#145 Zanzare e cinghiali (pochissimi i cinghiali)
1) Quel fastidioso zzz ormai tutto l'anno 2) cinghiale alla romana 3) cibi (ultraprocessati) da evitare accuratamente 4) è un club o un ristorante? 5) se anche Uniqlo si italianizza
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ZZZZZZZ ESTATE/INVERNO
Come sempre più spesso faccio accadere, ho trasformato una piccola disavventura personale in una vicenda di interesse (spero) più generale. Parliamo dello strano caso delle zanzare in inverno. L’incipit del servizio di copertina del Venerdì in edicola:
CREVALCORE (Bologna). Zanzare ad aprile, fameliche come d'agosto. È questo il mondo al contrario, altro che quello di Vannacci. Così, per una serie di motivi personali che svelerò nel finale, su Amazon scovo una lampada che dovrebbe attirarle con i raggi ultravioletti e poi friggerle su una griglia elettrificata, versione mignon di quelle trappolacce violacee dei bar di provincia. Ben 10.189 persone le hanno dato lo stratosferico punteggio di 4,8 stellette su 5. Per venticinque euro la ordino. Senonché al termine di una settimana di uso continuativo, mentre gli insetti volanti continuano indisturbati il loro fiero pasto, non ne ha beccata nemmeno una. Perché, allora, tutte quelle entusiastiche recensioni? E che valore potevano avere i commenti in estasi per le macchinette a ultrasuoni, i braccialetti repellenti o per il diluvio di rimedi naturali che la scienza irrimediabilmente boccia nel contrasto a questi animali dell'ordine dei ditteri, famiglia Culicidae, genere Culex, specie pipiens, in altre parole le zanzare comuni? In redazione eravamo in tanti ad averle in casa già agli inizi di primavera. L'anno scorso l'istituto zooprofilattico delle Venezie le dava per triplicate rispetto al 2022. La Vape, sinonimo di fornelletti e altri emanatori, ha aumentato di un terzo la produzione tra 2019 e 2022. L'Economist dedica un editoriale allarmatissimo al raddoppio in vent'anni di casi di dengue nel mondo. Titolo: «Una malattia portata dalle zanzare si sta diffondendo col riscaldamento del pianeta». In Puglia, dopo oltre cinquant'anni, viene addirittura ritrovata l'Anopheles sacharovi, tra gli storici vettori della malaria nel Paese. Sulla base di questi indizi mi sono messo sulle tracce di un autorevole zanzarologo per capire se era possibile, e come, assicurarci un'estate indenne da punture. Risposta breve: soluzioni miracolose non ne esistono. Strategie migliori di altre però sì. E diserbare il dibattito da tante inutili erbacce che lo infestano è comunque un passo avanti. Cominciamo.
IL CENSIMENTO CON LE OVITRAPPOLE
Il nostro uomo è l'entomologo Romeo Bellini, fino a pochi mesi fa direttore dell'entomologia medica del Centro Agricoltura Ambiente (CAA), ospitato nel bel Castello dei Ronchi di Crevalcore, un'oretta a nord di Bologna. Pianura padana, paradiso dello Zzzzz. Un uomo alto, a prima vista severo, che nelle sue varie missioni in giro per il mondo ha raccattato anche una malaria niente male ma resta così amico degli insetti che è professionalmente tenuto a lottare che, a casa sua, si limita a conviverci serenamente.
Partiamo dal dato macro, il triplicamento dell'anno scorso: colpa della crisi climatica? «Non dubito che ci sia stato, ma va detto che oscillazioni fortissime nei censimenti sono normali. Di certo, però, l'allungamento della stagione calda favorisce la schiusa delle uova e rende verosimile un aumento, che peggiorerà con l'aumento della temperatura. Perché a 15 gradi ci vuole un mese per passare da uovo ad adulta, mentre a 30 gradi basta una settimana». Calcolarne la popolazione tuttavia non è banale. Il primo strumento è l'ovitrappola, un vasetto di plastica nera con dell'acqua sul fondo dove le zanzare, soprattutto le più pericolose "tigre", depongono le uova che poi i ricercatori contano. «Qui in regione ne abbiamo posizionate 755. Danno una stima indiretta. Se troviamo più di cento uova alla settimana, valore che nelle ultime estati sforiamo sempre, diamo l'allerta per il rischio di epidemia». L'anno scorso i casi di dengue in Italia sono stati 82. Trecento quelli di chikungunya nel 2007, «primi in Europa», dalle parti di Ravenna.
CACCIA AL CINGHIALE ALL’OMBRA DEL COLOSSEO
Mi ero occupato di animali anche un paio di anni fa quando i cinghiali catturavano la fantasia dei romani. Non so se ora sono di meno, senz’altro se ne parla meno. L’attacco di quel pezzo:
Roma. Incontro mancato per una setola. A testimonianza del passaggio restano quattro cassonetti capovolti, col contenuto sparpagliato per terra, che ostruisce via dell’Acqua Traversa, zona Cassia antica, quadrante Nord-Ovest di Roma. Se non è stato un tifone straordinariamente circoscritto, sono stati i cinghiali. Che scendono indisturbati, per le provviste notturne, dalla vicinissima riserva naturale dell’Insugherata. È quasi mezzanotte. Da un paio d’ore con Valerio Nicolucci, giovane tecnico faunistico, cerchiamo di avvistare i bestioni che hanno colonizzato l’immaginario capitolino, e non solo. Parco delle Sabine. Parco di Talenti. Bosco della Marcigliana. La città è circondata dal verde. Invasa. Certi spartitraffico hanno l’erba alta di una savana. Nicolucci scruta l’orizzonte con una termocamera, un cannocchiale da quattromila euro per la visione notturna. Alla fine conta sette volpi. Avvista in lontananza due masse nere. Sono loro? È un attimo e scompaiono. Dove ieri ne avevano segnalati, oggi niente. Pronti ad alzare bandiera bianca, spuntano i cassonetti spiaggiati. «È il colmo» dice, «che i secchioni non siano interrati. È come invitarli a un banchetto. Per tacere del verde pubblico che, in queste condizioni, diventa un rifugio ideale. Hanno alloggio e vitto facile: il paradiso!».
UNA NAZIONE INVASA
Che diventa inferno urbano anche nel resto del Paese. “Rieti, scatta la caccia al cinghiale infetto”. “Genova: protesta contro l’abbattimento”. “Agricoltori pugliesi allo stremo” per i raid nei campi. “Cinghiali a spasso nel catanzarese”. “Molise, avvio ai corsi per il selecontrollo”, che è un modo mirato per farli fuori. Basta un giorno di titoli su Google News per capire che, se non l’èra, è sicuramente tornata l’estate del cinghiale nero. E, come con ogni problema che si rispetti, urge un colpevole all’altezza della situazione. Nella capitale sembrava facile: «È colpa della Raggi», l’ex-sindaca affondata (anche) sulla spazzatura. Ma ora lei non c’è più e i cinghiali restano. Allora dito puntato contro i cacciatori, che ieri li hanno ripopolati ma oggi sono arruolati per sterminarli. Non resta che il solito governo ladro, che ha cancellato i forestali. Come succede nove volte su dieci, le ragioni vanno a braccetto coi torti. Si tratta di quantificare le rispettive quote. Di un’emergenza prima tale solo per gli agricoltori che, via Coldiretti, protestano sotto al Parlamento per danni da 200 milioni di euro all’anno.
«È un dibattito surreale» esordisce il ricercatore Andrea Monaco negli uffici dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra). Con pochi punti fermi. Uno: «Dieci anni fa i cinghiali venivano avvistati solo in due città: Trieste e Genova. Adesso in 105». Due: «Non esiste un vero censimento ma, a partire dai 300 mila prelievi (eufemismo per uccisioni regolamentate) del 2020 stimiamo il totale in almeno un milione di esemplari». Tre: «A metà anni 50 i cinghiali da noi, tranne in Maremma e a Castel Porziano, erano quasi estinti. Sono state regioni e province, col beneplacito dei cacciatori, a fare le immissioni (altro gergalismo a indicare il ripopolamento) per ottenere una risorsa faunistica sfruttabile dal punto di vista venatorio, che significa anche consenso politico e tasse». I famosi cinghiali romeni che, da narrazione sovranista su altre specie presunte infestanti, avrebbero sostituito i nostri figliando di più («Non è così, dai test genetici la nostra specie risulta ancora italianissima»).
UPF, OLTRE IL JUNK FOOD
Su questo Venerdì ho anche un secondo pezzo che non c’entra nulla col resto. Eccolo:
Alcuni ingredienti del pollo con verdure Nestlè, così come elencati dal dottor Chris van Tulleken: isolato proteico di soia, amidi modificati di mais e tapioca, maltodestrina di mais, fosfato di sodio, cloruro di calcio, amido di mais modificato. È questa, badate bene, è la linea Lean Cuisine, quella a parole sana della più grande a di cibo al mondo. Peccato che il 60 per cento degli alimenti prodotti da questa multinazionale da oltre 100 miliardi di dollari di fatturato all’anno non rientri, secondo un’inchiesta del Financial Times di un paio di anni fa, in una “condivisa definizione di cibo sano”. La buona notizia è che roba del genere, sugli scaffali italiani, non va via come il pane come in America o nell’Inghilterra dove vive l’autore di Cibi ultraprocessati (Vallardi, pag. 368. e. 18,90). La cattiva è che, a spulciare con attenzione gli ingredienti degli alimenti apparentemente più elementari e inoffensivi, come la cioccolata fondente di una grande catena di supermercati italiana, spunta fuori un non meglio precisato “aroma” che non si capisce proprio che ci stia a fare. «L’aroma deve venire dal cacao» obietta, perfidamente soddisfatto perché sin lì aveva dovuto subire la schiacciante superiorità della cultura gastronomica italica, l’infettivologo dell’University College London, nonché divulgatore per la Bbc.
Prima si diceva junk food, oggi “cibo ultra processato”: è solo una questione terminologica o è cambiato qualcosa?
«Dove vivo io la pizza viene generalmente considerata cibo spazzatura perché quella che le persone normali mangiano a casa è congelata e piena di schifezze. Lo stesso non vale da voi. Junk food era un’etichetta stigmatizzante, non scientifica. mentre ultra processed food (upf) si riferisce al gruppo 4, il peggiore, di una tassonomia più scientifica che si chiama Nova e che descrive alimenti fatti con ingredienti industriali che a stento si possono definire cibo».
Che il cibo industriale non faccia granché bene è notizia vecchia. La novità è che sarebbe pensato per creare assuefazione in chi lo mangia, è così?
«Centinaia di persone che lavorano nell’industria del cibo e che ho intervistato me l’hanno confermato. D’altronde chi produce cibo ha solo due metodi per fare più soldi: abbassare il costo degli ingredienti (invece del pomodoro il colorante e l’aroma di pomodoro, invece delle fragole l’etilmetilfenilglicidato) o ingegnerizzare i cibi affinché tu ne voglia mangiare sempre di più. Solo quest’anno parteciperò a due conferenze scientifiche dove il tema dell’assuefazione da cibo ultraprocessato sarà centrale. Creano dipendenza quanto le sigarette o l’alcol, ma i nostri sistemi pubblici non reagiscono allo stesso modo. Intanto però da noi un quarto dei bambini di 10 anni è obeso. Voi siete senz’altro messi meglio, ma non sprecherei il vantaggio».
Ma, in pratica, qual è un modo veloce per capire se un cibo è ultraprocessato?
«Se c’è una lista di ingredienti, probabilmente lo è. Se pretende di far bene alla salute, probabilmente lo è: sui broccoli non trovate avvisi! Se è fatto da una multinazionale. Se ha ingredienti che non esistono nella vostra cucina. E così via».
E tra tutti gli addittivi, alcuni sono peggiori di altri?
«Probabilmente di emulsionanti, che servono a legare gli ingredienti, imitando i più costosi latte, panna e uova. I dolcificanti ipocalorici che, come scrisse Trump a proposito della Coca-Cola Zero, “ti fa venire fame”. Ma anche gli aromi, che non fanno male direttamente ma scombinano la capacità dell’organismo di riconoscere i sapori e regolare l’assunzione di cibo».
Nel libro lei parla male anche di fagioli in scatola, ma nel barattolo che ho davanti a me non c’è nient’altro che fagioli, acqua e sale…
«Certo, il problema è che dalle nostre parti – e ancora peggio in America – molte persone non scelgono l’opzione più semplice. I fagioli in scatola di cui parlo io sono con pomodori il cui sapore viene da ingredienti ultraprocessati».
Di recente, usando la app Yuka che scansiona i codici a barre degli alimenti, ho scoperto che i cereali della marca probabilmente più celebre al mondo, con aggiunta di frutti di bosco disidratati, aveva il drammatico punteggio di 33/100. Lei non sarà sorpreso?
«Niente affatto. Direi che il grosso dei cereali è upf. Per non dire dei Coco Pops, cui dedico pagine e di cui le mie figlie sono ghiotte. O delle Pringles la cui forma “a sella”, nota come paraboloide iperbolico, è quasi perfettamente congruente con le curve della lingua per esaltarne la sapidità. Non a caso il loro claim è: “Una volta che inizi, non puoi più smettere” e anni fa sul Guardian le descrivevano, senza che nessuno querelasse, come “crack in un tubo di cartone”».
Scrive che, in un mese di dieta a base di upf lei è ingrassato di 6 chili mentre suo fratello gemello, negli Stati uniti, in pochi mesi ne ha presi addirittura 20. Il problema è che, in America, la spesa alimentare è passata dal 43 per cento del budget familiare di inizio 900 al 10 per cento attuale, anche grazie alla robaccia che descrive. Come pensa di convincere persone povere a mangiare meglio?
«Io non voglio convincere. Vorrei che la gente, leggendo il libro, si arrabbiasse e pretendesse un cambiamento nel sistema. Basta sussidiare aziende che producono schifezze che generano malattie, quindi spese per il sistema sanitario e infine anche un danno economico per i contribuenti. Il risparmio al supermercato, a ben vedere, è solo apparente. Voi avete una grande cultura del cibo, noi per niente, e molti lettori avvertiranno come esotici alcuni miei allarmi. Però vi consiglio di salvaguardarla, altrimenti tra cinque-dieci anni potreste trovarvi dove ora siamo noi».
È UN RISTORANTE O UN CLUB PRIVATO?
La penultima Galapagos:
Essendo a Copenaghen, per alimentare almeno il mio sconcerto verso la hybris degli ultraricchi, ho dato un'occhiata al sito di Noma, il locale ristorante di culto. Il menu minimo, dell'offerta vegetariana, va per 530 euro e le prenotazioni, per la stagione estiva che parte dal 18 giugno, sono già tutte esaurite ma ci si può aggiungere alla lista di attesa. Sarà per un'altra vita. Ingorgo che mi ha fatto venire in mente un recente articolo del New Yorker sull'ultima tendenza dei ristoranti newyorchesi: accettare solo clienti abituali, come se fossero membri del club. La cronaca parte dal 4 Charles Prime Rib, di fatto un'hamburgeria di lusso nel West Village, dove per l'essere umano normale è quasi impossibile entrare (stando a Resy, la app di prenotazioni, quando i nuovi posti vengono resi disponibili ogni giorno alle 9 ognuno compete con almeno un migliaio di altri aspiranti clienti. Un po' come i click day per la carta identità digitale a Roma). L'altro esempio è Rao's, a East Harlem, che è ormai ufficialmente un club. E c'è gente che, quando non usa la sua prenotazione fissa, se non la regala a qualche amico la può mettere all'asta facendoci anche "decine di migliaia di dollari". Per ovviare all'increscioso problema hanno anche inventato Dorsia, una app che riserva dei posti difficili da ottenere a chi è disposto ad anticipare una grossa somma, non rimborsabile, che di fatto copre abbondantemente le spese della cena medesima. Che tu la faccia o no. Uno dei gestori convertito al "modello club" spiega che, fra inflazione e affitti alle stelle, «è più facile concentrarsi su 600 clienti fissi che possono permettersi il conto che servire le masse. Azzerando così il rischio di no-show, ovvero che qualcuno prenoti e non si presenti». Nella modaiola zona di Hudson Yards è nato ZZ's Club con una sottoscrizione annuale che parte da 30 mila dollari. E la lista è destinata a crescere. Vale la pena notare che alcuni di questi ristoranti sono cash only, il che dovrebbe far suonare un campanello all'Internal revenue service, l'agenzia delle entrate locale. E che la app per prenotazioni quasi impossibili si chiama così in onore al ristorante ultra-esclusivo di… American Psycho.
SE ANCHE UNIQLO SI ITALIANIZZA
E l’ultima:
Piccolo apologo su uno scontro di civiltà consumistica a Largo Chigi. Da tempo immemorabile sono un fan di Uniqlo, versante piumini e dintorni. Così ho atteso con trepidazione che finalmente il negozio aprisse anche a Roma, buon ultimo dopo praticamente tutto il resto del mondo. Attribuivo all'evento addirittura una portata civilizzatrice che portava la città eterna – eternamente in ritardo – più vicina all'Europa, o almeno più vicina a Milano dove quelle vetrine ci sono da cinque anni e adesso hanno addirittura raddoppiato. Quindi faccio la mia fila e, siccome ho ospite mia madre, compriamo un bel po' di roba per lei e un impermeabile per me. A casa però mi accorgo che cade male e la stoffa molto sintetica attrae lo sporco come un magnete al neodimio. Poco male: lo cambierò. Senonché quando ci torno con scontrino e busta originale mi contestano che manca l'etichetta, ovvero un pezzo di cartoncino che possono ristampare senza alcun problema. Chiedo di parlare con la manager che non sente storie: «C'è scritto sullo scontrino!». Che è vero, ma a New York, nella stessa catena, negli anni ho restituito cose dopo settimane senza che nessuno mi chiedesse alcunché. Bastava lo scontrino che provava che l'avevi comprato lì. Perché a Roma no? Mistero. Tantopiù che c'è sempre la fila di nuovi entusiastici clienti e l'avrebbero rivenduto in dieci minuti. E se i loro resi funzionassero come su Amazon, non solo non servirebbe l'etichetta originale ma puoi anche aver aperto il prodotto e averlo usato ben bene ma non avrebbero comunque niente da eccepire. Tutto questo per dire che nessuno, a quanto pare, resiste alla forza di gravità del burocratismo italiano. E anche i samurai di Uniqlo (l'azienda è giapponese) when in Rome do as romans do. Dimenticandosi che la forza dei maestri del retail, Amazon in testa, è l'assoluta serenità nell'esperienza d'acquisto. Anche quando sembra terminata.
Epilogo
Mentre a Gaza la carneficina continua indisturbata, quando c’è da fare sul serio, come votare per riconoscere alla Palestina lo status di membro all’Onu, l’America è in prima fila a far mancare il suo voto. Sul fronte della resistenza allo status quo, invece, esce oggi da People il libro Gaza, la scorta mediatica del mio amico Raffaele Oriani. È un atto d’accusa molto potente e ci tornerò. Intanto, se vi interessa una prospettiva critica su come i giornali occidentali seguono il massacro in corso, lì la troverete. Vi segnalo anche questo scambio al calor bianco tra Piers Morgan, ex direttore di giornalacci inglesi né in alcun modo mio eroe, e il portavoce del governo israeliano. Una fermezza generalmente sconosciuta alle nostre latitudini.