di quel che serve. Per non dire dei voli. AirFrance ha un sito tutto in cinese, non solo tradotto ma pensato per quella cultura. Mentre Alitalia rimase famosa per aver tolto i voli diretti con la Cina alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino. Speriamo in Etihad, che ha un approccio più globale». Speriamo. Intanto registriamo che l’Enit, l’agenzia nazionale del turismo, tra le sedici lingue in cui teoricamente traduce il suo sito ha messo il cinese all’ultimo posto. E non va: non traduce, non dico i testi, ma neanche i titoli delle sezioni. «Beh, dai, da qualche mese a Fiumicino hanno messo delle scritte in cinese» si felicita Andrea Fan, contitolare di Europa 2000, un tour operator cinese con sede all’Esquilino e filiale a Tor Pignattara. Lavorano principalmente con le aziende cinesi o con privati ricchi. «A Natale ho avuto una famiglia che voleva vedere la messa col Papa. Erano in quattro e hanno preteso una guida in cinese e una in inglese per i figli che studiano in America. E due auto a noleggio». Conto per tre giorni: quindicimila euro. «Vogliono stare bene, mangiare e bere bene», prosegue questo trentenne laureato in statistica a Roma e in matematica a Londra, tornato solo per prendere in mano l’azienda di famiglia: «Trovano le stanze sempre un po’ piccole, rispetto agli standard patrii, e le città sporche». Motivo che spiega l’apparente paradosso per cui, nonostante apprezzino anche in trasferta la loro cucina, non li portano mai in giro per la Chinatown romana («I barboni non danno una bella immagine»).
La sicurezza, reale o percepita, è un tema. «Sui blog cinesi di viaggio “sicurezza” rivaleggia con “arte” tra i sostantivi più associati con “Italia”» constata Steven Lai, che nel frattempo è tornato a prenderci all’uscita dal Vaticano. Alcuni racconti dell’orrore hanno contribuito alla leggenda nera. Come quella troupe venuta a dicembre per un documentario per Cctv, la tv pubblica, cui avrebbero rubato in camera anche le telecamere («Non è immagine positiva»). I cinesi, soprattutto i meno giovani, tendono a portarsi dietro un bel po’ di cash. «Una nostra cliente aveva dimenticato tutti i suoi 10 mila euro in una busta in un albergo a Firenze» racconta Byu «e se n’era accorta a Napoli, disperata. Siamo tornati e, in un cassetto, c’erano ancora. O le cameriere sono molto oneste oppure puliscono meno in profondità che da noi». Voglia di Italia lavora parecchio anche con le aziende. «Incentivi», li chiamano, ovvero i viaggi premio per i dipendenti che tante compagnie cinesi concedono. «Negli ultimi mesi abbiamo avuto 160 ospiti di Audi e 140 di Lenovo. In quei casi bisogna affittare vari bus e alberghi quasi interi. L’anno scorso abbiamo gestito 4000 persone, quest’anno speriamo di più». Mao e Lou hanno bigiato i Musei per una immersione totale nello shopping da cui riemergono carichi di buste. Due Prada, una Dior e una Max Mara. Tutte bianche ed enormi. In ognuna ci potrebbe essere l’equivalente monetario di una settimana tipo di vacanze dell’italiano in spending review. «Per loro conviene immensamente. A cose normali la moda da noi costa almeno il doppio, poi si può riavere l’Iva e ora ci sono anche i saldi» dice Steven. Il privato l’ha capito. Da Cartier, fa notare la Decandia, hanno cinque commessi che parlano mandarino. Anche da Zegna e in ogni negozio per consumi opulenti. Il pubblico stenta. Se ritarda un altro po’, Turchia e Germania sono già pronte a sorpassarci. Non faranno storie per un bollitore. Né confusione tra ideogrammi storicamente incompatibili.
SE UN TRUFFATORE (CONDANNATO) SEDUCE IL SUO BIOGRAFO
Sempre dal Venerdì in edicola l’intervista-recensione al libro sulla più grande truffa di criptovalute, firmato da quel fenomeno di Michel Lewis. L’incipit:
Ci sono buone probabilità che il nome Sam Bankman-Fried non dica granché al lettore italiano disinteressato alle pagine finanziarie dei quotidiani. Eppure il personaggio è notevole. Il classico nerd americano in pantaloncini corti estate-inverno, con un cesto di capelli che rivaleggiavano solo con certe acconciature afro. Uno con un cervello così veloce che non riusciva a fare una cosa alla volta e infatti, che discutesse con Bill Clinton o con la zarina della moda Anne Wintour, come minimo nel frattempo giocava a Storybook Brawl, il suo videogioco fantasy preferito. Ma raccontarlo solo come l'ennesimo caso clinico di quel grande padiglione psichiatrico che la Silicon Valley sembra diventata non gli renderebbe merito.
La parte succosa della sua parabola inizia quando, a 27 anni, Sam fonda FTX, uno dei principali exchange per criptovalute. Un patrimonio stimato cautelativamente in 20 miliardi di dollari lo trasforma nell'under 30 che si è arricchito più rapidamente nella storia. Lo ritroviamo, solo un lustro dopo, prima in un carcere di Brooklyn e poi in quello californiano dove sta scontando i 25 anni comminati a marzo da un giudice che ritenuto fondati i sette capi di imputazione, tra cui varie sfumature di frode finanziaria. Uno scandalo economico paragonato a quello di Enron e di Lehman Brothers. Come montagne russe biografiche, difficile fare meglio. Era quindi inevitabile che nei buchi della sua storia – è giudiziariamente colpevole ma è anche una persona orribile? – facesse il nido qualche scrittore. In questo caso il numero uno dei giornalisti economici in circolazione: l'americano Michael Lewis.
Uno con una ventina di libri alle spalle, molti dei quali strepitosi e in ogni caso mai meno che molto belli. Da A Liar's Poker in cui raccontava i suoi esordi da broker a Wall Street a Moneyball, sul cambiamento tellurico che la statistica ha impresso al gioco del baseball. Da La grande scommessa, la più avvincente ricostruzione di sempre della crisi del 2007-2008, a Flash Boys, sui matematici che stanno dietro al trading ad alta frequenza, con algoritmi che comprano e vendono in millisecondi. Trattandosi di un superdotato anche questo Verso l'infinito e oltre (Chiarelettere, pp. 320, e. 22) è scritto divinamente ma, per la prima volta, ha spaccato la critica con un giudizio collettivo che fa più o meno così: non è che l'autore si è innamorato troppo del suo personaggio?
Tra gli scettici anche il vostro cronista che pure – in una vita precedente – aveva firmato un'entusiastica prefazione all'edizione italiana di un altro suo libro, l'illuminante Next. il futuro è già arrivato. E quindi ha affrontato l'incontro via Zoom con l'imbarazzo del groupie che deve dire all'idolo: sai che stavolta non mi hai del tutto convinto? L'interesse di Lewis per Bankman-Fried inizia quando un suo amico, che poi si scopre essere il matematico autistico (Brad Pitt, nell'adattamento cinematografico di La grande scommessa) che fa carrettate di dollari puntando in solitaria sul crollo dei subprime, gli chiede di andarlo a conoscere per capire che tipo è e se sia il caso di investire nel suo exchange. Lewis va e dichiara: «Fai qualsiasi cosa ti chieda di fare: con un tipo così non c'è niente che possa andare male!». Alla luce degli eventi successivi, questa sentenza aggiorna pesantemente al rialzo la formula "ultime parole famose". Il minimo che si possa dire è che sia stato un giudizio molto generoso, no? «Di più» ride, «è stato chiaramente sbagliato. Ma è arrivato dopo solo due ore di conversazione. Alle quali ne sono seguite poi migliaia, nel corso di cinque anni. Al termine delle quali posso dire che, al tempo stesso, è una persona in grado di ingannare ma anche incredibilmente aperta e onesta. Uno che, ovviamente, ha enormi problemi di empatia però non ha quella malizia che ho incontrato in tantissimi manager. Se fa qualcosa che nuoce agli altri non lo fa per cattiveria ma perché è incapace di sentire le conseguenze». Insomma uno psicopatico – chiedere alla fidanzata Caroline Ellison, poi diventata socia, coimputata e infine accusatrice, per credere – nei confronti dei quali l'autore, però, continua a simpatizzare.
WHATSAPP COME MEMORIA TOTALE
L’ultima Galapagos:
Tutti sanno che cos'è Whatsapp. Pochi sanno, e io tra quelli sino a pochi giorni fa, che può diventare una sorta di archivio generale, dove salvare appunti, foto, scrivere idee estemporanee, mandarsi biglietti del treno per rapida consultazione, la posizione di dove abbiamo parcheggiato e così via. Dal momento che moltissime delle nostre comunicazioni passano da lì, infatti, basterà inoltrare questi testi o documenti a se stessi. Ma come si fa? In verità è facile. La via più diretta è iniziare una chat col proprio numero. Quella leggermente più complicata (ma con in più la funzionalità di mandare l'orario di un evento di cui la app ci manderà poi opportune notifiche) è creare un gruppo di due persone e poi togliere la seconda. Rimarrete solo voi, potete mettere quel gruppo unipersonale tra i preferiti (per trovarlo sempre al volo), e basterà spedire lì testi, immagini, video e tutto quel che vi preme ricordare. Se siete di quelli infastiditi da liste che diventano troppo lunghe, potete poi spuntare le cose fatte cancellandole come si fa con qualsiasi messaggio Whatsapp. Altro vantaggio è trovarsi gli stessi documenti sulla versione web di Whatsapp, così diventa una maniera molto efficiente di scambiare file o link dal telefono al computer. Lo uso da una settimana e per me funziona benissimo. Se non vi spaventa il lieve retrogusto psicopatico di chattare con se stessi, potete provare anche voi.